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 Prima Guerra Mondiale

 24 maggio 1915 - 4 novembre 1918

“Le verità taciute”

da Caporetto, al Piave, al Monte Grappa,

a Vittorio Veneto

 

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Per rendersi conto dei motivi che determinarono la disfatta di Caporetto (24 ottobre 1917) occorre fare riferimento ai protagonisti di quella disastrosa vicenda.
Le responsabilità dell'accaduto vanno in gran parte attribuite, prima d'ogni altra considerazione, alla mediocrità e alle beghe di potere e di carriera che diffusamente regnavano in seno al Comando Supremo. Le Grandi Unità di prima linea, invece, ove si escluda la particolare situazione di comando del XXVII Corpo d'Armata, in mano al discusso Gen.le Pietro Badoglio, erano quasi tutte agli ordini di validi e determinati Capi.
In tale contesto, la figura del Gen.le Luigi Capello (foto a sinistra), prima comandante del VI C.d’A. e poi della 2a Armata, fa notizia a se. Pagò abbastanza le responsabilità a lui attribuite in sede d'inchiesta parlamentare riguardo la funesta disfatta di Caporetto ma, in base alla documentazione successivamente venuta alla luce, è oggi abbastanza chiaro, pur se a distanza di tanto tempo, che la colpa principale non fosse a lui ascrivibile. Riccardo Posani (“La Grande Guerra” – SADEA SANSONI Editori - 1968-vol.2°-pag.740) dice di lui che “l’abilità del Gen.le Capello suscitava ammirazione e gelosie, quanto il suo carattere antipatie feroci o affetti ciechi".
Nessuno può disconoscere, oggi, che se si fosse dato ascolto ai suoi suggerimenti, frutto di quella “particolare genialità nell’arte della guerra” riconosciutagli anche dagli avversari (fra cui il tedesco Maresciallo Hindenburg e l’austriaco Gen.le Conrand che, a sue spese, aveva dovuto costatarne la capacità nel corso della “sesta battaglia dell’Isonzo”), la tragedia di Caporetto avrebbe potuto essere evitata.
Il Gen.le Capello, infatti, avuto sentore dei preparativi avversari, aveva proposto, già in settembre, di lanciare “una offensiva preventiva” per scompaginare il nemico mentre era ancora in fase di preparazione logistica.
Il piano, all’uopo celermente elaborato, venne approvato, in un primo momento, dai competenti livelli gerarchici, ma non ebbe attuazione per sopravvenute diverse valutazioni del Comando Supremo del Gen.le Luigi Cadorna (foto a destra) il quale, in data 20 ottobre (inspiegabilmente appena quattro giorni prima dell’attacco nemico), adotta la incoerente decisione di revocare il piano d'attacco, disponendo altresì che la 2a Armata del Gen.le Capello assumesse subito uno schieramento “esclusivamente difensivo”.
Il ritardo nell’esecuzione di quest'ultimo perentorio ordine divenne poi il principale “capo di accusa” a carico del Gen.le Capello e la Commissione d’inchiesta, per considerazioni più politiche che tecniche, non ritenne di tenere conto di quanto difficile fosse, in appena tre giorni, modificare l’assetto di un mastodontico apparato cui facevano capo una ventina di divisioni raggruppate in tre Corpi d'Armata e con un organico di circa 600 mila uomini.
Il voltafaccia di Cadorna era maturato a fronte di talune infondate informazioni che lo portarono a convincersi che “gli austro - tedeschi non avessero alcuna intenzione di attaccare sul Tolmino e che comunque non fossero in grado, per motivi logistici, di farlo prima del marzo successivo”. Vedi caso, erano gli stessi “motivi logistici” che poi non sarebbero stati ammessi a discolpa di Capello.
Il Gen. Capello era definito dai suoi colleghi, parecchio a torto, un “offensivista” e tale definizione non aveva certo un senso elogiativo.
L'errata valutazione scaturiva dal fatto che lui, all’epoca quasi in solitudine, fosse un convinto assertore di concetti operativi innovativi e dinamici, parecchio diversi dalle decrepite concezioni della guerra di posizione.
Il suo principio era quello di “difendersi attaccando e attaccare per primi, con azioni di ampio respiro, … per impedire che il nemico possa farlo a sua volta”.
Tali diversi canoni di strategia militare disturbavano i “soloni” dell’Alto Comando più che altro portati a privilegiare lo schema dei continui attacchi frontali, pur se essi, ovviamente, determinavano la mattanza di migliaia di uomini.
Quegli inutili massacri, peraltro, non trovavano giustificazione nei limitati vantaggi territoriali che il più delle volte non erano altro che “aggiustamenti di fronte”.
Nel gergo della truppa, come conseguenza di tale stato di cose, s'erano diffuse patogene definizioni dell'inumano trattamento cui erano sottoposti gli uomini di truppa ammassati nelle putride trincee, quali quelle di “uomini mandati al macello”, “carne da cannone” “schiavi con le stellette”.
Termini il cui tragico significato rimbombava nei vari luoghi di apprestamenti difensivi ed esprimeva sdegno e riprovazione nei riguardi degli Alti Comandi che, con assoluta indifferenza, seguitavano a sfornare “ordini d’operazione” per l’assalto all’arma bianca.
Franco Valombra, nella inchiesta “L’ottobre in cui tremò l’Italia” apparsa nel 1967 - cinquantenario di Caporetto - per i tipi di un noto settimanale, ha scritto : -“I soldati di prima linea dovevano obbedire, combattere e morire senza discutere ….” .
L’ecatombe di soldati, sottufficiali e ufficiali (questi ultimi avevano “l'obbligo" di precedere i reparti) sta a dimostrare quanto scarso rispetto s’avesse per la vita umana.
A lungo andare, quindi, non poteva non determinarsi il pernicioso crollo del morale della truppa ma, nonostante le pesanti critiche avanzate da molti organi di stampa oltre che da alcuni membri del Parlamento, l’atteggiamento del Comando Supremo non mutò.
Alla pari di molti colleghi di altre Nazioni (a ben ragione definiti “macellai”), il Gen.le Cadorna continuava ad essere sprezzantemente convinto che il destino dei soldati di prima linea fosse quello d'andare incontro al piombo nemico.
Lo ha lasciato scritto, financo, in un suo libro.
Il Comando Supremo, peraltro, ritenendo che fosse necessario porre rimedio al dilagante fenomeno dell'insubordinazione e, in taluni casi, dell'ammutinamento, fece ricorso con criminale cinismo alla prassi di “passare per le armi”, dietro estrazione a sorte di un soggetto ogni dieci militari in forza, oppure a fronte di sommari processi, incolpevoli soldati. Tale crudele, abominevole e criminale prassi è passata alla storia con l’appellativo di “decimazioni”.
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Nel ricostruire il quadro degli avvenimenti che portarono al disastro di Caporetto, ci si rende conto che quanto inizialmente avvenne sul Tolmino, sul fronte dell'Isonzo, è in maggior parte connesso con l'inqualificabile comportamento del Gen.le Pietro Badoglio (foto a destra), recente nuovo comandante del XXVII Corpo d’Armata, dal 23 agosto, in sostituzione del Gen.le Vanzo, esautorato da Capello e Cadorna per manifesta irresolutezza. Non c’è che dire, scelta azzeccata, … dalla padella alla brace. Appena un anno prima Badoglio portava sulle spalline ancora i gradi di “colonnello”, mentre nell’ottobre del 1917, in virtù di tre incredibili avanzamenti, acquisiti a fronte di chissà quali misteriose alchimie messe in atto di conserva fra Comandi militari e qualificati esponenti del governo, il cui consenso era indispensabile, era stato posto al comando del XXVII Corpo d’Armata, schierato sul Tolmino, con alla sinistra, nella zona di Plezzo, il IV C.d.A. del Gen.le Alberto Cavaciocchi e, alla destra, il XXIV C.d.A. del Gen.le Enrico Caviglia. La dettagliata descrizione riportata nel 4° volume (tomo 3°) de “L’Esercito Italiano nella Grande Guerra” (edita nel 1967 dall’Ufficio Storico dello Stato Maggiore, dopo ben cinquant’anni dal disastro di Caporetto), chiarisce che il primo cedimento avvenne nel tratto di fronte affidato alla 50a divisione del IV C.d.A., tra Plezzo e Caporetto ma che tale “falla nello schieramento difensivo” venne ritenuta, al momento, “non grave” e del tutto “controllabile”. Si legge ancora, però, che “la situazione assunse .... i connotati di un vero disastro” quando, nelle prime ore del pomeriggio, alcuni reparti dello “Alpen Korps” germanico (facente parte della 14° Armata del Gen.le Von Below) sfondarono il fronte nel settore tenuto dalla 19a Divisione del XXVII Corpo del Gen.le Badoglio, fra la Conca di Tolmino, Costa Raunza e Costa Duole, dilagando lungo le due strade che, fiancheggiando l’Isonzo, conducevano a Caporetto.
In quest’ultimo settore, peraltro, contrariamente a quanto accadde in altre zone, non ci fu una “difesa efficace” e tanto meno alcun tentativo di contrattacco.
Era accaduto che, nelle ore cruciali dell'attacco nemico, i Comandanti dei reparti di prima linea rimasero del tutto privi di adeguate disposizioni da parte del Comando di C.d’A. (Badoglio), a prescindere dal determinante fatto dell’ “inspiegabile e assoluto silenzio” delle artiglierie.
Il mancato impiego della Brigata “Napoli” (assegnata in riserva al XXVII Corpo), oltretutto, non aveva permesso di contrattaccare nella zona di Costa Raunza per tentare di bloccare l’avanzata nemica.
L’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito segnala ancora che “al momento del già previsto attacco”, (il servizio informazioni lo aveva dato per certo tra il 24 ed il 26 ottobre), il comandante del XXVII Corpo d’Armata, Gen. le Badoglio, “si era portato a Kosi, sede arretrata del Comando, … in una situazione di totale isolamento (forse sarebbe meglio dire “allontanamento”?) rispetto ai reparti dipendenti”.
Tale circostanza appare ancora più grave ove si pensi che prima d'allontanarsi egli non aveva revocato la disposizione con cui s’era riservato di “impartire personalmente” l’ordine all’artiglieria di aprire il fuoco di “contro preparazione”.
Non solo quell’ordine non giunse mai a chi avrebbe dovuto provvedere ma lo stesso Badoglio divenne “introvabile” per quasi tutto il 24 ottobre.
I suoi inspiegabili e sconosciuti spostamenti, da un posto all’altro delle retrovie, resero infruttuoso ogni tentativo di collegarsi con lui e, stando ai tentativi esperiti dal Comando d’Armata che aveva inviato un Ufficiale a cercarlo, “solo a sera fu possibile rintracciare il Gen.le Badoglio”.
Egli, fra l'altro, non fu in grado di fornire che solo notizie approssimate all'Ufficiale del Comando d’Armata “essendo parecchio disinformato” circa la reale situazione dei reparti da lui dipendenti.
Molti storici si sono chiesti perché Badoglio si fosse allontanato dal suo posto di comando alla vigilia del previsto attacco nemico e perché non diede all’artiglieria del Corpo l’ordine di aprire tempestivamente il fuoco di sbarramento contravvenendo, peraltro, alla precisa disposizione impartita in tal senso dal Comando Superiore.
A tal proposito, risulta agli atti che le “potenti” ottocento bocche da fuoco del XXVII Corpo (quasi tutte finite in mano nemica) rimasero “inspiegabilmente e tragicamente mute” (come ebbe ad affermare il Primo Ministro V.E.Orlando) e, oltretutto, si trovarono impreparate per una ordinata manovra di ripiegamento.
Quegli avvenimenti smentirono clamorosamente ciò che lo stesso Badoglio, nell’imminenza del saputo attacco, aveva detto ai suoi ufficiali,: “… io sono Badoglio, il vostro Comandante, … state tranquilli, .. gli austriaci hanno chiesto aiuto ai tedeschi ma non ce la possono fare, … io ho tante artiglierie che li stermino appena escono dalle loro trincee”.
Anche a volere sorvolare su tali ilari e sfrontate spacconate, è lecito intravedere nel suo confuso e incoerente comportamento ben altro che la “casualità”.
Mancanza di temperamento e di coraggio, incapacità di affrontare la situazione, sottovalutazione degli avversari?  O, più semplicemente, paura di rimanere nelle zone ove da lì a poco si sarebbe abbattuta una gragnola di proiettili d’ogni calibro e ove esisteva il rischio di lasciarci la pelle o di essere fatti prigionieri?
Badoglio ha portato con lui, nella tomba, il mistero dei reali motivi che lo indussero a trasferirsi d’urgenza a Kosi, sede arretrata del Comando del XXVII Corpo d’Armata da lui dipendente.
Sta di fatto che, pur avendo a disposizione ingenti forze, in uomini, mezzi e artiglierie, non solo non seppe fare tesoro delle informazioni ricevute (poi puntualmente verificatesi) ma, anzi, facendo mancare ai comandi dipendenti tempestive direttive, determinò il collasso delle unità di prima linea.
La 19° divisione, in particolare, dopo avere resistito sino al pomeriggio del 25, venne travolta e quasi annientata. Il suo eroico comandante, il Gen.le Giovanni Villani, preferì il suicidio al disonore della sconfitta.
In qualsiasi altra Nazione i fatti citati sarebbero stati ritenuti più che sufficienti per porre Badoglio di fronte alle proprie responsabilità. In Italia no!

