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Giosuè CARDUCCI

 

San Martino (Rime Nuove)


La nebbia agli irti colli
Piovigginando sale,
E sotto il maestrale
Urla e biancheggia il mar;
Ma per le vie del borgo
Dal ribollir de’ tini
Va l’aspro odor de i vini
L’anime a rallegrar.
Gira su’ ceppi accesi
Lo spiedo scoppiettando:
Sta il cacciator fischiando
Su l’uscio a rimirar
Tra le rossastre nubi
Stormi d’uccelli neri,
Com’ esuli pensieri,
Nel vespero migrar.

 

 

 

Pianto Antico 

L'albero a cui tendevi
la pargoletta mano,
il verde melograno
da' bei vermigli fior,
nel muto orto solingo
rinverdì tutto or ora
e giugno lo ristora
di luce e di calor.
tu fior della mia pianta
percossa e inaridita,
tu dell'inutil vita
estremo unico fior,
sei ne la terra fredda,
sei ne la terra negra;
né il sol più ti rallegra
né ti risveglia amor.


Nevicata

Lenta fiocca la neve pe ‘l cielo cinerëo: gridi,
suoni di vita più non salgono da la città,

non d’erbaiola il grido o corrente rumore di carro,
non d’amor la canzon ilare e di gioventù.

Da la torre di piazza roche per l’aëre le ore
Gemon, come sospir d’un mondo lungi dal dì.

Picchiano uccelli raminghi a’ vetri appannati: gli amici
Spiriti reduci son, guardano e chiamano a me.

In breve, o cari, in breve – tu càlmati, indomito cuore –
Giù al silenzio verrò, ne l’ombra riposerò. 

Nostalgia

Là in Maremma ove fiorio
La mia triste primavera,
La' rivola il pensier mio
Con i tuoni e la bufera:
La' nel cielo librarmi
La mia patria a riguardar,
Poi co'l tuon vo' sprofondarmi
Tra quei colli ed in quel mar.



Sogno d'estate

Sognai, placide cose de' miei novelli anni sognai.
non piu' libri: la stanza da'l sole di luglio affocata,
rintronata da i carri rotolanti su 'l ciottolato
da la città, slargossi: sorgeanmi intorno i miei colli,
cari selvaggi colli che il giovane april rifioria.



Traversando la Maremma Toscana

Dolce paese, onde portai conforme
L'abito fiero e lo sdegnoso canto
E il petto ov'odio e amor mai non s'addorme,
pur ti riveggo e il cuor mi balza tanto.
(...)
Pace dicono al cuor le tue colline
Con le nebbie sfumanti e il verde piano
Ridente ne le pioggie mattutine.



Egle 

Stanno nel grigio verno pur d'edra e di lauro vestite 
ne l'Appia trista1 le ruinose tombe. 

Passan pe 'l ciel turchino 
che stilla ancor da la pioggia 
avanti al sole lucide nubi bianche. 

Egle, levato il capo vèr' quella serena promessa 
di primavera, guarda le nubi e il sole. 

Guarda; e innanzi a la bella sua fronte 
più ancora che al sole 
ridon le nubi sopra le tombe antiche. 



Mezzogiorno alpino 

Nel gran cerchio de l'alpi, su 'l granito
squallido e scialbo, su' ghiacciai candenti,
regna sereno intenso ed infinito
nel suo grande silenzio il mezzodí. 

Pini ed abeti senza aura di venti
si drizzano nel sol che gli penètra,
sola garrisce in picciol suon di cetra
l'acqua che tenue tra i sassi fluí. 


Il bove

T'amo pio bove; e mite un sentimento
Di vigore e di pace al cor m'infondi,
O che solenne come un monumento
Tu guardi i campi liberi e fecondi,
O che al giogo inchinandoti contento
L'agil opra de l'uom grave secondi:
Ei t'esorta e ti punge, e tu co 'l lento
Giro de' pazienti occhi rispondi.
(....)
Edel grave occhio glauco entro l'austera
Dolcezza si rispecchia ampio e quieto
Il divino del pian silenzio verde.


Il Parlamento -

In questa poesia si rievoca l'adunanza in Parlamento dei Milanesi,
dopo la distruzione della città, e in cui decidono di affrontare." A lancia e spada il Barbarossa in campo"


E squillarono le trombe a parlamento
Squillarono le trombe a parlamento:
Ché non ancor resurto era il palagio
Su’ gran pilastri, né l’arengo v’era,
Né torre v’era, né alla torre in cima
La campana. Fra i ruderi che neri
Verdeggiavan di spine, fra le basse
Case di legno, ne la breve piazza
I milanesi tenner parlamento
Al sol di maggio. Da finestre e porte
Le donne riguardavano e i fanciulli.

