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Stralcio dal volume

Enna 1943 - ricordi di guerra

di Augusto Lucchese

(in corso di pubblicazione)

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PREFAZIONE


di Gianni Giuffrè

La cronistoria che ti accingi a scorrere, lettore caro, densa di amare memorie, ha - per noi - una magica struttura, in quanto descrive ed illustra, con studiata e attenta abilità, tutto quello che il protagonista del racconto vide, visse e assimilò da par suo.
Tu stesso, perciò, stenterai a credere che il mentore di quelle memorie fosse un ragazzo, un ragazzo innocente, capace non solo di conservare negli archivi immacolati della sua memoria quanto da lui vissuto in quei tempi fatidici e terribili, ma che seppe poi tramandare tutto quel bagaglio di ricordi al suo stesso Io, affinché quest’ultimo cresciuto negli anni, riuscisse a descriverlo e a raccontarlo a tutti coloro che non volessero essere ottenebrati dallo scorrere inesorabile del tempo.
La STORIA, infatti, stando all’etimo che le proviene dalla lingua greca, consiste nella studiata attenzione di “fermare lo scorrimento del tempo”, che irreparabilmente fugge, stando anche a quel che il sommo vate VIRGILIO, il quale nelle sue “GEORGICHE” recita:


“FUGIT IRREPARABILE TEMPUS”.
(VIRGILIO, “GEORGICHE”, III, 284).

Nelle pagine del suo racconto, dallo stile semplice pur accurato, classico ma al tempo stesso scorrevole, il nostro rapsodo riesce a far vivere e a rivivere le tremende sventure sofferte da quella adorabile Terra - che Callimaco, l’elegiaco poeta di CIRENE (1) , chiamò “l’ombelico della Sicilia” -, senza tuttavia circuire la mente del lettore con subdole manipolazioni di ordine ideologico o politico, poiché il compito dello storico vero ed autentico consiste nel descrivere i fatti e gli accadimenti senza mai permettersi di far penetrare nella loro episodica struttura opinioni personali o, quel che è peggio, coloriture politiche:


“Verum ipsum factum ”.

Pertanto, nel racconto che ti accingi a leggere, caro lettore, tutti i fatti di guerra che nel secondo conflitto l’Italia dovette subire, ma soprattutto la Sicilia e il di lei cuore, ossia “LA MAGICA CITTA’ DI CERERE”, sono descritti e raccontati con l’onesta obiettività e con l’autentica saggezza di colui che si è messo a servizio dell’adorabile CLIO, la Musa Divina che dal Monte Elicona trasferì e donò agli Esseri Umani l’arte della “memoria”, della vita e, quindi, della storia.


Acitrezza, domenica 29 giugno 2008.
Gianni Giuffrè


(1) CIRENE - città antica della Cirenaica, regione dell’Africa Settentrionale, nota anche come “Libia Orientale ” e patria del grande filosofo Aristippo Da Cirene – (V-IV sec. a.C.), filosofo greco discepolo di Socrate, fondatore della scuola cirenaica e padre dell’Edonismo, la filosofia che va alla ricerca del piacere. 

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1- Il cosiddetto “armistizio corto” (più che di un “armistizio” si trattò di resa capestro e incondizionata) fu firmato in data 3 settembre, a Cassibile (SR). Molti accomunano tale nefasto avvenimento con la data dell’ “8 settembre”, giorno in cui fu portato a conoscenza della Nazione mediante l’ambiguo “proclama” del Maresciallo Badoglio, registrato su disco e diffuso alle 19,00 circa dall’EIAR. Considerata l’innata difficoltà di Badoglio ad esprimersi in corretto italiano, sembra che il testo non fosse neppure farina del suo sacco. (vedi “appendice”, al n° 8).
2- vedi “appendice” - doc. n°1.


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I tragici giorni dei bombardamenti

Spero che il lettore non me ne voglia se torno a ribadire che Enna, pur ospitando nel proprio territorio importanti strutture militari dell’Asse e diversi “depositi logistici”, oltre che una fra le più grandi “polveriere” italiane, per circa 3 non subì alcun attacco aereo, come se non fosse mai stata inclusa nella corposa lista degli obiettivi sistematicamente presi di mira dall’aviazione inglese e americana. Sembrava incredibile che tale pur favorevole “anomalia” fosse semplicemente da attribuire al fatto che le carte topografiche in loro possesso non ne riportassero le esatte coordinate. 
Fortuna, miracolo o semplice “disinformazione”? 
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E fu così che gli aerei anglo americani, da quel momento e specie nelle ore notturne, presero di mira la rupestre cittadina ennese, pur se, per la naturale conformazione geofisica dell’acrocoro su cui essa è abbarbicata, non era un obbiettivo facile da colpire. La prima incursione avvenne già nella sera di sabato 10 luglio (23,45 circa) e poi, quasi con ossessiva puntualità, gli attacchi si succedettero nelle giornate di domenica 11 luglio (ore 23 circa), di lunedì 12 luglio (alle ore 16 e poi alle 22 circa) e di martedì 13 luglio (ore 10 circa). 
Il consueto sistema di vita cittadino, cui sino a pochi giorni prima s’era adusi, andò repentinamente in frantumi. Gli allarmi aerei presero a ripetersi con sempre maggiore frequenza e fu giocoforza, quindi, cercare adeguato riparo nei cosiddetti “rifugi antiaerei” e per intercessione dei nostri vicini di casa, i Sigg. Buscemi, si poté dapprima accedere in quello dei Vigili del Fuoco. 
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Era come se dei neri nuvoloni s’addensassero all’orizzonte e, magari accompagnati dal lontano rimbombo del tuono, facessero temere il sopraggiungere di una vicina tempesta. 
E, in effetti, tanto tuonò che piovve. Ma quando sulla inerme cittadina ennese s’abbatté il proditorio attacco del 13 mattino, non fu il solito acquazzone d’estate bensì una vera e propria “pioggia di bombe”. 
Tutto accadde, tuttavia, quando meno era da aspettarselo, quando gli italo tedeschi erano in ritirata verso nord, quando gli alleati erano ormai alle porte. 
L’incursione di martedì 13 luglio avvenne, infatti, in pieno mattino (alle 9,30 circa), benché Enna, in conseguenza del fatto che il Comando d’Armata5 s’era già trasferito altrove, fosse praticamente “terra di nessuno”. 
Come poi è stato possibile accertare attraverso la documentazione dell’archivio storico della USAF, il proditorio attacco fu opera delle micidiali “Fortezze Volanti” Boeing B/176

