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Uno dei “Racconti di Roccadisopra” di Pino Ferrante 

-“Michele scunchiuduto – 

cuppularo con laurea in medicina”

 

“Come si fa a lavorare con un caldo all’ombra di trenta gradi e con un’afa che ti tiene a mollo da mattina a sera! Ci comportiamo, senza rendercene conto, come le pecore, che sotto il sole restano immobili, per impedire che il movimento faccia crescere la temperatura corporea”. 
Michele, sbracato su una sedia in vimini avanti al bar, tentava, con queste parole, di offrire un sostegno antropologico e climatico all’immobilismo o alla pigrizia dei mediterranei, assioma per alcuni e pregiudizio per molti.
Giuseppe, il cameriere, intervenne con sarcasmo: “ Il caldo lo senti tu e pochi altri figli di papà come te. Se fossi costretto a guadagnare i soldini della granita e del panino di semola che quotidianamente ti servo, non faresti caso alla calura, di cui soffro anch’io. Ma non faccio come le pecore e lavoro dieci ore al giorno per mettere insieme il pane ed il companatico per la famiglia. Il torto è dei vostri genitori, che si ostinano a darvi la paghetta settimanale, che, probabilmente, supera il mio salario. Ma vi rovinano, perché così non apprendete a tempo debito cos’è la fatica del vivere e del produrre. Ve ne accorgerete quando finirete di far finta di studiare e vi toccherà di lavorare. Sarete costretti, per vivere, ad elemosinare, grandi e grossi, la paghetta ai vostri anziani genitori”.
Michele percepì con fastidio il rimprovero. Era lì da oltre due ore, scambiando con gli amici, a perditempo, i soliti pettegolezzi di paese e le diatribe infinite sulle squadre di calcio e sul giro ciclistico d’Italia. Egli giudicava, peraltro, quei discorsi vuoti e banali. Un senso di inutilità, già da alcuni mesi, lo pervadeva. Non era il solo ad avvertire quel disagio esistenziale, da cui non riusciva a tirarsi fuori. E dire che l’anno precedente, prima di iscriversi all’Università, decidendo per la prima volta con la sua testa, aveva espresso ai genitori il desiderio - aveva volutamente omesso definirla decisione - di mettere su una fabbrica di berretti, così proseguendo nell’antica arte del nonno, di cui ricordava con ammirazione la probità e la rettitudine.
Aveva meditato a lungo ed esaminato con serietà le possibilità di riuscita dell’affare. Aveva calcolato i costi ed i possibili profitti, senza indulgere in facili illusioni. Insomma aveva mostrato una sicura maturità, come peraltro accertato da un serio commercialista suo amico. 
I genitori avevano appreso con costernazione la novità e mostrato subito una severa e radicale opposizione al progetto, in ciò agevolati dagli altri parenti. Tutti s’erano dati da fare per togliere dalla testa di Michele quell’idea, ritenuta inopportuna.
Lo zio Giovanni l’aveva, addirittura, così aggredito: -” Ma sei forse divenuto pazzo? Hai conseguito la maturità con buoni voti, non ti mancano le doti ed i soldi per frequentare l’Università e vorresti, invece, tornare a fare il “ coppolaro” come tuo nonno! Cose da manicomio!”
Non c’era congiunto od amico, insomma, che non condividesse il punto di vista dello zio Giovanni. I familiari immaginavano Michele nell’antica bottega di famiglia faticare con gli scampoli di stoffa nel tentativo di ricavarne berretti per tutte le teste e le tasche, come faceva il nonno. Li infastidiva quell’ipotesi di vita e quel ritorno alle origini artigiane della famiglia; aveva l’amaro sapore della sconfitta ed interrompeva il graduale processo del loro riscatto sociale. Non intendevano rinunciare, perciò, al proposito che anche Michele entrasse a far parte del mondo della borghesia professionale od impiegatizia, come era accaduto ad altri familiari. Reddito certo e potere burocratico erano, per loro, categorie mentali irrinunciabili. Le sole che davano lustro e status sociale. 
Nell’escludere che l’attività d’impresa potesse dare le stesse gratificazioni di quelle professioni, scordavano volutamente che non pochi di quei borghesi facevano fatica a mantenere le famiglie. Viveva bene solo chi poteva contare sui redditi delle terre dotali o sullo stipendio di insegnante della moglie. O chi, spregiudicatamente, si arrangiava con la pubblica amministrazione, attività ritenuta non disonorevole dalla maggior parte dei paesani, preferibile a quella dell’idraulico, al quale si facevano i conti in tasca e gli si dava del ladro. 