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Quei tragici avvenimenti, come detto, travolsero Cadorna, Capello e altri Generali del Comando Supremo, ma la Commissione d’inchiesta (presieduta dal massone Gen.le Carlo Caneva, veterano della controversa spedizione in Libia del 1911) non osò approfondire le pur palesi colpe di Badoglio, “certo il maggiore responsabile dell’accaduto – pur se non il solo”, come fa rilevare il Bertoldi, a pag. 11 del suo esauriente testo “Badoglio”, edito da Rizzoli nel 2001.
La Commissione d’inchiesta non lo interrogò neppure e ritenne che, “per evitare pericolose ripercussioni istituzionali”, sarebbe stato prudente non formulare alcuna specifica accusa al Gen.le Badoglio.
Egli, incredibile ma vero, non solo sfuggì ad ogni provvedimento inquisitorio ma venne confermato nell’incarico di Comandante del XXVII Corpo (che si stava riorganizzando, oltre il Piave) e, da li a qualche giorno, venne addirittura chiamato a ricoprire l’incarico di Sottocapo di Stato Maggiore dell’Esercito.
Sembra sia prevalso, ancora una volta, il parere di chi, più o meno palesemente, lo proteggeva. Re Vittorio, dopo l’incontro di Peschiera con i capi militari francesi e inglesi che subordinavano il proprio aiuto all’acquisizione di una posizione di supremazia nell’ambito di un comando unificato, aveva dovuto assumere “in proprio” la responsabilità delle operazioni e, nell’affidare il Comando dell’Esercito al Gen.le Armando Diaz (foto a sinistra) , sino ad allora sconosciuto generale di secondo livello, avrà ritenuto opportuno affiancargli un uomo di “sua conoscenza e fiducia”.