Il robusto quadrimotore Boeing B/17 rappresentava, allora, la punta di diamante della “U.S. Air Force” (USAF). Operando dalle basi algerine e tunisine del Nord Africa era massicciamente presente in Mediterraneo. 

I Boeing B/17 avevano una notevolissima autonomia, volavano ad alta quota, in stretta formazione e, in funzione del loro potente armamento difensivo, non erano facilmente intercettabili dai caccia avversari.


Quello del 13 luglio fu il più pesante fra i diversi attacchi aerei ed ebbe ad arrecare ingenti danni e molte vittime. I micidiali ordigni esplosivi, sganciati a casaccio e senza un preciso obiettivo, vennero giù a grappoli dai mostri volanti targati USA che s’accanirono, con assurda determinazione, sull’inerme cittadina. La gente, in gran parte rientrata nelle proprie abitazioni dopo un’altra notte trascorsa negli angusti e maleodoranti “rifugi”, fu colta di sorpresa e, di massima, non fu in grado di proteggersi prontamente. 
Parecchie abitazioni furono distrutte, sventrate o danneggiate, mentre le fognature, le condotte dell’acqua potabile e i collegamenti elettrici subirono ingenti danni. Anche le strade di accesso alla città furono interrotte in più punti. Stranamente, pur a fronte della criminale tecnica dei “bombardamenti a tappeto” adottata dagli incursori, neppure una bomba centrò gli edifici e le strutture ove, sino al giorno prima, erano ubicati il Comando d’Armata, i vari servizi dipendenti e ove erano stati allocati alcuni reparti militari. 
La pressoché totale inefficienza della tanto decantata “protezione antiaerea” (U.N.P.A.), la mancanza di idonei mezzi di soccorso, l’imperante confusione,impedirono di portare rapidamente aiuto a coloro che erano rimasti in pericolo di vita sotto le macerie degli edifici crollati. 
Nel quadro dei disastrosi effetti di quella tragedia, letteralmente “piovuta dal cielo”, si dovettero registrare, in aggiunta al già gravoso bilancio delle precedenti incursioni, altri morti e feriti. 
Chi mai, anche a possedere spiccate doti di chiaroveggenza, avrebbe osato ipotizzare un simile improvviso e brutale attacco? 
La vetusta immagine della tranquilla e ospitale cittadina fu assurdamente stravolta e alcuni dei suoi quartieri assunsero, tristemente e orrendamente, le sembianze di un irriconoscibile e pauroso scenario. 
Il garrulo cinguettare dei passeri e l’intenso gioioso fruscio delle infaticabili rondini, sino a poche ore prima volteggianti nel cielo ancora terso del mattino, s’era spento nel frastuono delle esplosioni ed era stato soppiantato, adesso, dalle grida dei costernati abitanti delle zone colpite, dal doloroso vocio delle donne, dai lamenti dei vecchi, dai pianti dei bambini, tutti repentinamente precipitati in un profondo baratro di sofferenza e di dolore. Ove al mattino ancora regnava la pace e la serenità di un ambiente integro ed essenziale, ove ancora si muoveva una comunità modesta e laboriosa, affaccendata nella diuturna lotta esistenziale del momento, s’aveva adesso la sensazione che aleggiasse il ghigno feroce e truculento dei signori della guerra. S’aveva la sensazione che dietro ogni cumulo di macerie si nascondesse la bieca maschera di chi con criminale premeditazione aveva scelto e attuato una tanto feroce tattica di distruzione e morte. Di chi con invereconda falsità e dileggiante ipocrisia seguitava a magnificare l’assurda e incongrua immagine propagandistica dei “liberatori” mentre ordinava di uccidere, indiscriminatamente, gente inerme e incolpevole. Di chi non si peritava di ostentare diabolici sorrisi mentre i suoi sicari  colpivano a morte il cuore d’indifese comunità essenzialmente composte da donne, vecchi e bambini. Di chi aveva superato in crudeltà gli stessi nemici. 
Alcuna giustificazione e nessun attenuante poteva servire a mitigare lo sdegno e la rabbia di chi era stato tanto selvaggiamente colpito negli affetti e negli averi, di chi improvvisamente aveva perso i propri cari o la propria abitazione per colpa degli inumani killer che volavano lassù racchiusi in alati carri di morte. Nessuno poteva consolare chi, nel volgere di pochi istanti, s’era trovato ad essere bersaglio di feroci azioni criminali condotte con metodi privi di ogni pur minimo senso di rispetto per la vita altrui. 
Neppure le irrefrenabili lacrime degli scampati, neppure gli angoscianti moti di rabbia, neppure le invettive talvolta blasfeme, neppure l’innato stoicismo del popolo ennese, potevano servire a placare gli animi esacerbati. 

