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La Sicilia, un po' di storia.


IDENTITA’ SICILIANA E SICILIANISMO 

A buon diritto, la Sicilia ha sempre goduto della felice nomea di "terra promessa" del turismo. Il clima temperato, gli stupendi paesaggi, gli antichi monumenti e l'inestimabile patrimonio archeologico e artistico, il mare invitante e il cielo azzurro, hanno rappresentato e rappresentano un richiamo cui mai è stato facile sottrarsi, quasi si trattasse di una sorta di non tanto misterioso magnetismo. 
Le antiche civiltà insediatesi in Sicilia dal IX al VII secolo a. c., particolarmente quella fenicia e greco corinzia - civiltà già affermate e vitali quando ancora i "sette colli" romani non erano che incolta campagna -, hanno lasciato preziose vestigia nei territori ove presero corpo le prime "colonie", talvolta in siti tuttora poco conosciuti e in piccoli borghi dell'entroterra magari arroccati sui costoni d’impervie montagne. L'Isola, crocevia del Mediterraneo, fu sempre considerata, però, "terra di conquista". Cartaginesi, Romani, Arabi, Normanni, Angioini, Aragonesi, Spagnoli, e chi più ne ha più ne metta, giunsero sul suo suolo, pugnandovi in lungo e in largo, bivaccandovi da padroni, sfruttando e depauperando le sue risorse. I vari periodi storici hanno lasciato in eredità preziosi e insigni monumenti, sontuosi palazzi, castelli, fortilizi, Chiese, ma hanno anche arrecato sofferenze e lutti infiniti. 
Sin dall'epoca dell'Impero romano (che con la violenza delle armi si sovrappose alle fiorenti e progredite comunità spontaneamente sorte e affermatesi nell'Isola, fra cui Siracusa, Leonzio, Morgantina, Naxos, Gela, Agrigento) la Sicilia ebbe a subire soprusi e vessazioni d'ogni tipo. Le invasioni barbariche apportarono altri cruenti sconvolgimenti nella struttura sociale dell'Isola e si può ben dire che tranquillità e pace non riuscissero più a trovarvi asilo. Ciò accadde anche nel corso del successivo lungo periodo di sottomissione all'Impero di Bisanzio. Agli albori del IX secolo, poi, la Sicilia cadde sotto il potere dei Califfati mussulmani dell'Africa settentrionale che avevano i loro centri di potere negli attuali territori di Tunisia, Algeria e Marocco. 
Non sarebbe impresa da poco soffermarsi su quanto avvenne in quei secoli, così come non sembra consono, per ovvie esigenze di brevità, approfondire gli avvenimenti che segnarono i vari periodi storici, da quello arabo (dall' '827 al 1090), a quello normanno di Ruggero I (1091), al fecondo seppur breve scorcio temporale del casato di Federico II di Svevia (1197 - 1268), agli oscuri decenni del malgoverno Angioino ("Vespri Siciliani" del 1282), per giungere agli Aragonesi (dal 1302) e poi alla lunghissima dominazione spagnola (dal 1469 al 1713). Il lungo periodo della dominazione aragonese - spagnola (circa quattro secoli) fu caratterizzato dall'incontrastato potere delegato ai "viceré" e dal consolidamento - specie nei decenni precedenti la fine dell’autorità della Casa regnante di Madrid - dell'opprimente dominio locale delle varie "baronie" che traevano forza e ricchezza dallo sfruttamento dei grandi feudi. Si affermarono le "caste" e i "potentati locali", fra cui alcuni di stampo clericale che avevano il loro punto di forza nei duri e inumani sistemi dell'inquisizione.
Gli eventi politici e militari europei (guerra di successione e trattato di Utrecht del 1713) costrinsero gli spagnoli ad abbandonare l'Isola, ma l'andirivieni delle soldatesche "straniere" non ebbe fine. I francesi di Filippo V di Borbone, i piemontesi di Vittorio Amedeo II, gli austriaci di Carlo VI, si affrontarono sul suolo siciliano in ulteriori "cruenti scontri", non tanto per portare libertà e dignità al popolo isolano quanto per affermare le rispettive mire egemoniche e tornacontistiche. Sta di fatto che i vari "occupanti" succedutisi nel tempo, non furono mai, di massima, teneri verso i siciliani, cui imposero leggi, "editti" e balzelli ingiusti, dispotici ed esosi. 