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RELAZIONE UFFICIALE del Ministero della Difesa
SULLA GRANDE GUERRA

La relazione venne pubblicata dal Ministero della Difesa nel 1967, dopo ben cinquant’anni dal disastro di Caporetto, vedi caso dopo che tutti i protagonisti della triste vicenda erano scomparsi.
S’è potuto apprendere, da essa, che “alcune pagine dei verbali della Commissione d’inchiesta (tredici, per l’esattezza) contenenti dure critiche sull’operato di Badoglio, vennero fatte sparire”.
S’è potuto anche sapere che tutto avvenne dietro esplicito “ordine” dell’allora Presidente del Consiglio V.E. Orlando.
Esecutore materiale sembra sia stato un membro della stessa commissione, l’On. Raimondo (originario di San Remo e torinese d’adozione) a ciò indotto dal Sen. Giuseppe Paratore, suo “intimo amico”.
Quest’ultimo, scomparso proprio nel 1967, alcuni mesi prima che fosse pubblicata la citata “relazione”, s’era sempre rifiutato di rilasciare una qualsivoglia “particolareggiata memoria sull’argomento”, pur se reiteratamente e da più parti richiesta.
S'è venuto a sapere, con il crisma della ufficialità, che la Commissione d’inchiesta, in tale frangente, adottò il suggerimento del Presidente Orlando di “non inimicarsi Badoglio, in considerazione dell’evidente danno (a livello monarchico istituzionale ?, chissà !) che ne sarebbe derivato”.
La Commissione sembrava essere rivolta più a nascondere la verità sulle vicende di Caporetto che a cercarla e a renderla nota.
Per quale plausibile motivo i testimoni che, almeno in parte, avrebbero potuto giustificare l’operato di Capello, non vennero neppure interrogati?
Forse per il timore che potessero incolpare ancor più Badoglio?
L’aspetto più sconcertante del ripescaggio e della sponsorizzata “resurrezione” di Badoglio sta forse nel fatto che, dopo essere state acclarate le sue responsabilità su Caporetto, nessuno dei politici (Orlando, in primis) e dei capi militari (Vittorio Emanuele III, in particolare, nella qualità di Comandante supremo delle FF.AA) provò a bloccare, o semplicemente ad ostacolare, lo sviluppo carrieristico del futuro Maresciallo d'Italia.
E' risaputo, inoltre, che coloro i quali, in tempi successivi ed anche al di fuori delle Istituzioni, vollero tentare di fare emergere talune comprovate verità, uscirono dalla mischia piuttosto malconci, come avvenne, ad esempio, all’integerrimo Gen.le Enrico Caviglia.
Forse perché stimolato dall’innato spirito di “protagonismo”, ma sicuramente perché psicologicamente poco incline ad avvertire qualsivoglia problema di coscienza, è da dire che Badoglio, insediatosi nell'incarico di Sottocapo di Stato Maggiore del Regio Esercito, assolse abbastanza proficuamente il compito e operò fattivamente sia per l'organizzazione della resistenza sul Piave che, pur se in ritardo, per l’approntamento della macchina bellica occorrente per l'ormai inderogabile controffensiva.
Bloccate, almeno in parte, le torve ombre che su di lui gravavano dopo Caporetto e in relazione a queste ultime “benemerenze”, Badoglio, a meno di un anno dalla incontrovertibile incapacità di comando dimostrata sul Tolmino , è addirittura promosso Generale d’Armata ed è proprio lui a ricevere l’incarico di controfirmare, a Villa Giusti, l’armistizio con l’Austria.
Su tale scelta avrà presumibilmente influito più che il ruolo di Vice Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, la consolidata qualifica di “fedele rappresentante” della Monarchia, oltre che di “longa manus” del Sovrano.
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La cosiddetta “disfatta di Caporetto” che tragicamente coinvolse gran parte delle Unità di prima linea schierate sul Tolmino ebbe effettivo inizio il 26 ottobre.
Il giorno prima era caduto il GLOBOCAK e dopo la perdita di MONTE MAGGIORE e di CIVIDALE (già sede del Comando della 2° Armata di Capello), le truppe italiane, in parte ordinatamente (XXIV Corpo di Caviglia e 3° Armata del Duca d’Aosta) e in parte in piena crisi di ripiegamento (XXVII Corpo di Badoglio e IV Corpo del Gen.le Cavaciocchi), affluirono sulla linea del TAGLIAMENTO ove si sperava di riuscire ad approntare un primo valido tentativo di difesa, mirata più a ritardare l’avanzata nemica che a bloccarla. Cosa che non avvenne stante che il fiume era facilmente guadabile in diversi punti.
Il 3 novembre cade TARVISIO mentre il 7 un esiguo reparto dello “ALPENKORPS” tedesco, al comando di un certo capitano Erwin ROMMEL (foto a destra) (proprio lui, la “volpe del deserto” dello "African Korp" del 1941-1942), giunge a LONGARONE, si impadronisce del prezioso ponte, occupa il Monte Matajur, fa parecchi prigionieri e prosegue, quasi indisturbato, verso Caporetto.
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Il 4 novembre la linea del Tagliamento è abbandonata e si è costretti a ripiegare più o meno ordinatamente sul fiume LIVENZA, per poi retrocedere ancora, il 9/11, sul PIAVE.
Sulla riva occidentale di quest’ultimo fiume trovano riparo le divisioni riuscite a sottrarsi all’incalzante offensiva austro tedesca, dilagata nel vasto territorio che da GORIZIA e dall’ISONZO s’estende sino al Piave e all’altopiano di Asiago.
Come conseguenza del disastro di Caporetto si persero circa 300/mila uomini, 3200 cannoni, 2/3 delle bombarde e 1/3 delle mitragliatrici e armi leggere, oltre ad ingenti quantitativi di materiali vari e di casermaggio. Gli sbandati assommarono a circa 400/mila, fra cui i resti del XXVII Corpo di Badoglio avviati a Piacenza ove, secondo le direttive, si sarebbe dovuto procedere a ricostituire l’organico dei vari reparti.
Ben faticosamente si riuscì a consolidare il fronte su una linea di difesa che a nord scendeva dallo STELVIO al TONALE e all’ADAMELLO, toccando la punta estrema del LAGO DI GARDA, per poi giungere sino a PASUBIO, ad ASIAGO e al massiccio del MONTE GRAPPA. Quest’ultimo divenne la cerniera dello schieramento difensivo che proseguiva lungo l’ansa del fiume PIAVE sino a SAN DONA’ e al mare, appena a pochi chilometri da VENEZIA.
La sconfitta fu parecchio pesante (qualcuno l’ ha definita “una apocalittica disfatta”) e portò gravi conseguenze militari e politiche.
Gli Alleati franco britannici si dichiararono disponibili a fornirci aiuto ma, approfittando dell’allontanamento di Cadorna, cercarono d’ottenere che il comando supremo passasse alle loro dipendenze o, in alternativa, a generali “più malleabili e sottomessi”.
Il Sovrano, però, non aderì a tale richiesta e, dopo il citato incontro di Peschiera, assunse, come già detto, la personale responsabilità della condotta delle operazioni e parimenti propose il Gen.le Armando DIAZ quale Capo di Stato Maggiore, in sostituzione di Cadorna, affiancato da BADOGLIO e GIARDINO come Sottocapi.