Il Presidente USA F.D. Roosevelt



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Non è facile stabilire quanto tempo fosse trascorso dall’istante in cui erano cadute le prime bombe, sino al momento in cui, quasi di colpo, era subentrato un diffuso tetro silenzio. Sperammo, alla fine, che gli aerei incursori, sganciato il loro micidiale carico e ultimato il loro compito di dispensatori di morte e distruzione, si fossero allontanati. Pur tuttavia, seguirono altri interminabili minuti d’ansiosa attesa prima che ci si avventurasse a prendere una qualche decisione. Poi, pur se ancora stravolti e movendoci alla stregua di tanti automi, ci si diede da fare per uscire dal locale ove eravamo asserragliati. 
A seguito dello spostamento d’aria che aveva accompagnato le più vicine esplosioni, la robusta porta attraverso la quale si poteva accedere direttamente sulla strada, s’era parzialmente aperta e non fu cosa facile farla ruotare sui cardini storti o addirittura divelti. Solo aiutandoci l’un l’altro, riuscimmo faticosamente a sollevarla e ad aprila. 
Poi, uno alla volta, ne varcammo la soglia. 
Ci trovammo al cospetto di uno scenario tragicamente sconvolgente, al limite dell’irreale. Un’atmosfera spettrale gravava per strada, in ogni dove. 
Ai nostri occhi, arrossati dal pianto e dalla polvere, s’era palesato uno spettacolo rattristante, incisivamente aggravato dal vociare delle persone che, come forsennate e senza controllo, correvano da un posto all’altro, urlando per esternare la loro disperazione. S’udivano i pianti e i lamenti di tanta gente frastornata e inebetita nell’ambito di uno scenario che lasciava attoniti e increduli. Era spontaneo chiedersi come tutto ciò fosse potuto accadere nell’arco di così poco tempo. La fitta coltre di polvere che stagnava nell’aria, impregnata dall’acre odore delle esplosioni, ostacolava il respiro e impediva allo sguardo si spingersi lontano. Non era possibile rendersi conto dell’effettiva portata delle distruzioni che avevano cambiato la fisionomia del quartiere. 
Alcuni edifici (case Pirrera, Di Bilio e Lo Giudice) erano crollati del tutto, spiaccicandosi l’uno contro l’altro. Altri fabbricati, a destra di casa nostra, apparivano come svuotati all’interno (Piazza e Campo), mentre altri ancora, fra cui quelli di Alloro e Grillo, presentavano gravi danni alle facciate, ai balconi e all’altezza delle grondaie. Verso la piazzetta Santa Croce, le costruzioni dei Sigg. Lilla, Di Vincenzo e Perna, pur non avendo subito danni rilevanti, offrivano uno spettacolo sconfortante. Infissi divelti, balconi cadenti, macerie sparse un po’ dappertutto formavano un allucinante quadro d’insieme. Il terrazzo che fungeva da copertura del grande antro - garage di proprietà Grillo, sino a poco tempo prima adibito a ricovero di muli e di carri, non esisteva più. 
Il suo cedimento aveva determinato, come più tardi si venne a sapere, la morte di un vecchietto (il padre del Sig. Campo) che, per l’ovvia difficoltà di muoversi con rapidità, non aveva fatto in tempo a porsi in salvo. Per strada, a parte gli enormi cumuli di macerie, si scorgevano mobili e masserizie fracassati, tegole e cornicioni venuti giù dalle facciate e dai tetti, vetri rotti, porte e infissi divelti. Solo quando la tremenda sensazione d’angoscia ebbe a mitigarsi, fu possibile accertare la causa del pauroso fracasso avvertito mentre eravamo in preda all’incubo delle ravvicinate esplosioni. 
Non fu difficile constatare che uno dei tanti ordigni sganciati dagli aerei killer, aveva colpito la parete esterna della casa, proprio sulla verticale del sottostante locale in cui eravamo riparati. Forse per un fatto puramente tecnico non era esploso8, ma nell’impatto con il robusto muro portante aveva aperto un 
buco di notevoli dimensioni9 per poi scivolare lungo la parete e terminare la corsa sul marciapiede10 ove, dopo avere divelto una buona parte del selciato che fungeva da copertura alla fognatura, s’era adagiato con la spoletta rivolta all’insù. Trattavasi di una bomba di piccole dimensioni che, a guardarla, incuteva ancora tanta paura, adagiata com’era di traverso, in bilico sui calcinacci caduti dalla parete colpita e con l’ogiva rivolta verso la strada. 
Prontamente circondata da idonei steccati e da alcuni sacchetti riempiti di detriti, lì per lì approntati, rimase per parecchi giorni in quella posizione, sino a quando non fu possibile disinnescarla e rimuoverla. Non furono pochi che, osservando l’accaduto, gridarono al miracolo. Anche se, come sembrava, s’era trattato solo di un difetto costruttivo o d’innesco, in effetti s’era verificato un evento che aveva tutti i crismi del concatenarsi d’imponderabili circostanze. 
Dentro casa ogni cosa era ridotta in uno stato pietoso e indescrivibile. 
S’avvertiva fortemente, inoltre, il fastidioso pizzicore alle vie respiratorie provocato dalla polvere che aveva ricoperto ogni cosa. Storditi e disperati, ci muovevamo come fantasmi, senza riuscire a trovare, sul momento, la lucidità per affrontare le conseguenze del pauroso disastro.
L’unica consolazione era quella di poter constatare che, malgrado il pericolo corso, eravamo tutti vivi e indenni. La commozione c’attanagliava e ci induceva ad abbracciarci l’un l’altro, come se volessimo ulteriormente sincerarci che, almeno nel fisico, non avessimo subito alcun danno. C’incoraggiavamo a vicenda, consci del fatto che farsi soverchiare dall’angoscia sarebbe stato come aggiungere danno al danno. Era necessario, invece, riuscire a prendere, magari gradatamente ma con molto spirito d’accettazione, le necessarie decisioni a fronte degli assillanti problemi tragicamente affiorati. 

