Prima Guerra Mondiale
24 maggio 1915 - 4 novembre 1918
“Le verità
taciute”
da Caporetto, al Piave, al
Monte Grappa,
a Vittorio Veneto
**********************
Per rendersi conto dei motivi che determinarono la disfatta di
Caporetto (24 ottobre 1917) occorre fare riferimento ai
protagonisti di quella disastrosa vicenda.
Le responsabilità dell'accaduto vanno in gran parte attribuite,
prima d'ogni altra considerazione, alla mediocrità e alle beghe
di potere e di carriera che diffusamente regnavano in seno al
Comando Supremo. Le Grandi Unità di prima linea, invece, ove si
escluda la particolare situazione di comando del XXVII Corpo
d'Armata, in mano al discusso Gen.le Pietro Badoglio, erano
quasi tutte agli ordini di validi e determinati Capi.
In tale contesto, la figura del Gen.le Luigi Capello (foto a
sinistra), prima comandante del VI C.d’A. e poi della 2a Armata,
fa notizia a se. Pagò abbastanza le responsabilità a lui
attribuite in sede d'inchiesta parlamentare riguardo la funesta
disfatta di Caporetto ma, in base alla documentazione
successivamente venuta alla luce, è oggi abbastanza chiaro, pur
se a distanza di tanto tempo, che la colpa principale non fosse
a lui ascrivibile. Riccardo Posani (“La Grande Guerra” – SADEA
SANSONI Editori - 1968-vol.2°-pag.740) dice di lui che
“l’abilità del Gen.le Capello suscitava ammirazione e gelosie,
quanto il suo carattere antipatie feroci o affetti ciechi".
Nessuno può disconoscere, oggi, che se si fosse dato ascolto ai
suoi suggerimenti, frutto di quella “particolare genialità
nell’arte della guerra” riconosciutagli anche dagli avversari
(fra cui il tedesco Maresciallo Hindenburg e l’austriaco Gen.le
Conrand che, a sue spese, aveva dovuto costatarne la capacità
nel corso della “sesta battaglia dell’Isonzo”), la tragedia di
Caporetto avrebbe potuto essere evitata.
Il Gen.le Capello, infatti, avuto sentore dei preparativi
avversari, aveva proposto, già in settembre, di lanciare “una
offensiva preventiva” per scompaginare il nemico mentre era
ancora in fase di preparazione logistica.
Il piano, all’uopo celermente elaborato, venne approvato, in un
primo momento, dai competenti livelli gerarchici, ma non ebbe
attuazione per sopravvenute diverse valutazioni del Comando
Supremo del Gen.le Luigi Cadorna (foto a destra) il quale, in
data 20 ottobre (inspiegabilmente appena quattro giorni prima
dell’attacco nemico), adotta la incoerente decisione di revocare
il piano d'attacco, disponendo altresì che la 2a Armata del
Gen.le Capello assumesse subito uno schieramento “esclusivamente
difensivo”.
Il ritardo nell’esecuzione di quest'ultimo perentorio ordine
divenne poi il principale “capo di accusa” a carico del Gen.le
Capello e la Commissione d’inchiesta, per considerazioni più
politiche che tecniche, non ritenne di tenere conto di quanto
difficile fosse, in appena tre giorni, modificare l’assetto di
un mastodontico apparato cui facevano capo una ventina di
divisioni raggruppate in tre Corpi d'Armata e con un organico di
circa 600 mila uomini.
Il voltafaccia di Cadorna era maturato a fronte di talune
infondate informazioni che lo portarono a convincersi che “gli
austro - tedeschi non avessero alcuna intenzione di attaccare
sul Tolmino e che comunque non fossero in grado, per motivi
logistici, di farlo prima del marzo successivo”. Vedi caso,
erano gli stessi “motivi logistici” che poi non sarebbero stati
ammessi a discolpa di Capello.
Il Gen. Capello era definito dai suoi colleghi, parecchio a
torto, un “offensivista” e tale definizione non aveva certo un
senso elogiativo.
L'errata valutazione scaturiva dal fatto che lui, all’epoca
quasi in solitudine, fosse un convinto assertore di concetti
operativi innovativi e dinamici, parecchio diversi dalle
decrepite concezioni della guerra di posizione.