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Divenne predominante l’esigenza di approntare la strenua difesa sulla linea “Stelvio, Monte Grappa, fiume Piave”. Apprestando un immane sforzo logistico si riuscì stentatamente nello scopo anche attraverso l’impegnativa opera di riorganizzazione delle grandi Unità, utilizzando i reparti sfuggiti alla disfatta di Caporetto e con il massiccio apporto di nuove leve.
La battaglia difensiva divampò particolarmente nella zona del Monte Grappa.
Se quel naturale baluardo fosse caduto in mano nemica avrebbe quasi certamente prodotto lo sfaldamento di tutto il fronte poiché le forze austro tedesche sarebbero dilagate alle spalle delle truppe italiane attestate lungo il corso del Piave.
Il 10 novembre il gruppo di armate del Gen.le CONRAD sferrò l’attacco sull’altopiano di Asiago e in zona Bassano, mentre il 12 il Maresciallo BOROEVIC attaccò sulla linea Montello - Brenta e il 15 VON BELOW lanciò l’offensiva sul GRAPPA.  La resistenza fu superiore ad ogni aspettativa e sorprese tutti: gli austro tedeschi furono bloccati e respinti quasi ovunque, mentre i contingenti degli Alleati franco britannici, pur se erroneamente convinti che gli italiani non potessero farcela, se ne stavano furbescamente a guardare dietro il Mincio, evitando di prendere parte ai combattimenti.
I durissimi scontri, con attacchi e contrattacchi, si protrassero sino al 26 novembre senza che le difese italiane fossero sostanzialmente scardinate e, a tal punto, VON BELOW decise di sospendere l’offensiva.
L’attacco fu ripreso il 4 dicembre pur se anche stavolta con risultati di scarsa rilevanza. Il 26 dicembre le operazioni offensive, iniziate a Caporetto il 24 ottobre, si placarono e si esaurirono.
La dura e sanguinosa lotta si protrasse, con alterne vicende, sino a quella data con il confortante risultato di essere riusciti a bloccare il micidiale urto delle forze austro tedesche che, per ben due volte, non poterono scardinare la linea di difesa italiana, tenuta dalla IV Armata del Gen.le Mario Nicolis di Robiland.
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La sostanziale tregua venne rotta il 29/12 da alcune azioni controffensive sul MONTE TOMBA ma, nel complesso e da ambo le parti, si tornò alla snervante tattica della guerra di posizione e di trincea.
La difesa ad oltranza del massiccio del Monte Grappa rappresentò una sostanziale ripresa delle sorti delle armi italiane.
Fu un successo postumo da attribuire ad onor del vero a Cadorna che, a suo tempo, aveva ideato il piano di difesa sulla linea del Piave - Monte Grappa.
Ci si poté avvalere, infatti, di una valida serie di fortilizi e gallerie costruiti e scavati nel fianco della Montagna, capaci di resistere ai micidiali cannoneggiamenti nemici.
DIAZ non modificò menomamente detto piano e lo attuò in pieno.
Anche a volere, non ne avrebbe avuto il tempo.
Sulla citata linea di difesa “Stelvio, Monte Grappa, fiume Piave”, a fronte delle residue e rabberciate 35 divisioni italiane, con una forza di circa 500/mila uomini, con solo 3000 bocche da fuoco e 100 aerei, si trovavano 55 divisioni austro - tedesche - ungariche con circa un milione di uomini, 4500 cannoni e 550 aerei.

Quel cruento periodo di guerra, vide anche le intrepide azioni dei MAS di RIZZO, DENTICE di FRASSO, COSTANZO CIANO e BELARDINELLI. Temerarie azioni che stupirono un po’ tutti. Furono gravemente danneggiate le corazzate WIEN e BUDAPEST che s’erano spinte sin sotto costa, nella zona della foce del Piave e della laguna veneta, per bombardare dal mare gli approntamenti difensivi italiani. Un indiscutibile successo tattico capace di modificare in favore degli italiani l’andamento della furiosa battaglia difensiva in corso.
Per la cronaca la corazzata WIEN fu successivamente affondata dallo stesso Luigi RIZZO, eroico artefice di storiche imprese (nativo di MILAZZO - ME), dentro il porto di TRIESTE.