 

Si può ben dire che, in quel tragico mattino, io e i miei familiari 
eravamo tornati a nascere una seconda volta. 

 

Mai nessuno potrà giustificare o sminuire la spietatezza con cui si diede attuazione al cinico bombardamento del 13 luglio. 
E’ del tutto spregevole la tesi secondo cui tutto avvenne in funzione del fatto che i piani operativi delle forze aeree U.S.A (stilati dal Comando interforze di Algeri) erano stati predisposti prima che le Autorità Civili locali notificassero, via radio, l’avvenuto sgombero della Città da parte degli italo-tedeschi. 
E’ incredibile, in ogni caso, che non fosse stato possibile annullare a tempo l’esecuzione dell’attacco, una volta a conoscenza del fatto che Enna, come detto, non rappresentava più un obiettivo d’importanza militare. 
Chi, come me, ebbe a vivere con angoscia e con terrore il susseguirsi degli avvenimenti di quei giorni, particolarmente quelli legati al criminale bombardamento del 13 luglio, credo non possa in alcun modo giustificare la spregiudicata premeditazione con cui i cosiddetti “liberatori”, specie nell’ultima fase della guerra, posero in atto l’assurdo, indiscriminato e maramaldico accanimento contro la popolazione civile. 
Occorrerebbe chiarire, in ogni caso, da chi e da che cosa pensavano di liberarci, visto che stavano dimostrando di essere più crudeli e spietati degli avversari che pensavano di debellare. 
Il brutale massacro d’inermi cittadini e la sistematica distruzione dei centri abitati (che, di massima, neppure fantasiosamente potevano essere considerati “obiettivo militare”) fu un’ulteriore prova degli inqualificabili metodi di guerra adottati dalle forze anglo americane i cui protervi comandanti, in quella fattispecie come del resto nel corso di tante altre azioni belliche, diedero palese dimostrazione di quanto parecchio avessero in comune con i “colleghi” della svastica nazista, specie considerando che, oltretutto, li avevano largamente surclassati in materia di potenzialità distruttiva.
Quando le delinquenziali incursioni si abbattevano sulle città predestinate e sulla inerme popolazione, il verificarsi delle spaventose distruzioni, accompagnate dalle assordanti deflagrazioni, otteneva l’effetto di provocare indescrivibili scene di panico e di terrore. E’ più che comprensibile, quindi, che fra la gente montasse la rabbia e l’astio sia verso i brutali incursori che verso le autorità civili e militari nostrane che, per pregressa incuria e inettitudine, non erano mai state in grado di adottare adeguate misure di difesa, di protezione, di preventiva ed efficace reazione. 

Parecchi “difensori d’ufficio” degli anglo - americani (magari sotto le mentite spoglie di “pseudo storici”), nel vano tentativo di discolpare i colpevoli di tanti massacri e di tante inutili distruzioni o, quanto meno, per attenuarne il grado di responsabilità, si sono inutilmente affannati a fare leva sul luogo comune della “ritorsione”. Sarebbe l’ora di finirla con simili ridicole argomentazioni che molto assomigliano a grottesche giustificazioni diversive, per non definirle, forse più appropriatamente, vere e proprie manifestazioni di mala fede. 
Appare incredibile come non si sia ancora riusciti a disfarsi della fisima di considerare i vincitori immuni da ogni colpa, sol perché, imponendo condizioni di resa o trattati di pace, s’arrogano, magari con la prepotenza, il diritto a non essere giudicati per il loro funesto operato. 
Ciò è sostanzialmente ingiusto, pur se, dai tempi dei tempi, tale principio risulta essere sempre applicato dai più forti e dai più crudeli. 
Come dimenticare, ad esempio, il “vae victis” (guai ai vinti), pesante anatema lanciato agli sconfitti  romani da un barbaro chiamato Brenno? . 
                             