Il suo principio era quello di “difendersi attaccando e
attaccare per primi, con azioni di ampio respiro, … per impedire
che il nemico possa farlo a sua volta”.
Tali diversi canoni di strategia militare disturbavano i
“soloni” dell’Alto Comando più che altro portati a privilegiare
lo schema dei continui attacchi frontali, pur se essi,
ovviamente, determinavano la mattanza di migliaia di uomini.
Quegli inutili massacri, peraltro, non trovavano giustificazione
nei limitati vantaggi territoriali che il più delle volte non
erano altro che “aggiustamenti di fronte”.
Nel gergo della truppa, come conseguenza di tale stato di cose,
s'erano diffuse patogene definizioni dell'inumano trattamento
cui erano sottoposti gli uomini di truppa ammassati nelle
putride trincee, quali quelle di “uomini mandati al macello”,
“carne da cannone” “schiavi con le stellette”.
Termini il cui tragico significato rimbombava nei vari luoghi di
apprestamenti difensivi ed esprimeva sdegno e riprovazione nei
riguardi degli Alti Comandi che, con assoluta indifferenza,
seguitavano a sfornare “ordini d’operazione” per l’assalto
all’arma bianca.
Franco Valombra, nella inchiesta “L’ottobre in cui tremò
l’Italia” apparsa nel 1967 - cinquantenario di Caporetto - per i
tipi di un noto settimanale, ha scritto : -“I soldati di prima
linea dovevano obbedire, combattere e morire senza discutere ….”
.
L’ecatombe di soldati, sottufficiali e ufficiali (questi ultimi
avevano “l'obbligo" di precedere i reparti) sta a dimostrare
quanto scarso rispetto s’avesse per la vita umana.
A lungo andare, quindi, non poteva non determinarsi il
pernicioso crollo del morale della truppa ma, nonostante le
pesanti critiche avanzate da molti organi di stampa oltre che da
alcuni membri del Parlamento, l’atteggiamento del Comando
Supremo non mutò.
Alla pari di molti colleghi di altre Nazioni (a ben ragione
definiti “macellai”), il Gen.le Cadorna continuava ad essere
sprezzantemente convinto che il destino dei soldati di prima
linea fosse quello d'andare incontro al piombo nemico.
Lo ha lasciato scritto, financo, in un suo libro.
Il Comando Supremo, peraltro, ritenendo che fosse necessario
porre rimedio al dilagante fenomeno dell'insubordinazione e, in
taluni casi, dell'ammutinamento, fece ricorso con criminale
cinismo alla prassi di “passare per le armi”, dietro estrazione
a sorte di un soggetto ogni dieci militari in forza, oppure a
fronte di sommari processi, incolpevoli soldati. Tale crudele,
abominevole e criminale prassi è passata alla storia con
l’appellativo di “decimazioni”.
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Nel ricostruire il quadro degli avvenimenti che portarono al
disastro di Caporetto, ci si rende conto che quanto inizialmente
avvenne sul Tolmino, sul fronte dell'Isonzo, è in maggior parte
connesso con l'inqualificabile comportamento del Gen.le Pietro
Badoglio (foto a destra), recente nuovo comandante del XXVII
Corpo d’Armata, dal 23 agosto, in sostituzione del Gen.le Vanzo,
esautorato da Capello e Cadorna per manifesta irresolutezza. Non
c’è che dire, scelta azzeccata, … dalla padella alla brace.