Parallelamente alla lotta armata non fu meno impegnativa la lotta sul fronte della diplomazia.
Si pensava già alla sistemazione territoriale del dopo guerra, ai nuovi confini, alle annessioni e, a tal proposito, le contrastanti vedute erano una continua fonte di dissidi.
Nel gennaio 1918 LIOYD GEORGE ebbe ad affermare che riconosceva legittime le richieste di annettere all’Italia i territori ove prevalentemente si parlava la madre lingua (le cosiddette “terre redente”) mentre il presidente americano WILSON aveva tirato fuori dal cilindro dello “zio Sam” i famosi “14 punti “. Egli enunciò, con arroganza e parecchia improvvisazione, taluni “principi” subito palesatisi in netto contrasto con le vedute degli Alleati europei. Principi che, molto genericamente, asserivano che le revisioni delle frontiere dovevano avvenire in base a linee di “facile riconoscibilità di nazionalità”, che la “libertà di navigazione” avrebbe dovuto escludere qualsivoglia “predominio dei mari”, che i popoli avrebbero potuto fare ricorso alla “autodeterminazione”, ecc. ecc.
Tutte cose teoricamente accettabili ma che, in quel momento storico, erano praticamente irrealizzabili tenuto conto della situazione di predominio politico, a livello mondiale, di Inghilterra e Francia, oltre che delle complicate realtà geopolitiche e socio culturali di parecchi dei popoli chiamati in causa.
Particolarmente il punto “9” (“facile riconoscibilità della nazionalità”) contrastava con quanto antecedentemente convenuto in sede di stipula del “PATTO DI LONDRA” (fra Inghilterra, Francia e Italia) che implicitamente riconosceva all’Italia l’assegnazione dei territori di Trento, Bolzano, Trieste, Istria, Fiume e Dalmazia, oltre che particolari vantaggi in Asia Minore e nei territori coloniali tedeschi.
La “dottrina WILSON”, invece, faceva correre all’Italia il rischio di pagare il costo di una eventuale pace separata con l’Austria prima che le terre redente fossero effettivamente liberate. Un fatto analogo era avvenuto nel 1859 con Napoleone III.
Sostanzialmente, i “14 punti” di Wilson finirono col seminare discordia fra gli Alleati e suscitarono la disapprovazione del Consiglio Superiore di Difesa.
Sono a tutti note le disastrose conseguenze della disattenta e poco lungimirante politica americana al tavolo della Pace di Versailles
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Sul fronte italiano trascorsero alcuni mesi di quasi inattività bellica e ciò indusse il Maresciallo FOCH, il 7 maggio del 1918, ad invitare DIAZ, pur se parecchio impropriamente, a “manifestare una chiara volontà offensiva”.
Anche fra le gerarchie militari e politiche italiane serpeggiava il malcontento e molti giunsero a pensare che “il confronto fra i nuovi capi militari e i vecchi era a vantaggio di questi ultimi, fino a farne dimenticare gli errori”.
DIAZ rispose a FOCH che sarebbe “desiderabile” rimanere sulla difensiva e che in ogni caso un attacco italiano avrebbe potuto essere realizzato solo in concomitanza con una offensiva franco inglese in Francia.
E’ da notare, per inciso, quanto il linguaggio di Diaz fosse riconducibile al “pensiero”di Badoglio, oltre che all’innato temperamento dilatorio di quest’ultimo.
Anche il Consiglio di Guerra, del quale faceva parte il Re e il Presidente del Consiglio Orlando, s’era espresso per la “difensiva” senza tenere conto di quanto tale atteggiamento temporeggiante avrebbe potuto influire, successivamente, sulle trattative post belliche.
I rapporti divennero ancora più tesi proprio nel momento in cui (13 giugno) gli austriaci decisero di scatenare una nuova offensiva, nel tentativo di oltrepassare il Piave per dilagare nella pianura padana e costringere l’odiata Italia alla resa.
S’accese quella che verrà chiamata “la Battaglia del solstizio” e che gli austriaci avevano denominato “piano RADETZKY”.
L’11 Armata austriaca (Gen. CONRAD) si mosse sull’altopiano di Asiago e sul Grappa, contro la 6° e 4° armata, puntando su Vicenza e Castelfranco nella speranza di riuscire a sfondare e prendere alle spalle lo schieramento difensivo italiano sul Piave.
La 10° Armata austriaca dell’Arciduca Giuseppe attaccò nella zona del Tonale, pur se trattavasi, più che altro, di una azione diversiva.
La 5° e 6° Armate del Maresciallo BOROEVIC sferrano, il 15 giugno, l’offensiva dal Montello al Mare contro l’8° - 9° e 3° armate italiane.
Gli attacchi furono preceduti da un forte tiro d'artiglieria cui gli italiani risposero, in taluni casi anticipandolo, con un altrettanto duro fuoco di contro preparazione.
Alle ore 7 le fanterie mossero all’attacco ma solo in pochi punti riuscirono a penetrare nelle linee italiane. I contrattacchi italiani furono efficaci e chiusero ogni falla.
Particolarmente nella zona del Monte Grappa (tenuta dalla 4° armata del Gen. GIARDINO subentrato a Nicolis di Robiland) la lotta si fece accanita, con esito alterno e parecchi colli passano più volte di mano.
Il saliente di MONFENERA fu teatro della strenua ed efficace difesa italiana.
Sul Montello, invece, si corse il rischio di una profonda penetrazione che avrebbe potuto portare all’accerchiamento di alcune divisioni della 4° Armata.
Gli austriaci erano riusciti ad oltrepassare il Piave a PONTE PRIULA e la stessa cosa era avvenuto più a sud a FAGARE’ e SAN DONA’ DEL PIAVE, minacciando MONTEBELLUNA e TREVISO.
Fu l’ardimento e lo spirito combattivo di taluni singoli reparti, guidati da coraggiosi Ufficiali subalterni, a riuscire a spezzettare, con violenti contrattacchi, l’offensiva austriaca, bloccandone di fatto lo slancio.
Quattro giorni di dura lotta, i tiri d’artiglieria concentrati su ponti e passerelle, le mitragliatrici che continuano a crivellare di colpi il nemico, fecero si che gli austriaci da “cacciatori" divenissero "selvaggina”.
Il fiume in piena aiutò parecchio gli italiani creando notevoli difficoltà nei punti ove si stava tentando l’attraversamento.
Il 20 giugno l’attacco s’esaurì e il 22 notte gli austriaci dovettero riguadagnare disordinatamente la riva sinistra del Piave.
I reparti di prima linea avevano “offerto” al Comando Supremo la possibilità di avvalersi di un prezioso successo tattico ma esso, impreparato e attendista, non fu in grado di sfruttarlo.
La visione strategica di DIAZ e BADOGLIO (GIARDINO, come detto, aveva assunto il comando della 4° Armata), basata sul testardo concetto della conservatrice tattica “difensiva”, fece perdere un’occasione d’oro.
Non era stato predisposto, infatti, alcun piano mirato alla eventualità di muoversi all’inseguimento del nemico, prima che riuscisse a riorganizzarsi.
Una analoga inadempienza del Comando Supremo aveva imposto a Capello, nel 1916 di fermarsi appena dopo Gorizia, quando vittoriosamente aveva condotto il suo C.d.A. ad attestarsi al di là dell’Isonzo.
Il comportamento degli gallonati di vertice dell’Alto Comando risultò del tutto inspiegabile, pur tenendo conto del temperamento caratteriale di chi sostanzialmente tirava le fila delle decisioni finali da adottare, quasi imponendo la linea operativa del non osare e quindi della rinuncia.
Era prevalso, ancora una volta, il pensiero del “non farsi illusioni”, in gran parte basato sulla sopravalutazione delle forze avversarie.
Questa linea di pensiero si protrasse sino ai primi di ottobre e fece profilare il pericolo che gli Alleati giungessero alla pace separata con l’Austria prima che si potessero riconquistare i territori perduti un anno prima (Caporetto), oltretutto mettendo a repentaglio l’ottenimento di quanto concordato in sede di stipula del “Patto di Londra”.
Per più di venti anni queste considerazioni sono state tenute nascoste agli Italiani e si è solo larvatamente accennato al fatto che esse furono la principale causa delle difficoltà poi insorte a Versailles, in danno dell'’Italia, al tavolo della pace.
Il tutto creò le condizioni perché si diffondesse la convinzione della “Vittoria mutilata”.
Il vittorioso esito della “battaglia di solstizio” fu, in definitiva, opera più del valore delle divisioni di prima linea che tennero il fronte e respinsero il nemico, che della capacità decisionale del Comando Supremo.
Mancò a quest'ultimo, chiaramente, la capacità di valutare prontamente le favorevoli circostanze determinatesi, oltre che la volontà di adottare valide e coraggiose iniziative.
Gli austriaci accusarono la perdita di circa 125.000 uomini, tra morti e feriti, oltre a 25.000 prigionieri.
Le perdite italiane ammontarono a circa 85.000 uomini.
La vittoria sul Piave influì anche sull’andamento dell’offensiva tedesca in Francia.
Il Gen.le tedesco LUDENDORFF scrisse che “vedemmo allontanarsi fra le brume del Piave quella vittoria che eravamo già certi di cogliere sul fronte di Francia”.

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Date da ricordare:
* Il 10 giugno RIZZO con il suo MAS affonda, a PREMUDA, la corazzata austriaca “Santo Stefano”.
* Il 21 giugno, nel cielo del Montello, muore BARACCA mentre mitraglia da bassa quota la fanteria austriaca attorno all’Abbazia di NEVERSA. L’aviazione italiana aveva superbamente conquistato il dominio dei cieli e fu di grande aiutò alle forze di terra. A fronte di sole 9 perdite vennero abbattuti 107 aerei avversari.
* Il 9 agosto sette aerei italiani volano su Vienna facendo cadere una pioggia di manifestini. Il “raid” era stato organizzato da Gabriele D’Annunzio che volle anche parteciparvi.
* Il 31 ottobre avviene il forzamento della base di POLA e viene affondata, da ROSSETTI e PAOLUCCI, la corazzata “VIRIBUS UNITIS”.