Gli alleati, nel corso della 2° guerra, furono autentici seguaci di Brenno?

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6- A conferma di quanto detto, sono trascritti, qui di seguito, i rapporti dell’US AIR FORCE: 07/11/43 B-24 s hit airfields at Vibo Valentia, Sicily and Reggio di Calabria, Italy. In Sicily, B-25's hit airfields at Trapani, Milo and Bo Rizzo, and areas between Sciacca and Enna. P-40 escort bombers and provide beach cover as invasion forces push inland in Sicily. 07/12/43 - B-25 and P-38 's hit Sciacca; airfield and the town of Caltanissetta, of Enna. Throughout the day NASAF fighters attack truck convoys on Sicilian highways, and hit gun positions and targets of opportunity. 07/13/43 - Aircraft B-17 hit ammo dumps, trains, rail junctions, bridges, vehicle convoys, and other targets of opportunity in the Sicilian countryside, and bomb several town areas including Enna area.

 

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11- Brenno era il re dei Galli che, nel 39 a.C. sconfisse i romani al “fosso della Bettina” (l’antico Allia, affluente del Tevere) e incendiò Roma.

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“SABATO FASCISTA” 
e dimostrazioni “pro intervento”.

...... "Era obbligo disporre della relativa “uniforme” composta da pantaloncini grigio verde, da camicia nera con fascia alla vita, dal fazzolettone azzurro con il fermaglio a forma di “M” e dal “fez” col sottogola e col cordoncino laterale a ciuffo. Sul caratteristico copricapo, di chiara origine turco - marocchina, risaltava il simbolo della G.I.L. (vedi immagine) Ogni sabato ci si doveva recare a scuola indossando la divisa, anche perché, di massima, almeno due ore della mattinata erano destinate agli esercizi ginnici in palestra, oltre che alle noiose prove di “inquadramento e movimento di squadra”. L’Insegnante di educazione fisica era, a quel tempo, il “camerata” Cesare Di Cosola, buon amico di famiglia che, ormai da diversi anni, aveva lasciato la sua terra pugliese per divenire, a tutti gli effetti, cittadino ennese. Aveva conseguito a Roma l’abilitazione all’insegnamento, frequentando i corsi triennali della Scuola Superiore di educazione fisica, la rinomata “Farnesina”, una vera e propria Università dello sport. E come se tutto ciò non bastasse, il pomeriggio ci si doveva presentare, obbligatoriamente e sempre in divisa, presso il Gruppo Rionale G.I.L., allora ubicato in Piazza San Francesco, o Vittorio Emanuele che dir si voglia. Il “fiduciario” del Gruppo era il Capocenturia Maestro Salvatore Morgana2, cui era attribuito il compito di coordinare e disciplinare le varie attività. Alle sue dipendenze erano alcuni “capomanipolo” e “sottocapomanipolo” della M.V.S.N. (Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale). Detti gradi gerarchici erano equiparabili, più formalmente che sostanzialmente, a quelli di capitano, tenente o sottotenente dell’Esercito. Alcuni “giovani fascisti”, di età variabile dai 18 anni in su, formavano poi una fanatica elite, quella dei cosiddetti “aspiranti graduati”. 
La M.V.S.N.3, creata con decreto del 14 gennaio 1923, avrebbe dovuto rappresentare, nelle intenzioni di chi aveva voluto e deliberato quel provvedimento, un innocuo corpo armato “parallelo” all’Esercito. Erano abbastanza evidenti, tuttavia, le recondite motivazioni per cui s’era dato vita a tale farraginosa struttura para militare. Prima fra tutte quella di creare una sorta di deterrente, in “difesa del regime”, contro tentativi di eversione da parte di eventuali avversari. Ma non va dimenticata quella, altrettanto importante, di fare in modo che in essa confluissero, controllatamente, le famigerate e informi “squadracce” proliferate nel corso della cosiddetta “rivoluzione fascista”, che avevano assunto le pericolose sembianze di vere e proprie bande armate . 
La G.I.L., in campo giovanile, poteva essere considerata una sorta di filiazione della citata M.V.S.N. e, conseguentemente, anche noi “Balilla”, alla pari delle categorie maggiori o parallele (Avanguardisti, Preavieri, Giovani Fascisti, Gruppi Femminili, ecc.) eravamo inquadrati in “squadre”, “manipoli” e “centurie”. 
Era irrinunciabile, pertanto, l’obbligo di partecipare alle “esercitazioni”, alle marce, ai saggi ginnici, alle parate. In occasione di queste ultime, ciascuna “squadra” veniva assegnata ad uno specifico “settore”. Lungo l’itinerario, si sfilava, “allineati e coperti”, seguendo il passo cadenzato impresso da una triade dei “tamburini” che precedevano i reparti. Alcuni di questi, per così dire denominati “scelti”, erano dotati del pseudo fucile “mod. 35 ridotto”, che pur essendo una perfetta imitazione “in scala” dell’originale, altro non era che un autentico giocattolo. Nel corso delle “adunate” del sabato si doveva sottostare, molto spesso, a massacranti “marce”, a stressanti “attese” (magari sotto il sole o all’addiaccio, secondo le stagioni), oltre che alle ricorrenti e inconsulte vessazioni di fanatici e vanesi “graduati”. Una sceneggiata senza senso che dava adito ad incongrue manifestazioni di “classismo” e di “autoritarismo”, tutt’altro che utili e formative per dei ragazzi che s’apprestavano ad affrontare le problematiche esistenziali, scolastiche e sociali connesse con la propria età. Non è azzardato affermare che i sistemi dispotici adottati in seno alle organizzazioni giovanili fasciste, sarebbero annoverabili, oggi, fra le diverse sconcertanti forme di “bullismo” tuttavia presenti, pur se tanto avversate, nell’ambiente scolastico o di caserma. 
