Una finestra
sul sepolcro – Enna 1944 –
di Pino Ferrante
Gli eventi bellici erano in Sicilia cessati sin dal settembre
1943. La guerra continuava nel continente ma gli stenti, la
miseria e le sofferenze erano di casa nelle maggior parte delle
famiglie dell’isola. La borsa nera dei beni di prima necessità o
come volgarmente si diceva l’intrallazzo e gli aiuti
dell’amministrazione militare alleata consentivano ai più in
qualche modo di sopravvivere. Le scatolette di salmone, di
fagioli e di carne dell’esercito USA arricchivano di proteine la
modesta dieta dei siciliani di pane, pasta e verdure. Il
banditismo imperversava nelle contrade della Sicilia con i
conseguenti conflitti a fuoco con i pochi tutori dell’ordine
pubblico, cui si richiedevano spesso doti di vero eroismo.
Era maggio. I primi tepori di primavera, che addolcivano la
frescura di un leggero vento di tramontana dopo un inverno
freddo e triste anche per noi ragazzi, scaldavano i corpi curvi
dei vecchietti del ricovero di mendicità; erano assisi, avvolti
negli scapolari, sui sedili in pietra sistemati attorno l’antica
chiesa dei Cappuccini del cimitero. Ero lì insieme ad altri
coetanei ad esercitare una delle trasgressioni tipiche
dell’adolescenza ossia del bivaccare e del rincorrersi tra le
tombe e i cumuli sepolcrali, quasi a sperimentare e saggiare
materialmente il rapporto con la morte. Don Paolo raccontava ai
vegliardi storie vissute o favole apprese all’opera dei pupi.
Coloriva il racconto con un gesticolare da attore di strada con
arguzia e con tale emozione che ad ogni risata gli ultimi due
incisivi sporgevano dalla sua bocca, dondolando come il piccolo
battaglio della campanella che egli suonava ogni volta “u gnuri”
nella sua divisa d’ordinanza, alla guida della carrozza dei
morti con il suo ultimo ospite, appariva in cima al viale. Era
un suono lieve e delicato, forse riservato solo alle anime; per
noi ragazzi, invece, era un segnale sonoro che indicava ai vivi,
semplicemente, il transito di un loro simile da un mondo
conosciuto e tangibile a quello del mistero e dell’ignoto.
Don Paolo si accorse della nostra presenza; eravamo attratti da
quel ciarlare ricco ed espressivo su un passato da noi
conosciuto soltanto tramite il libro di lettura, il sussidiario
e la voce del maestro. Don Paolo, guardandoci con gli occhi
opachi per una cataratta mai curata, così esordì: “ Avete forse
marinato la scuola? Non ci fa niente. La storia ve la insegno
io, anche se non so leggere e scrivere. Intanto vi chiedo se
siete disposti a sentirmi. Sono certo che ascolterete in
silenzio perché vi parlerò della mia vita di soldato nel 1911,
come combattente nella guerra di Libia. La guerra, la violenza e
il sangue attirano sempre la curiosità, anche se sono i veleni
dell’umanità.”
Noi ragazzi ci guardammo e il consenso fu unanime. Solo uno di
noi continuò a correre inseguendo con una bacchetta un cerchione
di ferro su e giù per le pendici.
Don Paolo continuò con foga: “ Avevo ventotto anni e partii per
la guerra senza avere alcuna idea politica. Non sapevo perché
l’Italia l’avesse dichiarata , chi erano i miei nemici e cosa ci
facevo in una terra che mi apparve, subito dopo lo sbarco, come
la piana di Catania; con la differenza che invece dei braccianti
etnei vi erano altri poveracci a faticare per altri padroni; da
civile ero zolfataio e mi decisi per la paga di soldato perché
mi consentiva di stare all’aria aperta e di risparmiare il costo
del “mangiare”. In miniera rischiavo la vita e ogni giorno
trascorso sotto terra era un purgatorio se non proprio un
inferno.”
In Libia ci guidavano persone che in patria erano i nostri
padroni. Invece del vestito di velluto indossavano le divise di
ufficiale, calzavano gli stivali e impugnavano il frustino con
l’arroganza di chi tiene in pugno il tuo destino”.
Si fermò per prendere fiato. Mi ricordai che anche il mio buon
maestro “Vilasi” aveva partecipato a quella guerra ma non lo
immaginai nel ruolo dell’arrogante, seppure fosse di una
severità certamente eccessiva. Ne feci cenno a don Paolo che
così rispose: “ Il tuo maestro, che conosco e stimo, usa le mani
come giustamente fa un padre di famiglia per educare i figli.