Appena un anno prima Badoglio portava sulle spalline ancora i
gradi di “colonnello”, mentre nell’ottobre del 1917, in virtù di
tre incredibili avanzamenti, acquisiti a fronte di chissà quali
misteriose alchimie messe in atto di conserva fra Comandi
militari e qualificati esponenti del governo, il cui consenso
era indispensabile, era stato posto al comando del XXVII Corpo
d’Armata, schierato sul Tolmino, con alla sinistra, nella zona
di Plezzo, il IV C.d.A. del Gen.le Alberto Cavaciocchi e, alla
destra, il XXIV C.d.A. del Gen.le Enrico Caviglia. La
dettagliata descrizione riportata nel 4° volume (tomo 3°) de
“L’Esercito Italiano nella Grande Guerra” (edita nel 1967
dall’Ufficio Storico dello Stato Maggiore, dopo ben
cinquant’anni dal disastro di Caporetto), chiarisce che il primo
cedimento avvenne nel tratto di fronte affidato alla 50a
divisione del IV C.d.A., tra Plezzo e Caporetto ma che tale
“falla nello schieramento difensivo” venne ritenuta, al momento,
“non grave” e del tutto “controllabile”. Si legge ancora, però,
che “la situazione assunse .... i connotati di un vero disastro”
quando, nelle prime ore del pomeriggio, alcuni reparti dello
“Alpen Korps” germanico (facente parte della 14° Armata del
Gen.le Von Below) sfondarono il fronte nel settore tenuto dalla
19a Divisione del XXVII Corpo del Gen.le Badoglio, fra la Conca
di Tolmino, Costa Raunza e Costa Duole, dilagando lungo le due
strade che, fiancheggiando l’Isonzo, conducevano a Caporetto.
In quest’ultimo settore, peraltro, contrariamente a quanto
accadde in altre zone, non ci fu una “difesa efficace” e tanto
meno alcun tentativo di contrattacco.
Era accaduto che, nelle ore cruciali dell'attacco nemico, i
Comandanti dei reparti di prima linea rimasero del tutto privi
di adeguate disposizioni da parte del Comando di C.d’A.
(Badoglio), a prescindere dal determinante fatto dell’
“inspiegabile e assoluto silenzio” delle artiglierie.
Il mancato impiego della Brigata “Napoli” (assegnata in riserva
al XXVII Corpo), oltretutto, non aveva permesso di
contrattaccare nella zona di Costa Raunza per tentare di
bloccare l’avanzata nemica.
L’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito segnala
ancora che “al momento del già previsto attacco”, (il servizio
informazioni lo aveva dato per certo tra il 24 ed il 26
ottobre), il comandante del XXVII Corpo d’Armata, Gen. le
Badoglio, “si era portato a Kosi, sede arretrata del Comando, …
in una situazione di totale isolamento (forse sarebbe meglio
dire “allontanamento”?) rispetto ai reparti dipendenti”.
Tale circostanza appare ancora più grave ove si pensi che prima
d'allontanarsi egli non aveva revocato la disposizione con cui
s’era riservato di “impartire personalmente” l’ordine
all’artiglieria di aprire il fuoco di “contro preparazione”.
Non solo quell’ordine non giunse mai a chi avrebbe dovuto
provvedere ma lo stesso Badoglio divenne “introvabile” per quasi
tutto il 24 ottobre.
I suoi inspiegabili e sconosciuti spostamenti, da un posto
all’altro delle retrovie, resero infruttuoso ogni tentativo di
collegarsi con lui e, stando ai tentativi esperiti dal Comando
d’Armata che aveva inviato un Ufficiale a cercarlo, “solo a sera
fu possibile rintracciare il Gen.le Badoglio”.
Egli, fra l'altro, non fu in grado di fornire che solo notizie
approssimate all'Ufficiale del Comando d’Armata “essendo
parecchio disinformato” circa la reale situazione dei reparti da
lui dipendenti.
Molti storici si sono chiesti perché Badoglio si fosse
allontanato dal suo posto di comando alla vigilia del previsto
attacco nemico e perché non diede all’artiglieria del Corpo
l’ordine di aprire tempestivamente il fuoco di sbarramento
contravvenendo, peraltro, alla precisa disposizione impartita in
tal senso dal Comando Superiore.
A tal proposito, risulta agli atti che le “potenti” ottocento
bocche da fuoco del XXVII Corpo (quasi tutte finite in mano
nemica) rimasero “inspiegabilmente e tragicamente mute” (come
ebbe ad affermare il Primo Ministro V.E.Orlando) e, oltretutto,
si trovarono impreparate per una ordinata manovra di
ripiegamento.
Quegli avvenimenti smentirono clamorosamente ciò che lo stesso
Badoglio, nell’imminenza del saputo attacco, aveva detto ai suoi
ufficiali,: “… io sono Badoglio, il vostro Comandante, … state
tranquilli, .. gli austriaci hanno chiesto aiuto ai tedeschi ma
non ce la possono fare, … io ho tante artiglierie che li
stermino appena escono dalle loro trincee”.