Abusi, spoliazioni e vessazioni, divennero tasselli di un mosaico destinato ad ingrandirsi a dismisura. Era ben difficile opporsi, in maniera legalitaria, ad un tale sistema di potere e, in funzione di una così amara considerazione, divenne quasi consequenziale il fatto di dare vita a delle organizzazioni “segrete”, che, operando nell’ombra e talvolta con sistemi drastici e violenti, ritenevano che i loro metodi fossero un modo per reagire allo strapotere dei despoti di turno. 
Molte fonti storiche fanno risalire alla metà del XII secolo, già nel periodo della dominazione normanna, la nascita delle prime "sette segrete" fra cui ebbe a primeggiare ben presto quella dei "Beati Paoli", una misteriosa congregazione di "tremendi giustizieri incappucciati", le cui clamorose gesta, in parte arricchite dalla fantasia dell’autore, furono romanzate dal palermitano Marchese di Villabianca. Si narra che i "Beati Paoli", per difendere i deboli e i poveri, gli oppressi e le vittime, oltre che per rintuzzare multiformi angherie e ingiustizie, avevano istituito una sorta d'inappellabile tribunale che emetteva mirate “sentenze”. Nel tempo, perdurando il clima d'insicurezza e la carenza di una equa giustizia, trovarono facile presa, particolarmente nelle sperdute lande dell'interno, i sommari metodi della cosiddetta "onorata società”, facente capo, sovente, a personaggi dispotici e autoritari cui nessuno osava opporsi per non incorrere in ritorsioni che avrebbero potuto anche implicare una inappellabile condanna capitale. Sorse così la tremenda “mafia giustiziera" che, in ogni caso, niente aveva a che spartire con la vindice ideologia dei "Beati Paoli". 
Nell'ambito della società contadina, a fronte del progressivo accrescersi di tale potere occulto e per il plausibile timore d’indesiderati coinvolgimenti, maturò la convinzione che l'unica linea di condotta fosse quella d’affidarsi ad una primordiale regola di sopravvivenza: starsene il più possibile in disparte e rimanere caparbiamente "zitti". Nacque e si diffuse, in tal maniera, la mentalità della "diffidenza", della “sottomissione” (con relativa volontaria rinunzia ai diritti personali), dell' "omertà", mentalità che radicatasi profondamente nel tessuto sociale ha lasciato nella composita società siciliana profondi segni caratteriali, ancora oggi percepibili - anche se non più prevalenti - in taluni strati della popolazione. Ciò a prescindere dal ceto sociale d'appartenenza o dall’inserimento in specifici settori civici, professionali e lavorativi. 
Si può ben dire che opportunismo e individualismo, scarso senso civico, difficoltà di convergenza verso comuni ideali, derivano in gran parte da quell’angoscioso periodo d’insicurezza sociale. Sono caratteristiche purtroppo difficili da modificare e che per molti versi rappresentano l'acre frutto di tanti secoli di vessazioni, di sottosviluppo sociale, di bigottismo religioso. 
Tali aspetti, nella misura in cui tuttora permangono nella società isolana - purtroppo anche diffusamente - continuano ad ostacolare il cammino della stessa verso nuove frontiere e più idonei schemi di convivenza civica e politica, ritardando l’emergere di una forte aspirazione a concrete forme di autogoverno. 
Solo pochi sporadici episodi (i Vespri siciliani del 1282, taluni limitati aspetti della controversa avventura garibaldina del 1860, il Movimento per l'Indipendenza della Sicilia del 1944), hanno dato spazio ad un momentaneo diverso scenario.
S’è perpetuata, in effetti, una perniciosa forma di supina sottomissione a quei poteri "centrali" che esprimono e perseguono, risaputamente, interessi politici ed economici estranei o contrastanti a quelli dei siciliani. Agli albori del terzo millennio la Sicilia continua a soffrire d'atavici malesseri che ingiustamente la pongono in uno stato di obiettiva difficoltà, specie in tempi di “europeismo” e di “globalizzazione”. 