Siamo andati in Libia per fare lì i padroni; con i locali che si
opponevano eravamo crudeli e spesso spietati. Le forche per quei
poveracci erano sempre in funzione. Mi viene da ridere quando ci
chiamiamo e ci sentiamo cristiani. Anche noi italiani, cari
ragazzi, abbiamo le mani sporche di sangue innocente e la notte
non dormo perché a distanza di oltre trent’anni mi rode il
rimorso per non avere avuto allora la forza di rifiutare la
facile e a volte gratuita violenza di dominatore.”
Don Paolo ebbe un attacco di tosse stizzosa, come se quel
discorso avesse irritato oltre al pensiero anche la sua gola. Si
riprese e continuò: “L’anno scorso nel mese di luglio sotto le
finestre del ricovero, nel campo adiacente al muro di cinta,
sono stati seppelliti un centinaio di soldati e ufficiali del
nostro esercito appartenenti al ramo genieri. Erano arrivati
all’imbrunire ad Enna dalle Madonie e stavano per accamparsi nel
boschetto del macello. Giunsero improvvisi gli aerei nemici e in
pochi minuti quei poveri ragazzi furono sterminati a colpi di
mitraglia e di bombe. Un massacro di uomini a cui era stato
detto nel corso della loro breve vita che il loro sacrificio
avrebbe fatto grande la “Patria”e che con la sicura vittoria dei
paesi dell’Asse il mondo avrebbe avuto finalmente pace e
giustizia. Un discorso a me proposto dai governanti dell’epoca
nel 1911 e nel 1915 in occasione della grande guerra; ad altri
morti di fame come me nel 36” e nel 37” in occasione della
guerra d’Africa e a quella di Spagna vennero rivolte le stesse
parole e coltivate le stesse illusioni. Con la prima avremmo
dovuto arricchirci togliendo la terra agli abissini e con la
seconda abbiamo aiutato un dittatore a togliere di mezzo un
governo democratico che stava tentando di risolvere i problemi
di noi “morti di fame”. Un bel comportamento da “cristiani”.
Io ho capito da tempo questo imbroglio che si ripete da
millenni. Ma non riesco a farlo capire agli altri e ai
vecchietti del ricovero che, pur stando qui alloggiati dentro le
mura del cimitero ad un palmo dalla fossa, vivono qui tranquilli
e si comportano come se si trovassero nel loro quartiere o “nel
chiano di San Francì” in mezzo alla loro gente. Noi del ricovero
di mendicità siamo diventati fortunatamente come i tedeschi e i
popoli del nord che ospitano i loro morti nel cuore delle città
e dei borghi, non temono l’aldilà e usano come giardino dei vivi
quello stesso dei loro morti. Non ci crederete, ma anche le
povere bimbe dell’orfanotrofio di San Michele sono, come noi
vecchi qui attorno, abituati alla morte. Senza alcuna pietà, con
la nebbia, con la pioggia, con il vento e con la neve seguono i
feretri dei benestanti lungo le strade di Enna con le loro
mantelline grigie e con il baschetto calato sui loro riccioli.
Il suono delle campane a morto è la loro consueta musica insieme
alle sinfonie funebri dedicate ai defunti di rango davanti la
chiesa di Santa Croce e a questa chiesa dell’ultima dimora.”
Approdai in quel momento ad una visione nuova della realtà in
cui ero immerso e ad una verità assai lontana da me e mai
avvertita. E la condivisi talmente da chiedere a don Paolo di
accompagnarmi nella visita del campo dei caduti in divisa del
luglio 1943. Mi prese per mano e mi condusse lungo i sentieri
tracciati tra le fosse di inumazione. Su ciascuna di esse vi era
una croce e una targa in marmo con le generalità del giovane
martire. Don Paolo, stringendomi forte la mano, commosso e
solenne mi disse: “Questi sono i miei figli o i miei nipoti. La
finestra della cameretta dove vivo mi consente di vegliarli fino
a quando li raggiungerò. D’altronde non vi è una lunga strada da
percorrere. Ho così la fortuna di avere un giardino ricco di
fiori e di… gioventù. Io con questi ragazzi dialogo ed ho la
fortuna di non sentire, a seguito delle mie domande, le
risposte, spesso stupide, in bocca a molti di mia conoscenza che
sono vivi nel corpo e morti nell’anima. Sto dicendo cose che a
voi ragazzi forse non interessano; sono certo che le
comprenderete andando avanti negli anni.
Quando guardo questi sepolcri penso ad un mio nipote militare
disperso in Russia; spero che sia vivo ma temo che forse non è
più tra noi e sia tornato alla terra senza avere avuto
sepoltura. E spero tanto che vi sia stato anche lì qualche
cristiano che sul suo un giaciglio coltivi come me i fiori di
primavera.”
Sul viso aveva una lacrima che asciugò con un fazzoletto rosso
come il fuoco.