Anche a volere sorvolare su tali ilari e sfrontate spacconate, è
lecito intravedere nel suo confuso e incoerente comportamento
ben altro che la “casualità”.
Mancanza di temperamento e di coraggio, incapacità di affrontare
la situazione, sottovalutazione degli avversari? O, più
semplicemente, paura di rimanere nelle zone ove da lì a poco si
sarebbe abbattuta una gragnola di proiettili d’ogni calibro e
ove esisteva il rischio di lasciarci la pelle o di essere fatti
prigionieri?
Badoglio ha portato con lui, nella tomba, il mistero dei reali
motivi che lo indussero a trasferirsi d’urgenza a Kosi, sede
arretrata del Comando del XXVII Corpo d’Armata da lui
dipendente.
Sta di fatto che, pur avendo a disposizione ingenti forze, in
uomini, mezzi e artiglierie, non solo non seppe fare tesoro
delle informazioni ricevute (poi puntualmente verificatesi) ma,
anzi, facendo mancare ai comandi dipendenti tempestive
direttive, determinò il collasso delle unità di prima linea.
La 19° divisione, in particolare, dopo avere resistito sino al
pomeriggio del 25, venne travolta e quasi annientata. Il suo
eroico comandante, il Gen.le Giovanni Villani, preferì il
suicidio al disonore della sconfitta.
In qualsiasi altra Nazione i fatti citati sarebbero stati
ritenuti più che sufficienti per porre Badoglio di fronte alle
proprie responsabilità. In Italia no!
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Quei tragici avvenimenti, come detto, travolsero Cadorna,
Capello e altri Generali del Comando Supremo, ma la Commissione
d’inchiesta (presieduta dal massone Gen.le Carlo Caneva,
veterano della controversa spedizione in Libia del 1911) non osò
approfondire le pur palesi colpe di Badoglio, “certo il maggiore
responsabile dell’accaduto – pur se non il solo”, come fa
rilevare il Bertoldi, a pag. 11 del suo esauriente testo
“Badoglio”, edito da Rizzoli nel 2001.
La Commissione d’inchiesta non lo interrogò neppure e ritenne
che, “per evitare pericolose ripercussioni istituzionali”,
sarebbe stato prudente non formulare alcuna specifica accusa al
Gen.le Badoglio.
Egli, incredibile ma vero, non solo sfuggì ad ogni provvedimento
inquisitorio ma venne confermato nell’incarico di Comandante del
XXVII Corpo (che si stava riorganizzando, oltre il Piave) e, da
li a qualche giorno, venne addirittura chiamato a ricoprire
l’incarico di Sottocapo di Stato Maggiore dell’Esercito.
Sembra sia prevalso, ancora una volta, il parere di chi, più o
meno palesemente, lo proteggeva. Re Vittorio, dopo l’incontro di
Peschiera con i capi militari francesi e inglesi che
subordinavano il proprio aiuto all’acquisizione di una posizione
di supremazia nell’ambito di un comando unificato, aveva dovuto
assumere “in proprio” la responsabilità delle operazioni e,
nell’affidare il Comando dell’Esercito al Gen.le Armando Diaz
(foto a sinistra) , sino ad allora sconosciuto generale di
secondo livello, avrà ritenuto opportuno affiancargli un uomo di
“sua conoscenza e fiducia”.
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RELAZIONE UFFICIALE del Ministero della Difesa
SULLA GRANDE GUERRA
La relazione venne pubblicata dal Ministero della Difesa nel
1967, dopo ben cinquant’anni dal disastro di Caporetto, vedi
caso dopo che tutti i protagonisti della triste vicenda erano
scomparsi.
S’è potuto apprendere, da essa, che “alcune pagine dei verbali
della Commissione d’inchiesta (tredici, per l’esattezza)
contenenti dure critiche sull’operato di Badoglio, vennero fatte
sparire”.
S’è potuto anche sapere che tutto avvenne dietro esplicito
“ordine” dell’allora Presidente del Consiglio V.E. Orlando.