 


Compagnia della Morte


"Vi sovvien?" dice Alberto di Giussano:
Nove giorni aspettammo; e si partiro
l’arcivescovo i conti e i valvassori,
Venne al decimo il bando — Uscite, o tristi,
Con le donne co' i figli e con le robe:
Otto giorni vi dà l’imperatore.
E noi corremmo urlando a Sant’Ambrogio,
Ci abbracciammo a gli altari ed a i sepolcri.
Via da la chiesa, con le donne e i figli,
Via ci cacciaron come can tignosi."
Vi sovvien dice alberto di Giussano
La domenica triste de gli ulivi?
Ahi, passion di Cristo e di Milano!
Da i quattro Corpi santi ad una ad una
Crosciar vedemmo le trecento torri
De la cerchia; ed al fin per la ruina
Polverose ci apparvero le case
Spezzate, smozzicate, sgretolate,
Parean file di scheltri in cimitero.
Di sotto, l’ossa ardean de’ nostri morti."
Così dicendo Alberto di Giussano
Con tutt’e due le man copriasi gli occhi,
E singhiozzava: in mezzo al parlamento
Singhiozzava e piangea come un fanciullo.
Ed allora per tutto il parlamento
Trascorse quasi un fremito di belve.
Da le porte le donne e dai veroni,
Pallide, scarmigliate, con le braccia
Tese e gli occhi sbarati al parlamento,
Urlavano — "Uccidete il Barbarossa".


Alla Regina D'Italia

Onde venisti? Quali a noi secoli
sí mite e bella ti tramandarono?
fra i canti de' sacri poeti
dove un giorno, o regina, ti vidi? 

Ne le ardue ròcche, quando tingeasi
a i latin soli la fulva e cerula
Germania, e cozzavan nel verso
nuovo l'armi tra lampi d'amore? 

Seguiano il cupo ritmo monotono
trascolorando le bionde vergini,
e al ciel co' neri umidi occhi
impetravan mercé per la forza. 

O ver ne i brevi dí che l'Italia
fu tutta un maggio, che tutto il popolo
era cavaliere? Il trionfo
d'Amor gía tra le case merlate 

in su le piazze liete di candidi
marmi, di fiori, di sole; e 'O nuvola
che in ombra d'amore trapassi, 
l'Alighieri cantava - sorridi!'

Come la bianca stella di Venere
ne l'april novo surge da' vertici
de l'alpi, ed il placido raggio
su le nevi dorate frangendo 

ride a la sola capanna povera,
ride a le valli d'ubertà floride,
e a l'ombra de' pioppi risveglia
li usignoli e i colloqui d'amore: 

fulgida e bionda ne l'adamàntina
luce del serto tu passi, e il popolo
superbo di te si compiace
qual di figlia che vada a l'altare; 

con un sorriso misto di lacrime
la verginetta ti guarda, e trepida
le braccia porgendo ti dice
come a suora maggior 'Margherita!'

E a te volando la strofe alcaica,
nata ne' fieri tumulti libera,
tre volte ti gira la chioma
con la penna che sa le tempeste: 

e, Salve, dice cantando, o inclita
a cui le Grazie corona cinsero,
a cui sí soave favella
la pietà ne la voce gentile! 

Salve, o tu buona, sin che i fantasimi
di Raffaello ne' puri vesperi
trasvolin d'Italia e tra' lauri
la canzon del Petrarca sospiri! 



Per le nozze di mia figlia 

O nata quando su la mia povera
casa passava come uccel profugo
la speranza, e io disdegnoso
battea le porte de l'avvenire;

or che il piè saldo fermai su 'l termine
cui combattendo valsi raggiungere
e rauchi squittiscon da torno
i pappagalli lusingatori;

tu mia colomba t'involi, trepida
il nuovo nido voli a contessere
oltre Apennino, nel nativo
aëre dolce de' colli tóschi.

Va' con l'amore, va' con la gioia,
va' con la fede candida. L'umide 
pupille fise al vel fuggente,
la mia Camena tace e ripensa.

Ripensa i giorni quando tu parvola
coglievi fiori sotto le acacie,
ed ella reggendoti a mano
fantasmi e forme spïava in cielo.

Ripensa i giorni quando a la morbida
tua chioma intorno rogge strisciavano
le strofe contro a gli oligarchi
librate e al vulgo vile d'Italia.

E tu crescevi pensosa vergine,
quand'ella prese d'assalto intrepida
i clivi de l'arte e piantovvi
la sua bandiera garibaldina.

Riguarda, e pensa. De gli anni il tramite
teco fia dolce forse ritessere,
e risognare i cari sogni
nel blando riso de' figli tuoi?

O forse meglio giova combattere
fino a che l'ora sacra richiamine?
Allora, o mia figlia, - nessuna
me Beatrice ne' cieli attende 

allora al passo che Omero ellenico
e il cristïano Dante passarono
mi scorga il tuo sguardo,
la nota voce tua m'accompagni. 


