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Lettera aperta al “Corriere della Sera”


di Enzo Palumbo
pubblicato il 4 mag 2011

 

Da qualche tempo circola nel Paese e trova spazio sui giornali italiani la leggenda metropolitana, secondo cui la nostra Costituzione sarebbe il risultato di un compromesso tra il cattolicesimo dossettiano ed il comunismo di stampo sovietico, mentre la cultura liberale ne sarebbe del tutto estranea.
Per quel che ricordo, ha cominciato a sostenere questa tesi Piero Ostellino (Corriere
della Sera del 23 dicembre 2010), e su questa scia, confortati dall’opinione di un liberale doc come lui, si
sono andati orientando anche altri autorevoli commentatori, da ultimo Angelo Panebianco sul Corriere del 22 aprile.
La prova di ciò starebbe in particolare nel primo articolo della Costituzione, apparente frutto avvelenato di
quel connubio.
Siccome le cose, quando sono ripetute all’infinito senza contestazione finiscono per diventare verità storiche (la tecnica orientale del “mantra”), mi sembra il caso di intervenire per fornire ai lettori qualche elemento di conoscenza in più.
In primo luogo per evidenziare che la componente liberale era ben rappresentata (41 liberali e 23
repubblicani, rispetto a 207 democristiani, 115 socialisti e 107 comunisti) e ben qualificata (Bozzi, Cortese, Croce, De Caro, Einaudi, La Malfa, Martino, Pacciardi, per citarne solo alcuni ed in ordine alfabetico) nell’Assemblea Costituente, nei cui lavori non ha mancato di esercitare una significativa influenza, in particolare anche sull’articolo 1, impropriamente invocato come dimostrazione del contrario.
A contrastare quell’erronea convinzione ci ha provato prima Michele Ainis sul Corriere del 21 aprile, quando
ha affermato che “la libertà già alberga, come noce nel mallo, nella democrazia evocata dall’art. 1”, e da
ultimo Paolo Franchi sul Corriere del 23 aprile, affermando giustamente che “le cose sono parecchio più
complicate” rispetto al giudizio sommario che normalmente si da del primo articolo della Costituzione.
Che, intanto, andrebbe letto nella sua interezza, posto che il suo secondo comma, in cui si afferma che “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”, è una norma di chiara ispirazione liberale, essendo caratteristica tipica del costituzionalismo liberale quella di introdurre
forme e strumenti di garanzia e di porre limitazioni al potere.
Sono proprio quelle forme e quei limiti che consentono di definire la nostra come una democrazia liberale, e che la differenziano ovviamente da tutte le forme di democrazia totalitaria (in Germania come in Russia, nel secolo scorso, in Cina ed altrove ancora oggi), ma anche, per l’oggi, da tutte le forme di democrazia
autoritaria (in Russia, in qualche paese dell’Europa orientale, da ultimo in Ungheria, come in Nord Africa e
nel Medio Oriente), o plebiscitaria (come in Venezuela).
E tuttavia, la cultura liberale è presente anche nel primo comma dell’art. 1.
Qualcuno ha ricordato che, nel corso dei lavori, i comunisti Togliatti, Amendola, insieme ad altri, avevano
proposto la formula “L’Italia è una Repubblica di lavoratori”, chiaramente caratterizzata in senso socialista, che i costituenti respinsero in una votazione che vide schierati insieme liberali e democristiani.
E Panebianco ha opportunamente evidenziato che La Malfa e Martino avevano proposto una formula che
metteva l’accento sul tema della libertà: “L’Italia è una repubblica democratica fondata sui diritti di libertà e sui diritti del lavoro”.
Ma nessuno ha ricordato che un altro liberale, Guido Cortese aveva proposto un’altra formulazione che,
mettendo l’accento sui cittadini in quanto tali (piuttosto che sui lavoratori) e tuttavia anche recependo lo
spirito della proposta Togliatti, appariva sostanzialmente finalizzata ai medesimi obiettivi della proposta La
Malfa-Martino: ”L’Italia è una Repubblica democratica. La Repubblica ha per fondamento il lavoro e
garantisce la partecipazione di tutti i cittadini all’organizzazione economica, politica e sociale del Paese”.
Al termine di un appassionato dibattito di altissimo livello culturale, l’Assemblea Costituente (seduta del 22
marzo 1947) finì per approvare il testo proposto dai democristiani, che è poi quello attualmente in vigore.
Illustrando la sua proposta, Fanfani ebbe cura di precisare:
“In questa formulazione l’espressione <democratica> vuole indicare i caratteri tradizionali, i fondamenti di
libertà e di eguaglianza, senza dei quali non v’è democrazia. Ma in questa stessa espressione, la dizione
<fondata sul lavoro> vuol indicare il nuovo carattere che lo Stato italiano, quale noi lo abbiamo immaginato, dovrebbe assumere. Dicendo che la Repubblica è fondata sul lavoro, si esclude che essa possa fondarsi sul privilegio, sulla nobiltà ereditaria, sulla fatica altrui, e si afferma che essa si fonda sul dovere, che è anche diritto ad un tempo per ogni uomo, di trovare nel suo sforzo libero la sua capacità di essere e di contribuire al bene della comunità nazionale”.
A me pare che un buon liberale farebbe fatica a non condividere interamente quelle motivazioni, mentre è
assolutamente evidente che il testo approvato non si discosta granché da quello che era stato proposto dal liberale Guido Cortese.
Dire che <l’Italia è una Repubblica democratica…che ha per fondamento il lavoro>, non mi sembra granché
diverso dal dire che <l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro>.
Certo, se i liberali fossero stati maggioranza assoluta nella Costituente avrebbero magari potuto fare
adottare la formula La Malfa-Martino; e tuttavia credo che quello raggiunto nell’occasione sia stato un saggio compromesso, che non merita oggi di essere degradato a simbolo di un presunto connubio cattolicomarxista, che, almeno in quell’occasione non c’è stato.
E, se proprio vogliamo trovare un esempio di quel connubio, allora faremmo meglio a fermare l’attenzione sul secondo comma dell’art. 7 della Costituzione, che ha sostanzialmente costituzionalizzato i Patti lateranensi.
Ma questa è un’altra storia, assolutamente ignorata dai sedicenti liberali di oggi, tutti protesi ad ingraziarsi i favori d’oltre Tevere, nell’illusione di ottenerne qualche presunto beneficio sul terreno del consenso
elettorale, che è l’unico al quale sembrano realmente interessati.

 

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