Esecutore materiale sembra sia stato un membro della stessa
commissione, l’On. Raimondo (originario di San Remo e torinese
d’adozione) a ciò indotto dal Sen. Giuseppe Paratore, suo
“intimo amico”.
Quest’ultimo, scomparso proprio nel 1967, alcuni mesi prima che
fosse pubblicata la citata “relazione”, s’era sempre rifiutato
di rilasciare una qualsivoglia “particolareggiata memoria
sull’argomento”, pur se reiteratamente e da più parti richiesta.
S'è venuto a sapere, con il crisma della ufficialità, che la
Commissione d’inchiesta, in tale frangente, adottò il
suggerimento del Presidente Orlando di “non inimicarsi Badoglio,
in considerazione dell’evidente danno (a livello monarchico
istituzionale ?, chissà !) che ne sarebbe derivato”.
La Commissione sembrava essere rivolta più a nascondere la
verità sulle vicende di Caporetto che a cercarla e a renderla
nota.
Per quale plausibile motivo i testimoni che, almeno in parte,
avrebbero potuto giustificare l’operato di Capello, non vennero
neppure interrogati?
Forse per il timore che potessero incolpare ancor più Badoglio?
L’aspetto più sconcertante del ripescaggio e della sponsorizzata
“resurrezione” di Badoglio sta forse nel fatto che, dopo essere
state acclarate le sue responsabilità su Caporetto, nessuno dei
politici (Orlando, in primis) e dei capi militari (Vittorio
Emanuele III, in particolare, nella qualità di Comandante
supremo delle FF.AA) provò a bloccare, o semplicemente ad
ostacolare, lo sviluppo carrieristico del futuro Maresciallo
d'Italia.
E' risaputo, inoltre, che coloro i quali, in tempi successivi ed
anche al di fuori delle Istituzioni, vollero tentare di fare
emergere talune comprovate verità, uscirono dalla mischia
piuttosto malconci, come avvenne, ad esempio, all’integerrimo
Gen.le Enrico Caviglia.
Forse perché stimolato dall’innato spirito di “protagonismo”, ma
sicuramente perché psicologicamente poco incline ad avvertire
qualsivoglia problema di coscienza, è da dire che Badoglio,
insediatosi nell'incarico di Sottocapo di Stato Maggiore del
Regio Esercito, assolse abbastanza proficuamente il compito e
operò fattivamente sia per l'organizzazione della resistenza sul
Piave che, pur se in ritardo, per l’approntamento della macchina
bellica occorrente per l'ormai inderogabile controffensiva.
Bloccate, almeno in parte, le torve ombre che su di lui
gravavano dopo Caporetto e in relazione a queste ultime
“benemerenze”, Badoglio, a meno di un anno dalla
incontrovertibile incapacità di comando dimostrata sul Tolmino ,
è addirittura promosso Generale d’Armata ed è proprio lui a
ricevere l’incarico di controfirmare, a Villa Giusti,
l’armistizio con l’Austria.
Su tale scelta avrà presumibilmente influito più che il ruolo di
Vice Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, la consolidata
qualifica di “fedele rappresentante” della Monarchia, oltre che
di “longa manus” del Sovrano.
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La cosiddetta “disfatta di Caporetto” che tragicamente coinvolse
gran parte delle Unità di prima linea schierate sul Tolmino ebbe
effettivo inizio il 26 ottobre.
Il giorno prima era caduto il GLOBOCAK e dopo la perdita di
MONTE MAGGIORE e di CIVIDALE (già sede del Comando della 2°
Armata di Capello), le truppe italiane, in parte ordinatamente (XXIV
Corpo di Caviglia e 3° Armata del Duca d’Aosta) e in parte in
piena crisi di ripiegamento (XXVII Corpo di Badoglio e IV Corpo
del Gen.le Cavaciocchi), affluirono sulla linea del TAGLIAMENTO
ove si sperava di riuscire ad approntare un primo valido
tentativo di difesa, mirata più a ritardare l’avanzata nemica
che a bloccarla. Cosa che non avvenne stante che il fiume era
facilmente guadabile in diversi punti.