Era convinzione diffusa che lo Stato, reo di ogni misfatto dalla venuta dei Mille di Garibaldi, meritasse di essere privato, nei modi più diversi, delle sue risorse; tale comportamento era considerato, anche nei salotti buoni, salvo rare eccezioni, un atto irrilevante, quasi scontato. 
Michele subiva l’assedio quotidiano della famiglia, timorosa che egli proseguisse nel suo disegno. S’aspettavano, da lui, l’abiura.
Intanto, mentre si attardava a prendere una decisione, s’era fidanzato, con poca convinzione, con Fina, sua compagna di scuola, maestra elementare di ruolo. A sedici anni era di corporatura robusta ed a venti non perdeva occasione di ingurgitare cassate siciliane e cannoli di ricotta. Michele fu sottilmente irretito da quella realtà in cui era vincente l’apparire e perdente il fare o l’essere. E dire che fino a pochi mesi prima aveva ammirato Danilo Dolci e le sue coraggiose iniziative. Avrebbe voluto, addirittura, partecipare allo sciopero alla rovescia organizzato dal sognatore utopista triestino, che era sceso in Sicilia per scuotere quella terra dal suo sonno secolare. Pur conoscendo i mali della Sicilia, aveva preferito tenersi in disparte e, come gli altri della sua terra, si attardava nell’ozio, in attesa che qualcuno facesse qualcosa, come se spettasse ai forestieri faticare per curare la Trinacria, quale giusto risarcimento per i pretesi torti commessi dal resto del mondo in danno dei siciliani, vittime innocenti.
Iniziò ad apprezzare le comodità della vita di provincia, che gli parve esente da responsabilità e da sacrifici. Così fu scacciata ogni sua velleità, ivi compresa quella di fare l’imprenditore. 
Così stando le cose, i genitori lo convinsero, anzi lo indussero, ad iscriversi alla facoltà di medicina, con questi argomenti:- “ Dopo avere conseguito il pezzo di carta, potrai contare sui numerosi mutuati di tuo suocero sullo stipendio di Fina, che, non lo scordare, è figlia unica. 
Non fare l’allocco ed accetta i nostri consigli. Un’occasione come questa non si ripete!” 
Subì supinamente, anche questa volta, la decisione dei genitori. Sulla bilancia si confrontavano, da un lato, gli evidenti ed immediati benefici e, dall’altro, un ipotetico ed incerto futuro, tutto in salita e da costruire. Non volle fare l’eroe e frequentò le lezioni all’Università, studiando, senza troppa passione ed orgoglio, quanto bastava per superare gli esami. Conseguita la laurea con una modesta votazione, si unì in matrimonio con Fina, mantenendo la iniziale scarsa convinzione. 
Iniziò l’attività di medico della mutua nello studio del suocero, verso il quale nutriva soggezione. Costui, mostrandogli scarsa stima, trattava il genero con sufficienza e paternalismo. Il suocero non era, da parte sua, uno stinco di santo, ma godeva di una forma di autoreferenzialità basata sulla scaltra e spregiudicata gestione del patrimonio. Non si asteneva dalla speculazione immobiliare ed investiva il credito agrario in B.O.T., lucrando la differente remunerazione del capitale. In occasione delle elezioni, riusciva a dirottare i voti dei mutuati verso questo o quel politico, intessendo così una fitta rete di rapporti. Tutti ricordavano quanto bravo fosse stato nel concedere in affitto un palazzo ad un ente pubblico ancor prima di averlo acquistato con regolare rogito. Non gli mancava la simpatia della povera gente, che confondeva quella spregiudicatezza col saper fare. Il tutto era avvolto ed agevolato da un atteggiamento amichevole verso il prossimo, dai suoi successi giovanili negli amori ancillari e dalla conseguita vittoria nella gara dei peti, con i quali era riuscito a spegnere ben dieci candele. 
Michele non reagiva ed accettava passivamente quel tran – tran, che gli garantiva una vita dispendiosa e spensierata. Gli spifferi del male si insinuavano lentamente nella sua coscienza attraverso i consueti varchi dell’abitudine, del quieto vivere e del così fan tutti. Per il suo aggiornamento professionale bastavano i suggerimenti degli informatori farmaceutici e la superficiale lettura delle riviste mediche. 