Il mese dei prati erbosi

È il mese dei prati erbosi e delle rose; il mese dei 
giorni lunghi e delle notti chiare.
Le rose fioriscono nei giardini, si arrampicano 
sui muri delle case.
Nei campi, tra il grano, fioriscono 
gli azzurri fiordalisi e i papaveri fiammanti e, 
la sera, mille e mille lucciole scintillano fra
le spighe d'oro.

 

Giugno

E' il mese dei prati erbosi e delle rose; 
il mese dei giorni lunghi e delle notti chiare.
Le rose fioriscono nei giardini, si arrampicano
sui muri delle case. Nei campi, tra il grano,
fioriscono gli azzurri fiordalisi e i papaveri
fiammanti e la sera mille e mille lucciole 
scintillano fra le spighe.
Il campo di grano ondeggia al passare 
del vento: sembra un mare d'oro.
Il contadino guarda le messi e sorride. Ancora
pochi giorni e raccoglierà il frutto delle sue fatiche.

 

Piemonte


"Una delle sue odi barbare più decisamete brutte" giudicò Piemonte Luigi Russo.
Carducci risponde "Che il Piemonte non ti piaccia, mi dispiace; delle cose mie è una delle più immediate sentite e facilmente verseggiate.

Su le dentate scintillanti vette
salta il camoscio, tuona la valanga
da' ghiacci immani rotolando per le
selve croscianti:

ma da i silenzi de l'effuso azzurro
esce nel sole l'aquila, e distende
in tarde ruote digradanti il nero
volo solenne.

Salve, Piemonte! A te con melodia
mesta da lungi risonante, come
gli epici canti del tuo popol bravo,
scendono i fiumi.

Scendono pieni, rapidi, gagliardi,
come i tuoi cento battaglioni, e a valle
cercan le deste a ragionar di gloria
ville e cittadi:

la vecchia Aosta di cesaree mura
ammantellata, che nel varco alpino
èleva sopra i barbari manieri
l'arco d'Augusto:

Ivrea la bella che le rosse torri
specchia sognando a la cerulea Dora
nel largo seno, fosca intorno è l'ombra
di re Arduino :

Biella tra 'I monte e il verdeggiar de' piani
lieta guardante l'ubere convalle,
ch'armi ed aratri e a l'opera fumanti
camini ostenta :

Cuneo possente e pazïente, e al vago
declivio il dolce Mondoví ridente,
e l'esultante di castella e vigne
suol d'Aleramo;

e da Superga nel festante coro
de le grandi Alpi la regal Torino
incoronata di vittoria, ed Asti
repubblicana.

Fiera di strage gotica e de l'ira
di Federico, dal sonante fiume
ella, o Piemonte, ti donava il carme
novo d'Alfieri.

Venne quel grande, come il grande augello
ond'ebbe nome, e a l'umile paese
sopra volando, fulvo, irrequïeto,
Italia, Italia

egli gridava a' dissueti orecchi,
a i pigri cuori, a gli animi giacenti.
Italia, Italia - rispondeano l'urne
d'Arquà e Ravenna :

e sotto il volo scricchiolaron l'ossa
sé ricercanti lungo il cimitero
de la fatal penisola a vestirsi
d'ira e di ferro.

Italia, Italia! E il popolo de' morti
surse cantando a chiedere la guerra;
e un re a la morte nel pallor del viso
sacro e nel cuore

trasse la spada. Oh anno de' portenti,
oh primavera de la patria, oh giorni,
ultimi giorni del fiorente maggio,
oh trionfante

suon de la prima italica vittoria
che mi percosse il cuor fanciullo! Ond'io,
vate d'Italia a la stagion più bella,
in grige chiome

oggi ti canto, o re de' miei verd'anni,
re per tant'anni bestemmiato e pianto,
che via passasti con la spada in pugno
ed il cilicio

al cristian petto, italo Amleto. Sotto
il ferro e il fuoco del Piemonte, sotto
di Cuneo 'I nerbo e l'impeto d'Aosta
sparve il nemico.

Languido il tuon de l'ultimo cannone
dietro la fuga austrïaca moría:
il re a cavallo discendeva contra
il sol cadente:

a gli accorrenti cavalieri in mezzo,
di fumo e polve e di vittoria allegri,
trasse, ed, un foglio dispiegato, disse
resa Peschiera.

Oh qual da i petti, memori de gli avi,
alte ondeggiando le sabaude insegne,
surse fremente un solo grido: Viva
il re d'Italia!

Arse di gloria, rossa nel tramonto.
I'ampia distesa del lombardo piano;
palpitò il lago di Virgilio, come
velo di sposa

che s'apre al bacio del promesso amore:
pallido, dritto su l'arcione, immoto,
gli occhi fissava il re: vedeva l'ombra
del Trocadero.