Il 3 novembre cade TARVISIO mentre il 7 un esiguo reparto dello
“ALPENKORPS” tedesco, al comando di un certo capitano Erwin
ROMMEL (foto a destra) (proprio lui, la “volpe del deserto”
dello "African Korp" del 1941-1942), giunge a LONGARONE, si
impadronisce del prezioso ponte, occupa il Monte Matajur, fa
parecchi prigionieri e prosegue, quasi indisturbato, verso
Caporetto.
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Il 4 novembre la linea del Tagliamento è abbandonata e si è
costretti a ripiegare più o meno ordinatamente sul fiume LIVENZA,
per poi retrocedere ancora, il 9/11, sul PIAVE.
Sulla riva occidentale di quest’ultimo fiume trovano riparo le
divisioni riuscite a sottrarsi all’incalzante offensiva austro
tedesca, dilagata nel vasto territorio che da GORIZIA e
dall’ISONZO s’estende sino al Piave e all’altopiano di Asiago.
Come conseguenza del disastro di Caporetto si persero circa
300/mila uomini, 3200 cannoni, 2/3 delle bombarde e 1/3 delle
mitragliatrici e armi leggere, oltre ad ingenti quantitativi di
materiali vari e di casermaggio. Gli sbandati assommarono a
circa 400/mila, fra cui i resti del XXVII Corpo di Badoglio
avviati a Piacenza ove, secondo le direttive, si sarebbe dovuto
procedere a ricostituire l’organico dei vari reparti.
Ben faticosamente si riuscì a consolidare il fronte su una linea
di difesa che a nord scendeva dallo STELVIO al TONALE e
all’ADAMELLO, toccando la punta estrema del LAGO DI GARDA, per
poi giungere sino a PASUBIO, ad ASIAGO e al massiccio del MONTE
GRAPPA. Quest’ultimo divenne la cerniera dello schieramento
difensivo che proseguiva lungo l’ansa del fiume PIAVE sino a SAN
DONA’ e al mare, appena a pochi chilometri da VENEZIA.
La sconfitta fu parecchio pesante (qualcuno l’ ha definita “una
apocalittica disfatta”) e portò gravi conseguenze militari e
politiche.
Gli Alleati franco britannici si dichiararono disponibili a
fornirci aiuto ma, approfittando dell’allontanamento di Cadorna,
cercarono d’ottenere che il comando supremo passasse alle loro
dipendenze o, in alternativa, a generali “più malleabili e
sottomessi”.
Il Sovrano, però, non aderì a tale richiesta e, dopo il citato
incontro di Peschiera, assunse, come già detto, la personale
responsabilità della condotta delle operazioni e parimenti
propose il Gen.le Armando DIAZ quale Capo di Stato Maggiore, in
sostituzione di Cadorna, affiancato da BADOGLIO e GIARDINO come
Sottocapi.
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Divenne predominante l’esigenza di approntare la strenua difesa
sulla linea “Stelvio, Monte Grappa, fiume Piave”. Apprestando un
immane sforzo logistico si riuscì stentatamente nello scopo
anche attraverso l’impegnativa opera di riorganizzazione delle
grandi Unità, utilizzando i reparti sfuggiti alla disfatta di
Caporetto e con il massiccio apporto di nuove leve.
La battaglia difensiva divampò particolarmente nella zona del
Monte Grappa.
Se quel naturale baluardo fosse caduto in mano nemica avrebbe
quasi certamente prodotto lo sfaldamento di tutto il fronte
poiché le forze austro tedesche sarebbero dilagate alle spalle
delle truppe italiane attestate lungo il corso del Piave.
Il 10 novembre il gruppo di armate del Gen.le CONRAD sferrò
l’attacco sull’altopiano di Asiago e in zona Bassano, mentre il
12 il Maresciallo BOROEVIC attaccò sulla linea Montello - Brenta
e il 15 VON BELOW lanciò l’offensiva sul GRAPPA. La
resistenza fu superiore ad ogni aspettativa e sorprese tutti:
gli austro tedeschi furono bloccati e respinti quasi ovunque,
mentre i contingenti degli Alleati franco britannici, pur se
erroneamente convinti che gli italiani non potessero farcela, se
ne stavano furbescamente a guardare dietro il Mincio, evitando
di prendere parte ai combattimenti.