Gli eventi bellici erano in Sicilia cessati sin dal settembre
1943. La guerra continuava nel continente ma gli stenti, la
miseria e le sofferenze erano di casa nelle maggior parte delle
famiglie dell’isola. La borsa nera dei beni di prima necessità o
come volgarmente si diceva l’intrallazzo e gli aiuti
dell’amministrazione militare alleata consentivano ai più in
qualche modo di sopravvivere. Le scatolette di salmone, di
fagioli e di carne dell’esercito USA arricchivano di proteine la
modesta dieta dei siciliani di pane, pasta e verdure. Il
banditismo imperversava nelle contrade della Sicilia con i
conseguenti conflitti a fuoco con i pochi tutori dell’ordine
pubblico, cui si richiedevano spesso doti di vero eroismo.
Era maggio. I primi tepori di primavera, che addolcivano la
frescura di un leggero vento di tramontana dopo un inverno
freddo e triste anche per noi ragazzi, scaldavano i corpi curvi
dei vecchietti del ricovero di mendicità; erano assisi, avvolti
negli scapolari, sui sedili in pietra sistemati attorno l’antica
chiesa dei Cappuccini del cimitero. Ero lì insieme ad altri
coetanei ad esercitare una delle trasgressioni tipiche
dell’adolescenza ossia del bivaccare e del rincorrersi tra le
tombe e i cumuli sepolcrali, quasi a sperimentare e saggiare
materialmente il rapporto con la morte. Don Paolo raccontava ai
vegliardi storie vissute o favole apprese all’opera dei pupi.
Coloriva il racconto con un gesticolare da attore di strada con
arguzia e con tale emozione che ad ogni risata gli ultimi due
incisivi sporgevano dalla sua bocca, dondolando come il piccolo
battaglio della campanella che egli suonava ogni volta “u gnuri”
nella sua divisa d’ordinanza, alla guida della carrozza dei
morti con il suo ultimo ospite, appariva in cima al viale. Era
un suono lieve e delicato, forse riservato solo alle anime; per
noi ragazzi, invece, era un segnale sonoro che indicava ai vivi,
semplicemente, il transito di un loro simile da un mondo
conosciuto e tangibile a quello del mistero e dell’ignoto.
Don Paolo si accorse della nostra presenza; eravamo attratti da
quel ciarlare ricco ed espressivo su un passato da noi
conosciuto soltanto tramite il libro di lettura, il sussidiario
e la voce del maestro. Don Paolo, guardandoci con gli occhi
opachi per una cataratta mai curata, così esordì: “ Avete forse
marinato la scuola? Non ci fa niente. La storia ve la insegno
io, anche se non so leggere e scrivere. Intanto vi chiedo se
siete disposti a sentirmi. Sono certo che ascolterete in
silenzio perché vi parlerò della mia vita di soldato nel 1911,
come combattente nella guerra di Libia. La guerra, la violenza e
il sangue attirano sempre la curiosità, anche se sono i veleni
dell’umanità.”
Noi ragazzi ci guardammo e il consenso fu unanime. Solo uno di
noi continuò a correre inseguendo con una bacchetta un cerchione
di ferro su e giù per le pendici.
Don Paolo continuò con foga: “ Avevo ventotto anni e partii per
la guerra senza avere alcuna idea politica. Non sapevo perché
l’Italia l’avesse dichiarata , chi erano i miei nemici e cosa ci
facevo in una terra che mi apparve, subito dopo lo sbarco, come
la piana di Catania; con la differenza che invece dei braccianti
etnei vi erano altri poveracci a faticare per altri padroni; da
civile ero zolfataio e mi decisi per la paga di soldato perché
mi consentiva di stare all’aria aperta e di risparmiare il costo
del “mangiare”. In miniera rischiavo la vita e ogni giorno
trascorso sotto terra era un purgatorio se non proprio un
inferno.”
In Libia ci guidavano persone che in patria erano i nostri
padroni. Invece del vestito di velluto indossavano le divise di
ufficiale, calzavano gli stivali e impugnavano il frustino con
l’arroganza di chi tiene in pugno il tuo destino”.
Si fermò per prendere fiato. Mi ricordai che anche il mio buon
maestro “Vilasi” aveva partecipato a quella guerra ma non lo
immaginai nel ruolo dell’arrogante, seppure fosse di una
severità certamente eccessiva. Ne feci cenno a don Paolo che
così rispose: “ Il tuo maestro, che conosco e stimo, usa le mani
come giustamente fa un padre di famiglia per educare i figli.