VITTORIO VENETO

Dopo le polemiche fra FOCH e DIAZ e dopo la "battaglia del solstizio", subentrò un ulteriore periodo di inattività.
Sembrava che il Comando Supremo fosse ancora bloccato dalla psicosi di Caporetto (la non tanto recondita "ossessione" di Badoglio) e si temeva il verificarsi di una nuova offensiva austriaca.
Timore infondato e poco realistico.
L’Austria, infatti, era già ben consapevole di non avere più energie sufficienti per continuare la guerra e, quindi, non disponeva più della capacità di predisporre una ulteriore offensiva.
Tuttavia, pur di non ammettere di essere stata battuta sul campo dall’Italia, era disposta a tutto e sottobanco stava trattando, attraverso la mediazione del Vaticano, per una pace separata, mostrandosi addirittura disposta a cedere la sovranità sulle "terre irredente" del Trentino Alto Adige e della Venezia Giulia.
Frattanto la Russia di Lenin aveva reso pubblici gli accordi segreti contenuti nel PATTO DI LONDRA e il fatto aveva innervosito parecchio Thomas Woodrow Wilson - Presidente degli Stati Uniti - (foto a destra) che dimostrava aperta avversione per le già concordate rivendicazioni italiane sull’Istria, Fiume e parte della Dalmazia, in particolare quella ex veneziana.
A tal proposito, andava dicendo che, a suo giudizio, “valeva più un croato o uno sloveno che mille italiani”.
Il tracotante e ambiguo Presidente Wilson si permise di asserire inoltre, per evidenti finalità elettoralistiche, che l’America era scesa in guerra senza essere stata posta a conoscenza dell’esistenza del Patto di Londra.
Cosa fieramente smentita dal Premier inglese David Lloyd George.
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Era necessario, a tal punto, fare uscire dal letargo le Armate italiane e far comprendere al Comando Supremo di DIAZ e BADOGLIO che non era più ammissibile ritardare ulteriormente l'azione offensiva senza correre il rischio di perdere il treno della
Pace e senza compromettere il raggiungimento di quegli obiettivi per cui erano già morti centinaia di migliaia di soldati.
Il Comando Supremo sosteneva, a sua discolpa, che una “massiccia preparazione” non sarebbe sfuggita al nemico, specie in quei settori in cui il “terreno non si prestava a risultati apprezzabili” (sembra proprio il linguaggio di Badoglio), e quindi era sconsigliabile una offensiva su vasta scala.
Era diffusa convinzione, oltretutto, che l’evolversi della situazione politica internazionale non avrebbe imposto alcuna azione offensiva prima della fine dell’anno.
Il settore più propizio per eventuali operazioni di tal natura era il settore che dall’ansa del Piave scendeva sino al mare. Sarebbe stato necessario però attraversare in forze il fiume per puntare verso Feltre e cercare di porre in crisi la 11° Armata austriaca che si trovava fra il Monte Grappa e l’altopiano di Asiago.
Fra una proposta e l’altra e fra un diniego e l’altro, solo a fine settembre si venne fuori da quell'incredibile stato di assoluto immobilismo. Ove si fosse continuato a temporeggiare, non era da escludere che la Pace avrebbe trovato l’Esercito Italiano ancora arroccato sul Piave, sulla difensiva.
L’Italia rischiava, conseguentemente, di essere politicamente declassata, fra i vincitori, ad un ruolo secondario.
Il Comando Supremo, da giugno in poi, aveva perso parecchio tempo prezioso e ci si trovava ora, in ottobre, a fronteggiare anche le avverse condizioni atmosferiche. Infatti, quando alfine Orlando rompe gli indugi e ordina perentoriamente di passare all’offensiva, controbattendo le forti resistenze dei Generali e di qualche Ministro (NITTI), si dovette ancora ritardare l’inizio delle operazioni dal 16 al 24 ottobre.

A Roma si pregava perché spuntasse il sole e si facevano voti affinché, frattanto, non giungessero i plenipotenziari austriaci a chiedere l’armistizio. L’Imperatore austriaco, volendo umiliare l’Italia per non essere riuscita a conquistare sul campo le terre irredente, s’era, come detto, rivolto al Papa BENEDETTO XV affinché intercedesse per evitare l’attacco italiano in cambio di consistenti cessioni territoriali. E' pensabile che, ove tale richiesta fosse stata rivolta direttamente al Governo Italiano piuttosto che al Papa, parecchio probabilmente, pur andando incontro ad una ovvia e poco giustificabile figuraccia, avrebbe ottenuto un positivo riscontro.

In quel particolare scenario operativo le forze contrapposte erano così composte:
* AUSTRIACI:
Un totale di sessanta divisioni così suddivise:
Gruppo TIROLO - BRENTA - Arciduca Giuseppe - 10° e 11° Armate
Gruppo BELLUNO - Maresciallo VON GOGLIA
Gruppo ISONZO - Maresciallo BOROEVIC - Armate 6° e 5°
Oltre a 3 Gruppi di riserva.

* ITALIANI :
7° Armata - Gen. TASSONI – zona Garda Stelvio - 4 Divisioni
1° Armata - Gen. PECORI GIRALDI – zona Astico – 5 Divisioni
6° Armata - Gen. MONTUORI – zona Brenta – 6 Divisioni
4° Armata - Gen. GIARDINO – zona Monte Grappa – 9 Divisioni
12°Armata - Gen. GRAZIANI – zona Tomba Cornuta – 4 divisioni
8° Armata - Gen. CAVIGLIA–zona Montello – Priula – 15 Divisioni
10°Armata - Gen. LORD CAVAN – zona Ponte Piave – 4 Divisioni
3° Armata - EMANUELE FILIBERTO DUCA D’AOSTA – 4 Divisioni
9° Armata - Gen. MANTONE (di riserva) - 6 Divisioni
Corpo di Cavalleria - V. E. Giovanni Maria di Savoia Aosta - 4 Divisioni
Il tutto per un totale di 61 Divisioni, quasi in parità con gli avversari.

Quando finalmente ci si decise a passare all’azione, l’arduo compito di portare l'’attacco sulla sponda est del Piave (zona Priula) fu affidato alla 8° Armata del Gen.le Enrico Caviglia.
La piena del fiume, tuttavia, scompaginò non poco i ponti di barche e mise in crisi i reparti, ma Caviglia, ricorrendo ad un intelligente stratagemma e con inflessibile determinazione, riuscì a fare passare ugualmente il suo XXV Corpo sui ponti della vicina
10°Armata costituendo, così, la testa di ponte che gli permetterà di avanzare e di puntare su SUSEGANA.
Il 26 e 27 ottobre anche la 60° Divisione passa il Piave a SERNAGLIA.
Il 28 l’Imperatore Carlo d’Austria fa sapere a Wilson di essere disposto ad accettare tutte le sue condizioni per un ormai indifferibile armistizio ma continua, ostentando una inconcepibile e sterile superbia, a non rivolgersi direttamente agli italiani, affidando tale compito al Gen. WEBER.
Il 30 ottobre Caviglia raggiunge e occupa VITTORIO VENETO.
Il 31 ottobre gli Austriaci cedono anche sul Monte Grappa e le truppe di Giardino possono così entrare di slancio a Feltre.
Nello stesso giorno Caviglia occupa Ponte delle Alpi, mentre la delegazione austriaca si presenta ad Abano per l’ufficiale inizio delle trattative.
Il 1° novembre Caviglia raggiunge Belluno e la 4° Armata di Giardino risale la VALSUGANA tagliando la ritirata alle truppe austriache dell’Altopiano di ASIAGO.
La 10° Armata, parimenti, occupa LIVENZA mentre la 4° Armata, attraverso la Val di Non giunge a RIVA, a ROVERETO e alfine a TRENTO.
Il 3 novembre vengono occupate BOLZANO, CEMBRA e PRIMIERO.
Lo stesso giorno i Bersaglieri sbarcano trionfalmente a TRIESTE.
Il 3/11/1918, alle ore 18, viene firmato l’armistizio di Villa Giusti che entrerà in vigore alle 15 del 4 NOVEMBRE 1918.

Alle ore 12 dello stesso 4 novembre viene diramato il “BOLLETINO DELLA VITTORIA” così formulato da Diaz:

…….. ” I RESTI DI QUELLO CHE FU UNO DEI PIU’ POTENTI ESERCITI DEL MONDO RISALGONO IN DISORDINE E SENZA SPERANZA LE VALLI CHE AVEVANO DISCESO CON ORGOGLIOSA SICUREZZA” …….

Il giorno 11 novembre anche la Germania si arrende e alle ore 11 il trombettiere francese SELLIER può scandire le note del “CESSATE IL FUOCO”.

I soldati escono dalle trincee, s'abbracciano e, sul piano umano, non sono pochi i casi di gioiosa e spontanea fraternizzazione con i commilitoni nemici.

Il Gen.le tedesco Erich LUDENDORFF così scrive nelle sue memorie:
- “ ….. nell’ottobre 1918, ancora una volta, sul fronte italiano rintronò il colpo mortale. A Vittorio Veneto l’Austria non aveva perduto una battaglia, ma aveva perduto la guerra e se stessa, trascinando anche la Germania nella propria rovina …..”