Il comportamento di parecchi esponenti della tronfia gerarchia fascista, era la netta conseguenza delle retoriche e incaute “direttive” che, ossessivamente, stimolavano la base affinché contribuisse a “modificare” il temperamento tendenzialmente insubordinato e antimilitarista della massa popolare. Il “duce”, del resto, nella qualità di capo supremo e indiscusso della proterva cordata gerarchica, aveva apertamente affermato che era necessario “raddrizzare la schiena” degli italiani. Anche le giovani generazioni, che stavano appena affacciandosi alla “fatale” esperienza del nuovo corso totalitario e imperialista, dovevano sottostare, per molti versi, al farsesco sistema. La vantata potenzialità militare, più che altro portata avanti da una sparuta schiera di faziosi demagoghi e in gran parte costruita sul nulla dei famosi “otto milioni di baionette”, ebbe a creare diffuse ambiguità e irrazionali illusioni che, di fatto, sconvolsero i sani e sostanziali valori collettivi. Non s’era compreso, invece, che sarebbe stato maggiormente necessario, in quel momento, salvaguardare e irrobustire la coscienza e la coesione nazionale, specie di fronte all’incalzare di una situazione internazionale tutt’altro che tranquilla e rassicurante. 
Quando, poi, giunse il momento cruciale in cui ebbero a manifestarsi apertamente gli atteggiamenti bellicosi della Germania di Hitler (1938 – 1939), i “fanatici” di cui sopra dimostrarono di non avere preso in alcuna considerazione il rischio della pericolosa china verso cui stava precipitando la Nazione. Si diedero da fare, viceversa, per soffiare sul fuoco dell’interventismo, aizzando le masse contro le potenze “plutocratiche” e sbandierando strampalate rivendicazioni territoriali, specie nei confronti della Francia. 
La G.I.L. (Gioventù Italiana del Littorio), il G.U.F. (Gruppi Universitari Fascisti) e la Segreteria Federale del P.N.F. (Partito Nazionale Fascista), seguendo supinamente le direttive dei rispettivi organi centrali, agitavano le acque e, con malcelata pervicacia, fomentavano manifestazioni e “dimostrazioni”. Nell’ambito di un tale distorto scenario, anche le scuole superiori, di ogni ordine e grado, finirono con l’essere disinvoltamente coinvolte. Le ricorrenti motivazioni delle artefatte “dimostrazioni”, traevano origine dagli strabilianti successi militari tedeschi (Polonia, Danimarca, Norvegia, Olanda, Belgio, Francia) o dalle reiterate provocatorie azioni anti-italiane, spregiudicatamente portate avanti dagli inglesi. Basti ricordare, ad esempio, il piratesco abbordaggio e il conseguente sequestro, in acque internazionali non lontane da Gibilterra, di alcuni disarmati mercantili italiani in navigazione, per non dire dell’arrogante blocco dei crediti vantati dall’Italia verso i paesi dell’area della sterlina. 
Non stava certo a noi ragazzi giudicare se la chiassosa propaganda del regime fosse rispondente ad una realistica valutazione della situazione internazionale, così come non stava a noi manifestare alcun dubbio in merito alla decantata “potenza” del nostro apparato militare, incensato ed esaltato oltre ogni limite di ragionevolezza. Era ovvio, per altro verso, che al diffondersi della notizia di una probabile nuova “dimostrazione”, scattasse la gioiosa molla della inaspettata possibilità di marinare la scuola e, pertanto, s’era ben contenti, in verità, di aderire, con interessato entusiasmo, ad ogni iniziativa. 
Il tutto, alla fine, finiva con l’essere nient’altro che una chiassosa sfilata per le vie della Città, sventolando bandiere, innalzando striscioni e cartelli, inneggiando al Duce e al Re, gridando a squarciagola strampalate invettive contro le Nazioni dell’occidente “plutocratico e reazionario”, ritenute e presentate come “affamatrici e strangolatrici” del Popolo Italiano.

Pur se a fronte di motivazioni di base ben diverse, anche oggi esiste una certa tendenza a fare “ricorso alla piazza”, a riempire le strade di “manifestanti”, ad indurre raccogliticce e variopinte folle ad imperversare nelle Città di una Italia ritenuta “democratica”. Dimostrazioni che, pur se logisticamente meglio organizzate, finiscono per assumere spesso un netto sapore “festaiolo”, per non dire carnascialesco. I dimostranti di oggi hanno cambiato pelle, ostentano altri vessilli, striscioni e cartelli, gridano “slogan” di diversa studiata natura, ma, in definitiva, conservano pur sempre l’antico “cliché”. Anche oggi, è usuale assistere a schiamazzanti manifestazioni intrise di demagogiche provocazioni, di incongrue rivendicazioni lanciate al vento, di sconvolgenti ipocrisie che, oltretutto, hanno un ritorno di ben scarso effetto pratico. 