Siamo andati in Libia per fare lì i padroni; con i locali che si
opponevano eravamo crudeli e spesso spietati. Le forche per quei
poveracci erano sempre in funzione. Mi viene da ridere quando ci
chiamiamo e ci sentiamo cristiani. Anche noi italiani, cari
ragazzi, abbiamo le mani sporche di sangue innocente e la notte
non dormo perché a distanza di oltre trent’anni mi rode il
rimorso per non avere avuto allora la forza di rifiutare la
facile e a volte gratuita violenza di dominatore.”
Don Paolo ebbe un attacco di tosse stizzosa, come se quel
discorso avesse irritato oltre al pensiero anche la sua gola. Si
riprese e continuò: “L’anno scorso nel mese di luglio sotto le
finestre del ricovero, nel campo adiacente al muro di cinta,
sono stati seppelliti un centinaio di soldati e ufficiali del
nostro esercito appartenenti al ramo genieri. Erano arrivati
all’imbrunire ad Enna dalle Madonie e stavano per accamparsi nel
boschetto del macello. Giunsero improvvisi gli aerei nemici e in
pochi minuti quei poveri ragazzi furono sterminati a colpi di
mitraglia e di bombe. Un massacro di uomini a cui era stato
detto nel corso della loro breve vita che il loro sacrificio
avrebbe fatto grande la “Patria”e che con la sicura vittoria dei
paesi dell’Asse il mondo avrebbe avuto finalmente pace e
giustizia. Un discorso a me proposto dai governanti dell’epoca
nel 1911 e nel 1915 in occasione della grande guerra; ad altri
morti di fame come me nel 36” e nel 37” in occasione della
guerra d’Africa e a quella di Spagna vennero rivolte le stesse
parole e coltivate le stesse illusioni. Con la prima avremmo
dovuto arricchirci togliendo la terra agli abissini e con la
seconda abbiamo aiutato un dittatore a togliere di mezzo un
governo democratico che stava tentando di risolvere i problemi
di noi “morti di fame”. Un bel comportamento da “cristiani”.
Io ho capito da tempo questo imbroglio che si ripete da
millenni. Ma non riesco a farlo capire agli altri e ai
vecchietti del ricovero che, pur stando qui alloggiati dentro le
mura del cimitero ad un palmo dalla fossa, vivono qui tranquilli
e si comportano come se si trovassero nel loro quartiere o “nel
chiano di San Francì” in mezzo alla loro gente. Noi del ricovero
di mendicità siamo diventati fortunatamente come i tedeschi e i
popoli del nord che ospitano i loro morti nel cuore delle città
e dei borghi, non temono l’aldilà e usano come giardino dei vivi
quello stesso dei loro morti. Non ci crederete, ma anche le
povere bimbe dell’orfanotrofio di San Michele sono, come noi
vecchi qui attorno, abituati alla morte. Senza alcuna pietà, con
la nebbia, con la pioggia, con il vento e con la neve seguono i
feretri dei benestanti lungo le strade di Enna con le loro
mantelline grigie e con il baschetto calato sui loro riccioli.
Il suono delle campane a morto è la loro consueta musica insieme
alle sinfonie funebri dedicate ai defunti di rango davanti la
chiesa di Santa Croce e a questa chiesa dell’ultima dimora.”
Approdai in quel momento ad una visione nuova della realtà in
cui ero immerso e ad una verità assai lontana da me e mai
avvertita. E la condivisi talmente da chiedere a don Paolo di
accompagnarmi nella visita del campo dei caduti in divisa del
luglio 1943. Mi prese per mano e mi condusse lungo i sentieri
tracciati tra le fosse di inumazione. Su ciascuna di esse vi era
una croce e una targa in marmo con le generalità del giovane
martire. Don Paolo, stringendomi forte la mano, commosso e
solenne mi disse: “Questi sono i miei figli o i miei nipoti. La
finestra della cameretta dove vivo mi consente di vegliarli fino
a quando li raggiungerò. D’altronde non vi è una lunga strada da
percorrere. Ho così la fortuna di avere un giardino ricco di
fiori e di… gioventù. Io con questi ragazzi dialogo ed ho la
fortuna di non sentire, a seguito delle mie domande, le
risposte, spesso stupide, in bocca a molti di mia conoscenza che
sono vivi nel corpo e morti nell’anima. Sto dicendo cose che a
voi ragazzi forse non interessano; sono certo che le
comprenderete andando avanti negli anni.
Quando guardo questi sepolcri penso ad un mio nipote militare
disperso in Russia; spero che sia vivo ma temo che forse non è
più tra noi e sia tornato alla terra senza avere avuto
sepoltura. E spero tanto che vi sia stato anche lì qualche
cristiano che sul suo un giaciglio coltivi come me i fiori di
primavera.”
Sul viso aveva una lacrima che asciugò con un fazzoletto rosso.
Ottobre 2014
Pino Ferrante
|