Prescriveva, in base a queste sommarie indicazioni, un mare di medicine , la cui decantata efficacia era in diretta relazione col loro costo. Le case farmaceutiche lo premiavano, arredandogli la casa di città e di campagna con i più costosi elettrodomestici, ed assicurandogli dispendiosi soggiorni in rinomate località turistiche. Poneva il massimo zelo nel trascorrere tutto il tempo del convegno – così veniva giustificata la gita turistica di aggiornamento professionale - sulle calde spiagge dell’altro emisfero o sulle montagne alpine.
In ambulatorio faceva le diagnosi a “naso” e, quando il quadro clinico non era chiaro, inviava il paziente in ospedale od allo specialista suo amico. Trascorreva in tal modo le sue giornate, o meglio, le sue mezze giornate. 
Non vedeva, infatti, il momento per trasferirsi in case amiche, ove l’attendevano i soliti pettegolezzi e le infinite polemiche sullo sport - argomento principale, quasi esclusivo, ritenuto più importante della politica - che veniva giudicata e liquidata con la frase “ è cosa sporca ed i politicanti sono tutti ladri”. Il gioco a carte riempiva il resto del suo tempo.
Gli parve talmente banale il modo con il quale gli si permetteva di svolgere la professione, da indurlo all’assunzione di una giovane sostituta maestra d’asilo, alla quale, se necessario, impartiva disposizioni telefoniche sulle terapie da prescrivere. Per il resto, a fine giornata, si limitava a firmare le ricette, già predisposte su indicazione dei pazienti. 
Provò vergogna e rossore, ma durò poco, quando in paese, spudoratamente, un suo collega difese, in sua presenza, la nobile arte medica contro le ingenerose critiche dei concittadini. Il Tribunale dei Malati – costui sosteneva - è composto da calunniatori, che profittano degli inevitabili errori umani per infangare la categoria. 
Il suo conto in banca, inevitabilmente, cresceva a dismisura; divenne gioco forza la ricerca di vantaggiosi investimenti. Filippo, consulente finanziario suo amico, aveva compreso gli affanni di Michele. Da buon comunicatore, fu convincente nell’illustrazione di un affare. Michele, digiuno com’era di mercato borsistico allo stesso modo di come lo era di medicina, fu facile preda di Filippo. Con arte soffiò nella mente di Michele lo spiffero del rapido arricchimento, convincendolo, alla fine, ad investire buona parte dei suoi capitali in azioni di una società sudamericana “in crescente e tumultuoso sviluppo”, come il consulente aveva perentoriamente affermato. Trattandosi di società del settore farmaceutico, a Michele venne spontaneo pensare: “ Se queste grandi società sono in grado di arredare le case dei medici, sono altrettanto brave ad ottenere buoni profitti.” 
Queste illusioni cessarono dopo qualche mese, quando in televisione apparve un servizio su quella società. Apprese, con costernazione, che l’azienda sudamericana era stata partorita della fantasia di un gruppo di truffatori. 
Lo stesso giorno Filippo sparì insieme alle sue invenzioni, non senza far sapere a Michele che non poteva lamentarsi di quanto accadutogli, perché egli si era limitato a rendere pan per focaccia; aveva fatto esplicito riferimento alla faccenda delle medicine ed al modo con cui spillava soldi alle case farmaceutiche, o, meglio, alle Aziende Sanitarie.
Il paradiso divenne, per Michele, un inferno. Non volle o non potè La moglie, che s’era ingrassata oltre ogni decenza, impiegava le ore libere a leggere con passione la storia dei “Beati Paoli”, gli oroscopi e le rubriche giornalistiche sui vip. Ingurgitava, intanto, tazze di cioccolata e pastine di mandorla. Appresa la cattiva novella, tenendo le mani sui fianchi del suo corpo bassino e rotondo, aveva aggredito il marito con queste invettive:-“ Solo un cretino come te poteva lasciarsi imbrogliare da Filippo, che gira in Maserati con i soldi rubati ai minchioni. Mio padre, poveretto, mi aveva messo in guardia prima di sposarti, dicendomi che lo facevi per i suoi soldi ed i suoi mutuati e per il mio stipendio! Solo uno sciagurato poteva profittare della mia ingenuità! Tu usi la casa come un albergo ed il mestiere, che non conosci, per imbrogliare la gente. I soldi, che ti guadagni senza meriti, servono per le puttane di mezzo mondo e per farteli rubare dai vari Filippo! Sei mille volte scunchiuduto!“
Aveva così scaricato la bile da tempo accumulata, motivata dai numerosi e gravi torti subiti, ultimo dei quali per importanza non era, di certo, l’ingente perdita finanziaria. Da oltre un anno, infatti, il letto matrimoniale serviva solo per dormire. 