Non è possibile giustificare, tuttavia, i prezzolati operatori dell’inquinato mondo dei "media" che non sanno rinunziare al triste vezzo di blandire opportunisticamente i poteri costituiti o i “magnati” del variegato mondo della finanza e dell’industria, magari assecondando le loro finalità essenzialmente speculative. A parte, poi, la colpa di non riuscire a controbattere adeguatamente la diffusione (che talvolta avviene anche attraverso la penna di qualche discutibile scrittore di cassetta) dell'immagine di una Sicilia bacata, "culla di briganti", regno della "mafia", fabbrica di "fuorilegge da esportazione". In un certo ambiente giornalistico e letterario sembra parecchio diffusa, in verità, una patologica forma d'autismo culturale e non ci si rende conto che, distorcendo o falsando la ben diversa realtà isolana, non si fa che incentivare confusione informativa, pregiudizi e luoghi comuni. I danni morali e materiali che tale indegna congrega ha arrecato ed arreca al civile e operoso popolo di Sicilia sono pesanti e in alcuni cas irreversibili, senza considerare che parecchi avventati servizi giornalistici appaiono quantomeno raffazzonati, se non proprio costruiti ad arte. Si potrebbe addirittura configurare una sorta di "premeditazione" poiché non è pensabile che taluni autori non siano consapevoli del fatto che le loro "opinioni" giungono, oltre che a persone in grado di rintuzzarle e confutarle, anche all'amorfa massa della "gente comune" che ne trae facili ed errate convinzioni. 
E' delittuoso, in ultima analisi, che giornali, libri e televisione continuino ad essere veicolo di disinformazione o cassa di risonanza d'aberranti "teoremi", specie quando sono portati avanti per manifesti fini di lucro. Un fiume d'inchiostro continua a scorrere a fronte di taluni fatti di cronaca nera siciliana quali, ad esempio, i crimini e i "delitti di mafia" o la più o meno dimostrata collusione della stessa con taluni ambienti della politica. A proposito di “mafia siciliana”, sarebbe l’ora di smetterla dal fare ricorso sistematicamente a tale improprio termine, considerato che, sotto molti aspetti, gran parte dei fatti attribuiti alle più o meno note “cosche mafiose” non sono altro che fenomeni di pericolosa "criminalità organizzata", del resto esistenti in ogni altra parte d’Italia, come del resto in Europa e nel Mondo.
Non è superfluo, in conclusione, ricordare ai detrattori della Sicilia (qualcuno, malauguratamente, anche d’origine siciliana) che, sin da tempi antichissimi, essa ha dato i natali ad un numeroso stuolo d'uomini eccelsi, affermatisi in tutti i settori dello scibile umano, dalla matematica alla fisica, dalla poesia alla letteratura, dalla scultura alla pittura e, perché no, anche dalla sociologia alla politica. Non esiste, tuttavia, solo un nucleo di sciocchi denigratori ma esiste anche un numeroso stuolo di scrittori e letterati, di uomini di scienza e di cultura, che hanno espresso e seguitano ad esprimere positive e più obiettive valutazioni della Sicilia. Essa è per loro un "olimpo di eroi", una terra "ove cresce con pari rigoglio l'azione e la virtù, l'istinto e la fantasia", un ambiente naturale in cui si possono “avvertire e apprezzare i profumi più intensi, gustare i frutti più succulenti, ammirare gli scenari più luminosi". E’ presentata come un "qualcosa di straordinario" e ai veri siciliani è attribuita la capacità d’esprimere, con "occhi ardenti come l'Etna”, l'idolatria per tutto ciò che è bello", pur non sottacendo il fatto che la coscienza di una gran massa di siciliani è tuttora frenata da "un nebuloso retaggio d’incredibili superstizioni, di radicati pregiudizi, di sfioriti miti, di latenti frustrazioni". Considerazioni queste che lasciano intravedere una correlazione con l'antica pecca di retrogradi ambienti che, mentre da una parte non riescono a migliorare l'animo e i comportamenti della massa, dall'altra tollerano il permanere di stantii "retaggi" e assecondano (magari solo per fini tornacontistici) quelle deteriori consorterie palesemente dedite ad insulsaggini d’ogni tipo, a smanie festaiole e celebrative, all’ostentazione di una esasperata ed ipocrita esteriorità. 