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VERSAILLES

Il 18 gennaio 1919 viene convocata a Parigi la CONFERENZA della PACE cui partecipano le caleidoscopiche rappresentanze di quasi tutte le Nazioni del Mondo, anche di quelle che non avevano partecipato a nessuna sorta di operazioni belliche.
L’Italia incontra, come prevedibile, non poche difficoltà nel fare valere le proprie ragioni rispetto agli accordi stipulati con FRANCIA, INGHILTERRA E RUSSIA in sede di stipula del PATTO DI LONDRA.
Il comportamento sleale di Wilson mette a disagio la nostra delegazione che abbandona il tavolo delle trattative.
Gli inglesi fanno sapere che se l’Italia non tornerà sui suoi passi il trattato di Londra verrà dichiarato decaduto.
La Delegazione torna al tavolo delle trattative e firma ma, impuntandosi sulla definizione dei confini orientali, non pone attenzione sui risvolti economici del Trattato di Versailles, non avanza alcuna concreta richiesta in materia di colonie e rinuncia ad ogni pretesa in Asia Minore.
Nasce così “LA PACE MUTILATA”.
In definitiva l’Italia dovrà accontentarsi dei confini al displuviale delle Alpi, dell’Alto Adige, dell’Istria e di Zara.
Fiume è “internazionalizzata” e la Dalmazia viene “neutralizzata” .
Ci volle l’azione di forza di D’Annunzio, perché Fiume fosse dichiarata italiana.
Il Trattato di Pace sarà rocambolescamente sottoscritto dalla Germania il 28 maggio 1919 e solo il 10 settembre verrà ratificato dall’Austria.
In merito alle funeste decisioni assunte a VERSAILLES, BENEDETTO CROCE ebbe a scrivere:
- “… coloro che sedevano attorno al Tavolo della Pace erano uomini che si abbandonarono alla corrente degli odi e delle cupidigie sfrenate; … peggio che a Brest-Litowsk e a Bucarest, quelli dell’INTESA, poi che la guerra fu vinta, invece di levarsi a più alta sfera, ricambiarono i vinti col trattato di Versailles: dove la coscienza umana fu dolorosamente offesa dallo spettacolo dei vincitori che traevano al loro tribunale anche l’eroico avversario, grondante di sangue di cento
battaglie e si ergevano sopra di lui giudici di moralità ed esecutori di giustizia , e lo costringevano ad ammettere la sua colpa, così colpevoli a loro volta, se pure di colpa si vuole parlare, e non piuttosto, come a noi sembra, di un comune errore, che chiedeva comune espiazione. La guerra mancò ad ogni promessa”

23 maggio 2013 Augusto. Lucchese


                        ALTRE NOTIZIE E PARTICOLARI.
Il sistema difensivo del Monte GRAPPA era una sorta di fortezza in caverna, un autentico capolavoro di ingegneria militare. Ancora oggi, l’opera voluta da Cadorna prima dell’entrata in guerra dell’Italia contro gli Imperi Centrali, visitandola, lascia stupefatti per tanta bravura costruttiva, specie considerando il tipico ambiente di alta montagna e l’epoca in cui essa fu realizzata. Lo sviluppo della galleria principale, spina dorsale delle fortificazioni, era di circa 1500 metri, mentre lo sviluppo complessivo dei vari condotti collaterali, principali e secondari, arrivava a tre volte tanto; ciò fornisce l’idea di quanto fossero estese le varie diramazioni che, alla fine, sfociavano in appostamenti per artiglierie, in piazzole protette per mitragliatrici e in strategici posti di osservazione.
Le batterie in caverna erano 23, di cui 6 di artiglierie da “105”, 10 da “75” da campagna, 7 da “65” da montagna. Le batterie esterne, dotate di cannoni da “75”, erano ubicate in siti adiacenti. Una, da montagna, era appostata su un costone a nord - est della Cima. Le batterie in tal maniera approntate erano in totale 26.
Il sistema difensivo e operativo, ben funzionale e bene attrezzato, si prestava inoltre, senza inficiare le opere e gli apprestamenti preventivati, alla possibile predisposizione di azioni offensive o controffensive mediante l’utilizzo dei vari sottopassaggi in galleria che, ben dissimulati, sboccavano al di là dei reticolati. Ciò premuniva le truppe d'attacco dall’eventuale immediata reazione nemica. Attraverso gallerie o cunicoli, i vari settori della fortezza erano altresì in comunicazione con le difese esterne e con la circostante rete di camminamenti in trincea.
Considerato che la sezione media delle gallerie era di due metri di altezza per 1,50 di larghezza, si può ben apprezzare la fatica per il lavoro di scavo e per l’indispensabile rivestimento delle pareti.
Tenuto conto delle molte aperture e comunicazioni esterne, si ha subito l’idea dell’importanza della difesa contro i gas, ottenuta mediante accorgimenti mirati alla necessaria ventilazione, specie quando la truppa era ammassata nella fortezza in attesa di muoversi per azioni all'esterno.
Era stata predisposta la chiusura di tutte le aperture con triplici tende antigas e la compartimentazione stagna dell'interno; l'aria era fornita da ventilatori che l'attingevano all'esterno e la filtravano prima di introdurla nella galleria.
Per l’approvvigionamento, esistevano magazzini di viveri e di munizioni scavati in roccia; per l'acqua, in particolare, vi era un grande serbatoio di 110.000 litri che entrava in funzione in caso di rottura delle condutture di normale distribuzione; un altro più grande serbatoio era già in costruzione ma non pote’ essere ultimato prima dell’inizio delle ostilità.

                 BATTAGLIA DIFENSIVA del GIUGNO 1918.
Si dice che solo per accondiscendere alle pressioni del Generale CONRAD (sostenitore della guerra sulle vette) e del Generale BOROEVIC (sostenitore della guerra lungo le valli), il Capo di Stato Maggiore dell'Esercito Austro Ungarico, Generale ARZ, dopo l’insuccesso della prima battaglia del Piave, abbia deciso, il 15 giugno 1918, di lanciare una ulteriore offensiva contro l'Esercito Italiano, sia sul PIAVE che sul GRAPPA. Egli così presentò ai suoi collaboratori la decisione assunta: "mi riprometto, in tal maniera, lo sfacelo militare dell'Italia".
Su parecchi elmetti austriaci apparve la scritta: 'NACH MAILAND' (a Milano).
Gli attaccanti riuscirono ad infiltrarsi sui Colli Alti sul versante ovest del massiccio del Grappa e sul Montello nella zona del Piave, superando per un paio di chilometri le difese attorno alla Chiesetta di San Giovanni.
L'attacco, tuttavia, si esaurì ben presto, non tanto per mancanza di spirito combattivo degli Austro-Ungarici quanto per la mancanza di adeguate riserve di uomini, di munizioni e vettovaglie.
Nei primi mesi del 1918, infatti, a causa della carestia che imperversava in gran parte dei territori sotto controllo austriaco, il soldato dei reparti di prima linea aveva una razione di cibo giornaliera di 280 grammi di farinacei e una assegnazione settimanale di 200 grammi di carne.
Il soldato italiano di prima linea, invece, poteva contare giornalmente su 750 grammi di pane e 250 grammi di altri alimenti, fra cui la carne. Ciò era dovuto al fatto che gli aiuti Americani cominciavano a giungere regolarmente anche sul fronte italiano.
Il Generale ARZ, altresì, commise l'errore di frazionare lo sforzo bellico su due obiettivi diversi, il PIAVE e il GRAPPA, indebolendo, così, la spinta offensiva delle truppe.
Il 24 giugno gli Austro Ungarici dovettero ripiegare sulla sponda sinistra del Piave.
Il grande Maresciallo Paul von HINDENBURG (Capo dell'Esercito Tedesco) commentò incisivamente l’accaduto: "….. il disastro del nostro alleato è la maggiore delle disgrazie anche per noi; ….. da questo momento la Monarchia Danubiana cessa d'essere un pericolo per l'Italia".
A seguito della “battaglia del solstizio”, lo scenario politico e militare cambiò ma solo a settembre, come già detto, si profilò l’idea di un attacco offensivo italiano.
S’iniziavano già ad avvertire precisi segnali dell’imminente crollo dell’Impero austro- ungarico, sia per effetto dell’azione dei movimenti nazionalisti e sia per il peso della fame e della miseria prodotti da quasi cinque anni di guerra.
Tuttavia, per le forti divergenze politiche e militari, il Governo non riusciva ancora a concordare con il Comando Supremo una data certa per l’inizio dell'attacco.
Solo nell’ottobre - novembre 1918, alfine, si mosse la macchina bellica che da lì a qualche settimana, avrebbe dato la spallata finale, con la vittoriosa offensiva di Vittorio Veneto, alla già critica situazione interna dell’Impero Austro-Ungarico determinandone il definitivo crollo. Se tale decisione fosse stata assunta nel giugno dopo il fallimento dell'ultima offensiva austro-ungarica di cui sopra, il peso italiano sulle future trattative di pace di Versailles sarebbe stato sicuramente ben diverso.