Alla fine, quando il Paese venne incoscientemente portato ad entrare in guerra4, le scuole seguitarono a funzionare pressoché regolarmente pur se, adesso, lo svolgimento dei programmi scolastici era affidato ad un corpo insegnanti prevalentemente femminile. I pochi professori uomini o erano anziani o erano supplenti di primo pelo, nominati in sostituzione dei titolari richiamati alle armi. 
A fronte della piega negativa assunta dalle operazioni militari, le “dimostrazioni studentesche” pre - belliche non appartenevano più alle velleità dei più “grandi”, anche perché, del resto, c’era ben poco da inneggiare e non era facile capire a chi plaudire. 
S’era dato vita, di contro, ai “comitati scolastici” che avevano il compito di incentivare la raccolta di indumenti di lana (particolarmente guanti), oltre che di generi di prima necessità. Il tutto veniva convogliato presso i centri comunali incaricati di confezionare dei “pacchi dono” per i soldati al fronte. Particolare attenzione era rivolta a quelli di stanza in Albania ove la temperatura scendeva spesso sotto lo zero e ove i disagi, dovuti all’impreparazione e alla inefficienza logistica dell’apparato militare, erano eclatanti, ai limiti della sopportazione5
I servizi di propaganda cercavano di tenere su il morale della popolazione raccontando dell’eroico sacrificio degli artiglieri della “piazzaforte” di Bardia che, a prescindere dal coraggio dei soldati, di “forte” aveva solo qualche opera muraria di difesa e quattro vecchi cannoni “Skoda”, residuati dell’ultima guerra. Si esaltava il valore delle guarnigioni di Cufra e di Giarabub, quest’ultima divenuta famosa anche in virtù della canzone che si rifaceva all’indomito coraggio dei difensori 6. Era in voga anche un’altra canzoncina che spavaldamente affermava “.. adesso viene il bello“, … a primavera s’apre la partita”. Si confidava in una sicura rivincita e, pur se le brutte notizie erano all’ordine del giorno, si sperava in un altro Piave e in un’altra Vittorio Veneto. In Albania le cose volgevano al peggio e, fra una “ritirata strategica” e l’altra, le provate truppe italiane, sotto la spinta della violenta controffensiva greca, avevano dovuto ripiegare sin nei pressi di Valona, quasi con le spalle al mare. Per molti versi, una nuova Caporetto.
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BICI E MOTO CHE PASSIONE.

Nonostante la giovane età (in quella lontana primavera del 1941 avevo poco meno di 13 anni) e come del resto tanti altri ragazzi anch’io provavo una sorta di fatale attrazione per il mondo delle due ruote, particolarmente, manco a dirlo, per quei sacri totem che erano le moto. Una passione che però apparteneva più al mondo dei sogni che alla realtà del momento. Come non ricordare, infatti, che a quei tempi solo pochi fortunati disponevano di un portafogli talmente fornito da potersi permettere taluni dispendiosi acquisti? Prova ne sia che di moto private se ne vedevano in circolazione forse meno delle dita di una mano. Non è che le cose andassero molto meglio per le biciclette “da passeggio”, escludendo, ovviamente, quelle utilizzate come strumento di lavoro.

Era del tutto naturale, quindi, che il possente rombo di una moto di passaggio o lo scampanellio di una bici, facessero scattare l’ istinto di guardarle da vicino, il più attentamente possibile. Preso e compreso dal fascino delle “due ruote”, osservare da presso una moto o una bici era un qualcosa di particolarmente interessante ed era spontaneo, quindi,  che sorgessero  inconsci desideri. Non mancava  di certo un pizzico d’invidia nei confronti di quei pochi che, per soggettiva disponibilità di cassa o per intercessione della dea bendata,  differenziandosi dai comuni mortali, potevano fruire a piacimento di tali mezzi.

Noi ragazzi, più o meno sfasulati (senza soldi), solo saltuariamente potevamo soddisfare , in merito, qualche   pio desiderio. Il prendere a noleggio una pur malandata bicicletta, ad esempio, era il massimo e rappresentava l’unico sistema per riuscire a scorazzare lungo le vie del centro cavalcando, pur maldestramente, quel destriero metallico , più o meno docile rispetto alla nostra scarsa esperienza.. Eravamo felici, oltretutto, quando si riusciva ad avere in tasca qualche soldino in più per protrarre, anche dopo la mezz’ora di prammatica, tale gratificante sensazione.  L’entusiasmo   assumeva  talvolta  le sembianze di una vera e propria ossessione ed era come vivere nella speranzosa attesa di poter varcare, ancora una volta, la soglia di uno dei due templi della pagana divinità a due ruote, con tutto rispetto per i pur intantingibi sentimenti religiosi.