E lo aspettava la brumal Novara
e a' tristi errori mèta ultima Oporto.
Oh sola e cheta in mezzo de' castagni
villa del Douro,

che in faccia il grande Atlantico sonante
a i lati ha il fiume fresco di camelie,
e albergò ne la indifferente calma
tanto dolore!

Sfaceasi; e nel crepuscolo de i sensi
tra le due vite al re davanti corse
una miranda visïon: di Nizza
il marinaro

biondo che dal Gianicolo spronava
contro l'oltraggio gallico : d'intorno
splendeagli, fiamma di piropo al sole,
I'italo sangue.

Su gli occhi spenti scese al re una stilla,
lenta errò l'ombra d'un sorriso. Allora
venne da l'alto un vol di spirti, e cinse
del re la morte.

Innanzi a tutti, o nobile Piemonte,
quei che a Sfacteria dorme e in Alessandria
diè a l'aure primo il tricolor, Santorre
di Santarosa.

E tutti insieme a Dio scortaron l'alma
di Carl'Alberto. - Eccoti il re, Signore,
che ne disperse, il re che ne percosse.
Ora, o Signore,

anch'egli è morto, come noi morimmo,
Dio, per l'Italia. Rendine la patria.
A i morti, a i vivi, pe 'I fumante sangue
da tutt'i campi,

per il dolore che le regge agguaglia
a le capanne, per la gloria, Dio,
che fu ne gli anni, pe 'I martirio, Dio,
che è ne l'ora,

a quella polve eroïca fremente,
a questa luce angelica esultante,
rendi la patria, Dio; rendi l'Italia
a gl'italiani.



Al campo

Su, coi fecondi raggi novelli,
al campo, al campo, cari fratelli!
Al campo, al campo. Dio benedica
del campagnuolo l'umil fatica.
Dolce è il lavoro, quando, in bel giorno
tutto il creato ci arride intorno;
e sotto il piede ci odora il fiore
che ignoto vive, che ignoto muore



La Madre

Lei certo l'alba che affretta rosea
al campo ancora grigio gli agricoli
mirava scalza co 'l piè ratto
passar tra i roridi odor del fieno.

Curva su i biondi solchi i larghi omeri
udivan gli olmi bianchi di polvere
lei stornellante su 'l meriggio
sfidar le rauche cicale a i poggi.

E quando alzava da l'opra il turgido
petto e la bruna faccia ed i riccioli
fulvi, i tuoi vespri, o Toscana,
coloraro ignei le balde forme.

Or forte madre palleggia il pargolo
forte; da i nudi seni già sazio
palleggialo alto, e ciancia dolce
con lui che a' lucidi occhi materni

intende gli occhi fissi ed il piccolo
corpo tremante d'inquïetudine
e le cercanti dita: ride
la madre e slanciasi tutta amore.

A lei d'intorno ride il domestico
lavor, le biade tremule accennano
dal colle verde, il büe mugghia,
su l'aia il florido gallo canta.

Natura a i forti che per lei spregiano
le care a i vulghi larve di gloria
così di sante visïoni
conforta l'anime, o Adrïano:

onde tu al marmo, severo artefice,
consegni un'alta speme de i secoli.
Quando il lavoro sarà lieto?
Quando securo sarà l'amore?

quando una forte plebe di liberi
dirà guardando nel sole: Illumina
non ozi e guerre a i tiranni,
ma la giustizia pia del lavoro?


Canto di Marzo

Quale una incinta, su cui scende languida
languida l'ombra del sopore e l'occupa,
disciolta giace e palpita su 'l talamo,
sospiri al labbro e rotti accenti vengono
e sùbiti rossor la faccia corrono;

tale è la terra: l'ombra de le nuvole
passa a sprazzi su 'l verde tra il sol pallido:
umido vento scuote i pèschi e i mandorli
bianco e rosso fioriti, ed i fior cadono:
spira da i pori de le glebe un cantico.

O salienti da' marini pascoli
vacche del cielo, grige e bianche nuvole,
versate il latte da le mamme tumide
al piano e al colle che sorride e verzica,
a la selva che mette i primi palpiti. 

Così cantano i fior che si risvegliano:
così cantano i germi che si movono
e le radici che bramose stendonsi:
così da l'ossa de i sepolti cantano
i germi de la vita e de gli spiriti.

Ecco l'acqua che scroscia e il tuon che brontola:
porge il capo il vitel da la stalla umida,
la gallina scotendo l'ali strepita,
profondo nel verzier sospira il cùculo
ed i bambini sopra l'aia saltano.

Chinatevi al lavoro, o validi omeri;
schiudetevi a gli amori, o cuori giovani;
impennatevi a i sogni, ali de l'anime;
irrompete a la guerra, o desii torbidi:
ciò che fu torna e tornerà ne i secoli.