La TERZA BATTAGLIA del PIAVE (o di VITTORIO VENETO che dir si voglia) iniziò il 24 ottobre e l’offensiva fu portata avanti per circa sei giorni, assumendo subito le caratteristiche di una vera e propria travolgente manovra.
Sul Grappa, il Generale GIARDINO dovette in brevissimo tempo cambiare la disposizione della sua 4° Armata da difensiva ad offensiva. Fu un'operazione difficilissima in quell’ambiente montagnoso (il tragico esempio di Caporetto era ancora ben presente), specie perché, in quel periodo dell'anno, sul Grappa era ormai inverno.
Lo sforzo delle sue valorose divisioni fu sostanziale dal punto di vista tattico e strategico pur se dovettero battersi contro le ancor solide forze austriache che si difesero vigorosamente fino al successo della manovra della VIII Armata di Caviglia e della III Armata di Emanuele Filiberto Duca d’Aosta.
L'ARMATA del GRAPPA ancora una volta lottò strenuamente e combatté impavidamente ma il complessivo contributo fu parecchio pesante:
• tra il 24 ottobre e il 4 novembre furono uccisi, feriti e dispersi ben 824 UFFICIALI e 23.859 SOLDATI;
• i quattro BATTAGLIONI del raggruppamento ALPINI ebbero fuori combattimento, in 4 giorni, più di 3.000 uomini;
• una proporzione che non era mai stata raggiunta, nemmeno nel corso della disfatta di Caporetto;
• questi dati dimostrano la dura lotta svoltasi nel settore del Monte GRAPPA che da allora, a buon diritto, potrà fregiarsi della definizione di “SACRA MONTAGNA D’ITALIA”.
Le esaltanti parole del testo della “Canzone del Grappa” sono la misura del sentimento che lega gli italiani ai luoghi in cui, nella fase cruciale, si consumò l’epopea delle sanguinose battaglie, pur se vittoriose, del giugno e dell'’ottobre del 1918:

Montegrappa, tu sei la mia Patria,
Sovra te il nostro sole risplende,
a te mira chi spera ed attende
I fratelli che a guardia vi stan.
Contro a te già s'infranse il nemico
Che all'Italia tendeva lo sguardo
Non si passa un cotal baluardo
Affidato ad italici cuor
Monte Grappa, tu sei la mia patria
Sei la stella che addita il cammino
Sei la gloria, il volere, il destino

Che all'Italia ci fa ritornar.

Le tue cime fur sempre vietate
Per il piede dell'odiato straniero
Dei tuoi fianchi egli ignora il sentiero
Che pugnando più volte tentò
Quanta candida neve che al verno
Ti ricopre di splendido ammanto
Tu sei puro ed invitto col vanto
Che il nemico non lasci passa’
Monte Grappa, tu sei la mia patria
Sei la stella che addita il cammino
Sei la gloria, il volere, il destino
Che all'Italia ci fa ritornar
O montagna, per noi tu sei sacra
Giù di lì scenderanno le schiere
Che irrompenti, a spiegate bandiere
L'invasore dovranno scacciar
Ed i giorni del nostro servaggio
Che scontammo mordendo nel freno
In un forte avvenire sereno
Noi ben presto vedremo mutar
Monte Grappa, tu sei la mia patria
Sei la stella che addita il cammino
Sei la gloria, il volere, il destino
Che all'Italia ci fa ritornar.

In conclusione, appare quanto mai opportuno riportare ciò che, in merito, ha lasciato scritto, nelle sue “memorie”, il Generale GIARDINO :
" …. il paragone sarebbe che le 9 Divisioni Italiane del Grappa hanno perduto, in media, 2712 uomini (ufficiali e truppa) ciascuna, mentre le 22 Divisioni Italiane ed alleate sul Piave hanno perduto, in media, 560 (Ufficiali e truppa) ciascuna." …. "Più importante è che le cifre documentino come quella riscossa, che si volle presentare come “riscossa interalleata”, sia stata pagata col sangue di 1374 Ufficiali Italiani in confronto di 91 Ufficiali alleati, e col sangue di 35.124 uomini di truppa italiani in confronto di 2337 uomini di truppa alleati: e cioè con il 93,8 per cento di ufficiali italiani e con il 93,3 per cento di truppa italiana".
Qualcuno ha giustamente posto in evidenza che, anche in quella fase in cui le prospettive erano del tutto favorevoli alle armi italiane, si verificarono incertezze, inspiegabili ritardi nell’avvio dell’offensiva, attriti fra potere politico e comando militare. Si sa che dovette intervenire personalmente il Presidente del Consiglio, Vitt. Emanuele Orlando, per imporre al Comando di Diaz e Badoglio di dare immediatamente inizio alle operazioni. In maniera risoluta intimò: - “ove non provvediate con immediatezza, sarò io stesso a dare l’ordine di attaccare”. L’ingiustificato e dannoso attendismo del Comando Superiore (francesi e inglesi premevano per l’attacco), era da attribuire, molto probabilmente, al consueto sistema tergiversante e attendista di concezione e marca badogliana.

Raggiunto il fatidico 4 novembre (giorno della vittoria) e poste a tacere, almeno per il momento, le accuse riguardanti il suo comportamento a Caporetto, Badoglio, a fronte delle recenti approntate “benemerenze”, ottiene una ulteriore promozione.
E non tanto stranamente è proprio lui a ricevere l’incarico di sottoscrivere, a Villa Giusti, l’armistizio con l’Austria.
Come mai a tale prestigiosa incombenza non fu chiamato il Gen.le Diaz, suo superiore e Capo di Stato Maggiore?
In virtù della posizione di vertice di quest’ultimo e a prescindere da ogni altra personale considerazione, sarebbe spettato più a lui che a Badoglio rappresentare l’Italia alla stipula dei documenti armistiziali.
Chissà se Diaz fu preventivamente consultato in proposito.
Sulla decisione politica di demandare a Badoglio tale storica incombenza, avrà influito, probabilmente, la notoria pur se nebulosa e per taluni versi “misteriosa” sua posizione di “beniamino” e “longa manus” della Monarchia?
Il solito oscuro e pasticciato modo di fare all’italiana.

24 maggio 2016                                                 A. Lucchese
 

Ass. Socio-Cult. «ETHOS - VIAGRANDE»  
Presidente Augusto Lucchese
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