Era divenuto evidente per tutti, anche per Fina, che i viaggi periodici di Michele in giro per il mondo erano finalizzati a soddisfare la sete di sesso, non certo di sapere.
Gli amici giustificavano i suoi peccati coniugali, dicendo con malizia ed ironia:- “ Ma come può un uomo desiderare una donna come Fina, che di fino ha solo il mignolo, non certo il corpo ed il cervello!”
Le dure invettive della moglie rivelarono a Michele, oltre ogni dubbio, come un colpo di cannone, il suo totale fallimento umano e professionale. Percepì, finalmente, la sua miseria spirituale, ma temette di non avere la forza per un recupero di dignità. Nel rievocare il disprezzo del suocero e, quello, ingiurioso, della moglie, desiderò, sopra ad ogni cosa, un radicale cambiamento. Gli anticorpi etici, che ricordava di aver posseduto prima del suo passivo coinvolgimento nelle retrive logiche di paese, lentamente riemersero e furono efficaci. Provò rammarico ed, in alcuni casi vergogna, per le scelte degli ultimi anni, durante i quali si era limitato, per insipida convenienza, a condividere gli aspetti amorali del provincialismo. Non lanciò accuse ad altri, ma a se stesso, che giudicò immeritevole di assoluzione per i torti arrecati, soprattutto, all’indifesa Fina. Aveva permesso che quel rapporto coniugale, privo di valori e di stima, nascesse e proseguisse.
Fra i coniugi fu inevitabile la rottura. 
Fina continuò, dopo la separazione, a coltivare le sue inconsapevoli banalità, mostrando, a scuola, isterismi mascherati da intenti pedagogici ed, in casa, immergendosi nella lettura di inverosimili storie d’amore e di astrologia. Il tutto condito dalla buona cucina, su cui investiva le sue frustrazioni.
Michele reagì agli avvenimenti, ripristinando la titolarità del decidere, a dispetto delle prevalenti regole dell’ambiente. “Il sonno della coscienza – pensò – ha avuto una lunga durata e debbo ad ogni costo recuperare il tempo perduto”. Avvenne il suo progressivo rientro nei nuovi equilibri di vita, finalmente scandita dai tempi e dalle regole dettate dalla ragione e dalla morale.
Fu inevitabile trasferirsi in altra località. Sentì l’imperativo morale di abbandonare la professione medica e riattivò l’antico progetto. Tirò fuori dalla cantina gli strumenti di lavoro del nonno e, in poco tempo, mise su una fabbrica di berretti. Utilizzò nel nuovo lavoro le conoscenze linguistiche apprese nei suoi viaggi e quelle economiche, nel frattempo acquisite, riuscendo ad attivare rapporti d’affari a livello internazionale. La caparbietà e la volontà del fare partirono il successo. Fece volontariato, quale riparazione dei suoi errori e volle celebrare la sua Pasqua di resurrezione partecipando, in paese, ai riti della Settimana Santa. E si commosse. Scoprì che il dolore dell’uomo poteva trovare consolazione nelle fantastiche suggestioni di quelle antiche liturgie, durante le quali ciascuno si pone indistintamente, anche da non credente, alla ricerca di Dio nella speranza di un perdono o di una accettabile ragione alla propria esistenza. 
Nel paese del sonno la gente mise in giro la voce che Michele – povero pazzo e scunchiuduto - faceva il “coppolaro” con laurea in medicina. Per fornire sostegno all’infausta diagnosi, i paesani omisero di aggiungere che egli aveva alle sue dipendenze oltre cento operai e che era un uomo felice.
Fina si risposò con un giovane e rampante medico in cerca di fortuna, portando in dote al marito di bocca buona i suoi settantacinque chili e, quel che più contava, i numerosi mutuati ed i soldi del padre. Il medico rimise subito in funzione gli antichi arnesi di facile arricchimento, che, quel fesso di Michele il coppolaro, aveva ritenuto di dismettere. 
L’antico ordine, in paese, era stato ristabilito, mentre le Pasque e le lunghe processioni di folli commosse si ripetevano, anno dopo anno, in attesa della concreta resurrezione delle coscienze. Così come accade da secoli.

 

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