Jaufrè Rudel

Dal Libano trema e rosseggia
Su 'l mare la fresca mattina:
Da Cipri avanzando veleggia
La nave crociata latina.
A poppa di febbre anelante
Sta il prence di Blaia, Rudello,
E cerca co 'l guardo natante
Di Tripoli in alto il castello.

In vista a la spiaggia asïana
Risuona la nota canzone:
«Amore di terra lontana,
Per voi tutto il core mi duol.»
Il volo d'un grigio alcïone
Prosegue la dolce querela,
E sovra la candida vela
S'affligge di nuvoli il sol.

La nave ammaina, posando
Nel placido porto. Discende
Soletto e pensoso Bertrando,
La via per al colle egli prende.
Velata di funebre benda
Lo scudo di Blaia ha con sé:
Affretta al castel: - Melisenda
Contessa di Tripoli ov'è?

Io vengo messaggio d'amore,
Io vengo messaggio di morte:
Messaggio vengo io del signore
Di Blaia, Giaufredo Rudel.
Notizie di voi gli fûr porte,
V'amò vi cantò non veduta:
Ei viene e si muor. Vi saluta,
Signora, il poeta fedel. 

La dama guardò lo scudiero
A lungo, pensosa in sembianti:
Poi surse, adombrò d'un vel nero
La faccia con gli occhi stellanti:
Scudier, - disse rapida - andiamo.
Ov'è che Giaufredo si muore?
Il primo al fedele rechiamo
E l'ultimo motto d'amore. 

Giacea sotto un bel padiglione
Giaufredo al conspetto del mare:
In nota gentil di canzone
Levava il supremo desir.
Signor che volesti creare
Per me questo amore lontano,
Deh fa che a la dolce sua mano
Commetta l'estremo respir! 

Intanto co 'l fido Bertrando
Veniva la donna invocata;
E l'ultima nota ascoltando
Pietosa risté su l'entrata:
Ma presto, con mano tremante
Il velo gittando, scoprì
La faccia; ed al misero amante
Giaufredo, - ella disse - son qui. 

Voltossi, levossi co 'l petto
Su i folti tappeti il signore,
E fiso al bellissimo aspetto
Con lungo sospiro guardò.
Son questi i begli occhi che amore
Pensando promisemi un giorno?
È questa la fronte ove intorno
Il vago mio sogno volò? 

Sí come a la notte di maggio
La luna da i nuvoli fuora
Diffonde il suo candido raggio
Su 'l mondo che vegeta e odora,
Tal quella serena bellezza
Apparve al rapito amatore,
Un'altra divina dolcezza
Stillando al morente nel cuore.

Contessa, che è mai la vita?
È l'ombra d'un sogno fuggente.
La favola breve è finita,
Il vero immortale è l'amor.
Aprite le braccia al dolente.

Vi aspetto al novissimo bando.
Ed or, Melisenda, accomando
A un bacio lo spirto che muor. 

La donna su 'l pallido amante
Chinossi recandolo al seno,
Tre volte la bocca tremante
Co 'l bacio d'amore baciò,
E il sole da 'l cielo sereno
Calando ridente ne l'onda
L'effusa di lei chioma bionda
Su 'l morto poeta irraggiò.


Davanti San Guido

I cipressi che a Bolgheri alti e schietti
Van da San Guido in duplice filar,

Quasi in corsa giganti giovinetti 
Mi balzarono incontro e mi guardar. 

Mi riconobbero, e - Ben torni omai -
Bisbigliaron vèr' me co 'l capo chino -
Perché non scendi? Perché non ristai?
Fresca è la sera e a te noto il cammino. 

Oh sièditi a le nostre ombre odorate
Ove soffia dal mare il maestrale:
Ira non ti serbiam de le sassate
Tue d'una volta: oh non facean già male! 

Nidi portiamo ancor di rusignoli:
Deh perché fuggi rapido cosí ? 
Le passere la sera intreccian voli
A noi d'intorno ancora. Oh resta qui! 

Bei cipressetti, cipressetti miei,
Fedeli amici d'un tempo migliore,
Oh di che cuor con voi mi resterei -
Guardando lor rispondeva - oh di che cuore ! 

Ma, cipressetti miei, lasciatem'ire:
Or non è piú quel tempo e quell'età.
Se voi sapeste!... via, non fo per dire,
Ma oggi sono una celebrità. 

E so legger di greco e di latino,
E scrivo e scrivo, e ho molte altre virtú:
Non son piú, cipressetti, un birichino,
E sassi in specie non ne tiro piú. 

E massime a le piante. - Un mormorio
Pe' dubitanti vertici ondeggiò,

E il dí cadente con un ghigno pio
Tra i verdi cupi roseo brillò.

Intesi allora che i cipressi e il sole
Una gentil pietade avean di me,
E presto il mormorio si fe' parole:
Ben lo sappiamo: un pover uom tu se'. 