Rifacendosi, infine, ad un aspetto più squisitamente storico, è da dire che il Regno Sabaudo (cui Garibaldi, aderendo alla politica di Cavour e ai proclami di Vittorio Emanuele II, consegnò il Sud della penisola italiana senza porre alcuna sostanziale condizione) è da annoverare fra i maggiori responsabili della perdurante arretratezza strutturale e sociale della Sicilia. Si sa, peraltro, che la dinastia dei Savoia era recidiva in materia di comportamenti sleali nei confronti dei siciliani. Come dimenticare, a tal proposito, un certo mancato Re di Sicilia, Vittorio Amedeo II di Savoia, Principe di Carignano?
L'attuale Stato repubblicano e democratico (sorto dalle ceneri della monarchia savoiarda), per altro verso, "concedendo" nel maggio del 1946, con l'imprimatur dell'allora Luogotenente del Regno, Umberto II di Savoia, quell'autonomia zoppa, forviante e sostanzialmente inapplicabile - poiché incompleta - che va sotto la dicitura di "Statuto della Regione Siciliana", ha fatto solamente finta d’accogliere le ataviche aspettative della Sicilia. 
La pseudo autonomia, quasi fosse stata concepita più quale strumento di consolidamento della sottomissione dei siciliani al potere romano, che quale riconoscimento di un concreto diritto all'autogoverno, è divenuta, nel tempo, un calderone d'incoerenza politica e amministrativa. Il risultato è quello d’avere dato consistenza e forma ad immensi sciupii di denaro pubblico, d’avere creato piccoli o grandi feudi da assegnare, a turno, ad alcuni "proconsoli" di Sala d'Ercole, d’avere conferito eccessivi poteri ad un nugolo d'arroganti e talvolta impreparati burocrati (la Regione distribuisce a circa 22/mila dipendenti - fra cui oltre due mila "dirigenti" - molto più alti rispetto alla media nazionale, a prescindere dai lauti onorari e compensi destinati all’esercito di consulenti e tecnici esterni), d’avere favorito la deleteria opera di tanti affaristi senza scrupoli che popolano il sottobosco dei partiti. 
Forse ha parecchio ragione la stampa straniera quando afferma che "un medioevo scomparso dalla storia del mondo, si prolunga ancora in Sicilia". Il retaggio delle dominazioni che si sono susseguite in Sicilia nel corso dei secoli, verosimilmente, non è scomparso mentre le diverse e stratificate culture, lasciateci in eredità dai dominatori d'ogni tempo, non sembra si siano mai "sufficientemente integrate e comprese". 
Se è vero che la storia "è l'archivio di un popolo", quella dei siciliani, pur mettendo in luce "sentimenti di ribellione perenne contro un qualcosa d'indefinibile …", è stata scritta più ad uso dei palcoscenici e dei librai che in funzione della formazione civica delle future generazioni isolane. Manca forse, a tal proposito, la chiara identificazione del "siciliano", inteso come discendente e continuatore di una "stirpe" e non quale semplice portatore di un attestato di nascita o di residenza. 
E' più che comprensibile, quindi, la diffusa mancanza d'attenzione dei siciliani verso i superiori interessi della collettività. Ciò complica l’obiettiva difficoltà d'inserimento della Sicilia in un ciclo produttivo di largo respiro che non dipenda dal "nord" speculativo o da qualche interessata "multinazionale" di passaggio, pronta solo a fare incetta di contributi pubblici. 
E' probabile, inoltre, che la povertà strisciante di vasti strati di popolazione, la mediocrità culturale e formativa di molti appartenenti al ceto benestante (dedito più alle ambizioni dello "status symbol" ed ai richiami consumistici che all'attaccamento ai valori ideali della sicilianità), l'arroganza fredda, affaristica e insensibile di gran parte della classe imprenditoriale, manageriale e politica, siano i fattori che sempre più portano la massa ad avere poco attaccamento e amore per la propria terra. 
Malgrado tutto, non può dirsi che l'anima genuina del popolo siciliano sia andata dispersa. Seguita a vivere attraverso i propri "canti", le "poesie", le antiche "tradizioni" e seguita ad esprimere sentimenti di orgoglio isolano e di consapevolezza delle proprie capacità, pur senza dimenticare il dolore e le frustrazioni per le sofferenze e le angherie patite nel tempo.

1998 

 

A. Lucchese


Ass. Socio-Cult. «ETHOS - VIAGRANDE»  Via Lavina, 368 – 95025 Aci Sant’Antonio
Presidente Augusto Lucchese
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