Uno  dei posti in cui era possibile affittare (noleggiare) le bici, si trovava - come molti probabilmente ricorderanno  - in via Roma, nelle vicinanze della Chiesa di Santa Teresa. Lo gestiva un certo Cutroneo, un “forestiero” dal carattere duro e scontroso, talvolta sgarbato, che asseriva d’essere un ex corridore pur se in vita sua aveva vinto si e no una sola gara, quella di sposarsi con una ennese. L’altro esercizio, il più accreditato e rinomato, era quello del Cav. Giuseppe Di Stefano, il rinomato don Pippinu ‘u immirutu di cui s’è avuto già occasione di parlare[1].

 Ecco perché ogni pur minima circostanza o coincidenza riguardante il mondo delle due ruote, rinfocolava prestamente vivaci desideri e istintive curiosità.

Nel mio caso, ad esempio, non era passato inosservato il reiterato via vai sotto i balconi di casa di una minuscola rilucente moto, condotta da un lustro ed impettito ufficiale, probabilmente addetto ai servizi logistici del Comando d’Armata.

Il reiterato transito di quella strana moto dalle inusuali dimensioni - che oltretutto la rendevano alquanto buffa - aveva fatto scattare la mia curiosità e, osservandola  ripetutamente, ero giunto alla facile conclusione che non poteva trattarsi di una moto “militare”. Deduzione logica, del resto, sia perché non recava alcuna targa del R.E. (Regio Esercito) e sia perché non sembrava  un mezzo granché adeguato alle schematizzate esigenze dei reparti militari. Non poteva che trattarsi, quindi, di un motociclo privato la cui innovativa concezione tecnica portava a dedurre che solo da poco tempo fosse in produzione. Il tutto avvolto, ovviamente, era   da una impenetrabile coltre di mistero.

Sta di fatto che, data la poca distanza intercorrente fra il balcone di casa e la strada, non era stato difficile attenzionare il reiterato andirivieni di quella particolare moto[2]. Avevo notato, innanzi tutto, che il motore, rispetto alle moto tradizionali, occupava, sotto il telaio, uno spazio parecchio ridotto. Doveva possedere, però, innovative caratteristiche se, a fronte di così limitate dimensioni, riusciva ad erogare una soddisfacente potenza, tale da consentire prestazioni di tutto rispetto. Da quel piccolo motore proveniva appena un ovattato ronzio che nulla aveva a che spartire, palesemente, con il cupo rombo delle moto di grossa cilindrata dei reparti militari quali, ad esempio, le robuste Moto Guzzi e le Gilera italiane, o le Zundapp e le Ural- BMW tedesche.

Le luccicanti cromature, oltre a fare risaltare le modanature del serbatoio e dell’impianto d’illuminazione, ponevano in evidenza il robusto tubo di scarico e talune altre parti accessorie. Le parti cromate, contrastando con la verniciatura nera del telaio e dei parafanghi, arricchivano la complessiva appariscenza della moto.  Come non esprimere un meritato plauso a chi l’aveva progettata, oltre che all’industria che l’aveva realizzata?

Ed ecco perché ogni qual volta il ronzare del piccolo motore annunciava il passaggio sotto casa di quel  capolavoro della tecnica, mi precipitavo al balcone per coglierne, ancora una volta, la fuggevole vista.

E non era del tutto strana la sensazione che ogni volta scaturiva dalla vista di quell’impettito e imperturbabile ufficiale che, alla guida di quella minuscola moto, appariva ai miei occhi come un gigante in groppa ad un puledrino. Come non provare, alla fine, un senso di bonaria invidia nei suoi riguardi, proprietario o possessore che fosse?

Più volte, a fronte dell’incalzare dei tragici avvenimenti bellici del luglio 1943 che imposero l’affrettato sgombero di Enna da parte del Comando d’Armata, ebbi a pormi dei precisi quesiti cui, però, non ho mai potuto dare una benché minima o esauriente risposta:

-  quale sorte sarà toccata allo sconosciuto ufficiale?

-  che fine avrà fatto la sua piccola moto?

-  saranno riusciti, entrambi, a non farsi travolgere dal disordinato ripiegamento verso Messina?

- saranno riusciti a traversare lo Stretto e a sfuggire alle conseguenze del definitivo abbandono della Sicilia in mani nemiche?

 

[1] - Del Cav. Di Stefano se n’è già parlato a pagina 8 ma va ribadito, simpaticamente, che la “vistosa” gibbosità non alterava e non intaccava menomamente la sua spiccata personalità. Oltretutto possedeva una indiscussa capacità tecnica, operativa e commerciale.

[2] - A distanza di tanto tempo ho scoperto che trattavasi di una “GILERA 175 SIRIO”. Nata nel 1931 da un avveniristico progetto della Casa di Arcore, fu sviluppata negli anni successivi e riscosse un buon successo tecnico e commerciale. Era la più piccola moto marciante dell’epoca e pesava poco più di 95 Kg. Dal 1936 al 1939, malgrado in quel periodo prebellico fosse quasi vietato l’uso di moto private, ne furono prodotti parecchi esemplari. Aveva una potenza di 5 HP e poteva raggiungere una velocità di punta di circa 75 km /h., più che soddisfacente per quelle che erano, allora, le caratteristiche delle moto in circolazione.

 

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