Ben lo sappiamo, e il vento ce lo disse
Che rapisce de gli uomini i sospir,
Come dentro al tuo petto eterne risse
Ardon che tu né sai né puoi lenir. 

A le querce ed a noi qui puoi contare
L'umana tua tristezza e il vostro duol.
Vedi come pacato e azzurro è il mare,
Come ridente a lui discende il sol! 

E come questo occaso è pien di voli,
Com'è allegro de' passeri il garrire!
A notte canteranno i rusignoli:
Rimanti, e i rei fantasmi oh non seguire;

I rei fantasmi che da' fondi neri
De i cuor vostri battuti dal pensier
Guizzan come da i vostri cimiteri
Putride fiamme innanzi al passegger.

Rimanti; e noi, dimani, a mezzo il giorno,
Che de le grandi querce a l'ombra stan
Ammusando i cavalli e intorno intorno
Tutto è silenzio ne l'ardente pian,

Ti canteremo noi cipressi i cori
Che vanno eterni fra la terra e il cielo:
Da quegli olmi le ninfe usciran fuori
Te ventilando co 'l lor bianco velo;

E Pan l'eterno che su l'erme alture
A quell'ora e ne i pian solingo va

Il dissidio, o mortal, de le tue cure
Ne la diva armonia sommergerà. 

Ed io - Lontano, oltre Apennin, m'aspetta
La Tittí - rispondea; - lasciatem'ire.
È la Tittí come una passeretta, 
Ma non ha penne per il suo vestire. 

E mangia altro che bacche di cipresso; 
Né io sono per anche un manzoniano

Che tiri quattro paghe per il lesso.
Addio, cipressi! addio, dolce mio piano! 

Che vuoi che diciam dunque al cimitero
Dove la nonna tua sepolta sta?
E fuggíano, e pareano un corteo nero
Che brontolando in fretta in fretta va. 

Di cima al poggio allor, dal cimitero,
Giú de' cipressi per la verde via,
Alta, solenne, vestita di nero
Parvemi riveder nonna Lucia: 

La signora Lucia, da la cui bocca,
Tra l'ondeggiar de i candidi capelli,
La favella toscana, ch'è sí sciocca
Nel manzonismo de gli stenterelli,

Canora discendea, co 'l mesto accento 
De la Versilia che nel cuor mi sta,
Come da un sirventese del trecento,
Piena di forza e di soavità. 

O nonna, o nonna! deh com'era bella
Quand'ero bimbo! ditemela ancor,
Ditela a quest'uom savio la novella
Di lei che cerca il suo perduto amor! 

Sette paia di scarpe ho consumate
Di tutto ferro per te ritrovare: 
Sette verghe di ferro ho logorate
Per appoggiarmi nel fatale andare:

Sette fiasche di lacrime ho colmate,
Sette lunghi anni, di lacrime amare:
Tu dormi a le mie grida disperate,
E il gallo canta, e non ti vuoi svegliare. 

Deh come bella, o nonna, e come vera
È la novella ancor! Proprio cosí.
E quello che cercai mattina e sera
Tanti e tanti anni in vano, è forse qui,

Sotto questi cipressi, ove non spero, 
Ove non penso di posarmi piú: 
Forse, nonna, è nel vostro cimitero 
Tra quegli altri cipressi ermo là su. 

Ansimando fuggía la vaporiera
Mentr'io cosí piangeva entro il mio cuore;

E di polledri una leggiadra schiera
Annitrendo correa lieta al rumore. 

Ma un asin bigio, rosicchiando un cardo 
Rosso e turchino, non si scomodò: 
Tutto quel chiasso ei non degnò d'un guardo
E a brucar serio e lento seguitò.



Sogno d' estate

Tra le battaglie, Omero, nel carme tuo sempre sonanti
la calda ora mi vinse: chinommisi il capo tra 'l sonno
in riva di Scamandro, ma il cor mi fuggì su 'l Tirreno.
Sognai, placide cose de' miei novelli anni sognai.
Non più libri: la stanza da 'l sole di luglio affocata,
rintronata da i carri rotolanti su 'l ciottolato 
de la città, slargossi: sorgeanmi intorno i miei colli,
cari selvaggi colli che il giovane april rifioría.
Scendeva per la piaggia con mormorii freschi un zampillo 
pur divenendo rio: su 'l rio passeggiava mia madre
florida ancor ne gli anni, traendosi un pargolo a mano
cui per le spalle bianche splendevano i riccioli d'oro.
Andava il fanciulletto con piccolo passo di gloria,
superbo de l'amore materno, percosso nel core 
da quella festa immensa che l'alma natura intonava.
Però che le campane sonavano su dal castello
annunziando Cristo tornante dimane a' suoi cieli;
e su le cime e al piano, per l'aure, pe' rami, per l'acque,
correa la melodia spiritale di primavera;
ed i péschi ed i méli tutti eran fior' bianchi e vermigli,
e fior gialli e turchini ridea tutta l'erba al di sotto,
ed il trifoglio rosso vestiva i declivii de' prati,
e molli d'auree ginestre si paravano i colli,
e un'aura dolce movendo quei fiori e gli odori 
veniva giú dal mare; nel mar quattro candide vele 
andavano andavano cullandosi lente nel sole, 
che mare e terra e cielo sfolgorante circonfondeva.
La giovine madre guardava beata nel sole. 
Lo guardava la madre, guardava pensoso il fratello,
questo che or giace lungi su 'l poggio d'Arno fiorito,
quella che dorme presso ne l'erma solenne Certosa;
pensoso e dubitoso s'ancora ei spirassero l'aure
o ritornasser pii del dolor mio da una plaga 
ove tra note forme rivivono gli anni felici. 
Passar le care imagini, disparvero lievi co 'l sonno.
Lauretta empieva intanto di gioia canora le stanze,
Bice china al telaio seguia cheta l'opra de l'ago.

 

Mezzogiorno alpino

Nel gran cerchio de l'alpi, su 'I granito 
Squallido e scialbo, su' ghiacciai candenti,
Regna sereno intenso ed infinito
Nel suo grande silenzio il mezzodí.

Pini ed abeti senza aura di venti
Si drizzano nel sol che gli penètra,

Sola garrisce in picciol suon di cetra
L'acqua che tenue tra i sassi fluí. 



Elegia del Monte Spluga

No, forme non eran d'aer colorato né piante 
garrule e mosse al vento: ninfe eran tutte e dee. 

E quale iva salendo volubile e cerula come 
velata emerse Teti da l'Egeo grande a Giove: 

e qual balzava da la palpitante scorza de' pini 
rosea, I'agil donando florida chioma a l'aure: 

e qual da la cintura d'in cima a' ghiacci diasprati 
sciogliea, nastri d'argento, le cascatelle allegre.

Sola in vett'a un gran masso di quarzo brillante al meriggio
in disparte sedevi, Lorely pellegrina :

solcavi l'aurea chioma con l'aureo pettine, lunga
la chioma iva per l'alpe, vi ridea dentro il sole.

In un tempio a larghe ombre di larici acuti le Fate
stavan, occhi fiammanti ne la gemma de' visi:

serti di quercia al crine su le nere clamidi nero,
scettri avean d'oro in mano: riguardavano me.

Orco umano, che sali da' piani fumanti di tedio, 
noi la ti demmo : aveva gli occhi color del mare.

Or tu ne vieni solo. Che festi di nostra sorella? 
I'hai divorata?- E fise riguardavan pur me.

No, temibili Fate, no, soavi ninfe, lo giuro:
ella è volata fuori de la veduta mia.

Ma la sua forma vive, ma palpita l'alma sua vita
ne le mie vene, in cima de la mia mente siede.

Con la imagine sua dinanzi da gli occhi tuttora
che mi arde, con la voce che dentro il cor mi ammalia,

suono di primavera su 'I tepido aprile dormente,
erro soletto il mondo, tutto di lei l'impronto. 

Ecco, voi Fate e ninfe, paretemi, e siete, lei sola:
anzi in mia visïone v'ho create io di lei. 

Ma ella dove esiste? - Lamenti scoppiarono, e via
sparver le ninfe in aria, via sotterra le Fate.

E vidi su gli abeti danzar li scoiattoli, e udii
sprigionate co' musi le marmotte fischiare.

E mi trovai soletto là dove perdevasi un piano
brullo tra calve rupi: quasi un anfiteatro

ove elementi un giorno lottarono e secoli. Or tace
tutto: da' pigri stagni pigro si svolve un fiume : 

erran cavalli magri su le magre acque: aconìto, 
perfido azzurro fiore, veste la grigia riva.



L'ostessa di Gaby

E verde e fosca l'alpe, e limpido e fresco è il mattino,
e traverso gli abeti tremola d'oro il sole.

Cantan gli uccelli a prova, stormiscono le cascatelle,
precipita la scesa nel vallone di Niel. 

Ecco le bianche case. La giovine ostessa a la soglia
ride, saluta e mesce lo scintillante vino.

Per le fórre de l'alpe trasvolan figure ch'io vidi
certo nel sogno d'una canzon d'arme e d'amori. 

 


A Scandiano

De la prona stagion ne i dí più tardi 
Che le rose sfioriro e i laureti, 
Quando cavalleria cinge i codardi
E al valor civiltà mette divieti, 

A te, Scandian, faro gentil che ardi
Ne l'immensa al pensiero epica Teti, 
O rocca de' Fogliani e de' Boiardi, 
Terra di sapïenti e di poeti,

Io vengo: a tergo mi lasciai la grama 
Che il mondo dice poesia, lasciai 
I deliri a cui par che dietro agogni 

L'età malata. Io sento che mi chiama
De' secoli la voce, e risognai
La verità de i grandi antichi sogni. 

Il comune rustico

O che tra faggi e abeti erma su i campi
Smeraldini la fredda ombra si stampi
Al sole del mattin puro e leggero,
O che foscheggi immobile nel giorno
Morente su le sparse ville intorno
A la chiesa che prega o al cimitero
Che tace, o noci de la Carnia, addio!
Erra tra i vostri rami il pensier mio 
Sognando l'ombre d'un tempo che fu. 
Non paure di morti ed in congreghe
Diavoli goffi con bizzarre streghe,
Ma del comun la rustica virtú

Accampata a l'opaca ampia frescura
Veggo ne la stagion de la pastura
Dopo la messa il giorno de la festa. 
Il consol dice, e poste ha pria le mani
Sopra i santi segnacoli cristiani:
Ecco, io parto fra voi quella foresta
D'abeti e pini ove al confin nereggia.
E voi trarrete la mugghiante greggia
E la belante a quelle cime là. 
E voi, se l'unno o se lo slavo invade,
Eccovi, o figli, l'aste, ecco le spade,
Morrete per la nostra libertà. 

Un fremito d'orgoglio empieva i petti,
Ergea le bionde teste; e de gli eletti
In su le fronti il sol grande feriva.
Ma le donne piangenti sotto i veli 
Invocavan la madre alma de' cieli. 
Con la man tesa il console seguiva:

Questo, al nome di Cristo e di Maria, 
Ordino e voglio che nel popol sia. 

A man levata il popol dicea, Sí. 
E le rosse giovenche di su 'l prato 
Vedean passare il piccolo senato,
Brillando su gli abeti il mezzodí. 

 


Ad Annie

Batto a la chiusa imposta con un ramicello di fiori
glauchi ed azzurri, come i tuoi occhi, o Annie

Vedi: il sole co 'I riso d'un tremulo raggio ha baciato 
la nube, e ha detto - Nuvola bianca, t'apri. 

Senti: il vento de l'alpe con fresco susurro saluta
la vela, e dice - Candida vela, vai. 

Mira: I'augel discende da l'umido cielo su 'l pèsco
in fiore, e trilla Vermiglia pianta, odora. 

Scende da' miei pensieri l'eterna dea poesia 
su 'I cuore, e grida - O vecchio cuore, batti. 
E docile il cuore ne' tuoi grandi occhi di fata 
s'affisa, e chiama - Dolce fanciulla, canta.

 


Traversando la Maremma 

Dolce paese, onde portai conforme
L'abito fiero e lo sdegnoso canto
E il petto ov'odio e amor mai non s'addorme,
Pur ti riveggo, e il cuor mi balza in tanto.

Ben riconosco in te le usate forme
Con gli occhi incerti tra 'l sorriso e il pianto, 
E in quelle seguo de' miei sogni l'orme 
Erranti dietro il giovenile incanto.

Oh, quel che amai, quel che sognai, fu invano;
E sempre corsi, e mai non giunsi il fine;
E dimani cadrò. Ma di lontano

Pace dicono al cuor le tue colline
Con le nebbie sfumanti e il verde piano
Ridente ne le pioggie mattutine. 



Nostalgia

Tra le nubi ecco il turchino 
Cupo ed umido prevale:
Sale verso l'Apennino 
Brontolando il temporale. 
Oh se il turbine cortese
Sovra l'ala aquilonar
Mi volesse al bel paese
Di Toscana trasportar!

Non d'amici o di parenti
Là m'invita il cuore e il volto:
Chi m'arrise a i dí ridenti
Ora è savio od è sepolto.
Né di viti né d'ulivi
Bel desio mi chiama là: 
Fuggirei da' lieti clivi
Benedetti d'ubertà.

De le mie cittadi i vanti
E le solite canzoni

Fuggirei: vecchie ciancianti
A marmorei balconi! 
Dove raro ombreggia il bosco
Le maligne crete, e al pian
Di rei sugheri irto e fosco
I cavalli errando van. 

Là in maremma ove fiorío
La mia triste primavera,
Là rivola il pensier mio
Con i tuoni e la bufera: 
Là nel ciel nero librarmi
La mia patria a riguardar,
Poi co 'l tuon vo' sprofondarmi 
Tra quei colli ed in quel mar. 

Ass. Socio-Cult. «ETHOS - VIAGRANDE»  Via Lavina, 368 – 95025 Aci Sant’Antonio
Presidente Augusto Lucchese
Tel. - Fax: 095-790.11.80 - Cell.: 340-251.39.36 - e-mail: augustolucchese@virgilio.it