I durissimi scontri, con attacchi e contrattacchi, si
protrassero sino al 26 novembre senza che le difese italiane
fossero sostanzialmente scardinate e, a tal punto, VON BELOW
decise di sospendere l’offensiva.
L’attacco fu ripreso il 4 dicembre pur se anche stavolta con
risultati di scarsa rilevanza. Il 26 dicembre le operazioni
offensive, iniziate a Caporetto il 24 ottobre, si placarono e si
esaurirono.
La dura e sanguinosa lotta si protrasse, con alterne vicende,
sino a quella data con il confortante risultato di essere
riusciti a bloccare il micidiale urto delle forze austro
tedesche che, per ben due volte, non poterono scardinare la
linea di difesa italiana, tenuta dalla IV Armata del Gen.le
Mario Nicolis di Robiland.
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La sostanziale tregua venne rotta il 29/12 da alcune azioni
controffensive sul MONTE TOMBA ma, nel complesso e da ambo le
parti, si tornò alla snervante tattica della guerra di posizione
e di trincea.
La difesa ad oltranza del massiccio del Monte Grappa rappresentò
una sostanziale ripresa delle sorti delle armi italiane.
Fu un successo postumo da attribuire ad onor del vero a Cadorna
che, a suo tempo, aveva ideato il piano di difesa sulla linea
del Piave - Monte Grappa.
Ci si poté avvalere, infatti, di una valida serie di fortilizi e
gallerie costruiti e scavati nel fianco della Montagna, capaci
di resistere ai micidiali cannoneggiamenti nemici.
DIAZ non modificò menomamente detto piano e lo attuò in pieno.
Anche a volere, non ne avrebbe avuto il tempo.
Sulla citata linea di difesa “Stelvio, Monte Grappa, fiume
Piave”, a fronte delle residue e rabberciate 35 divisioni
italiane, con una forza di circa 500/mila uomini, con solo 3000
bocche da fuoco e 100 aerei, si trovavano 55 divisioni austro -
tedesche - ungariche con circa un milione di uomini, 4500
cannoni e 550 aerei.
Quel cruento periodo di guerra, vide anche le intrepide azioni
dei MAS di RIZZO, DENTICE di FRASSO, COSTANZO CIANO e
BELARDINELLI. Temerarie azioni che stupirono un po’ tutti.
Furono gravemente danneggiate le corazzate WIEN e BUDAPEST che
s’erano spinte sin sotto costa, nella zona della foce del Piave
e della laguna veneta, per bombardare dal mare gli approntamenti
difensivi italiani. Un indiscutibile successo tattico capace di
modificare in favore degli italiani l’andamento della furiosa
battaglia difensiva in corso.
Per la cronaca la corazzata WIEN fu successivamente affondata
dallo stesso Luigi RIZZO, eroico artefice di storiche imprese
(nativo di MILAZZO - ME), dentro il porto di TRIESTE.
Parallelamente alla lotta armata non fu meno impegnativa la
lotta sul fronte della diplomazia.
Si pensava già alla sistemazione territoriale del dopo guerra,
ai nuovi confini, alle annessioni e, a tal proposito, le
contrastanti vedute erano una continua fonte di dissidi.
Nel gennaio 1918 LIOYD GEORGE ebbe ad affermare che riconosceva
legittime le richieste di annettere all’Italia i territori ove
prevalentemente si parlava la madre lingua (le cosiddette “terre
redente”) mentre il presidente americano WILSON aveva tirato
fuori dal cilindro dello “zio Sam” i famosi “14 punti “. Egli
enunciò, con arroganza e parecchia improvvisazione, taluni
“principi” subito palesatisi in netto contrasto con le vedute
degli Alleati europei. Principi che, molto genericamente,
asserivano che le revisioni delle frontiere dovevano avvenire in
base a linee di “facile riconoscibilità di nazionalità”, che la
“libertà di navigazione” avrebbe dovuto escludere qualsivoglia
“predominio dei mari”, che i popoli avrebbero potuto fare
ricorso alla “autodeterminazione”, ecc. ecc.
Tutte cose teoricamente accettabili ma che, in quel momento
storico, erano praticamente irrealizzabili tenuto conto della
situazione di predominio politico, a livello mondiale, di
Inghilterra e Francia, oltre che delle complicate realtà
geopolitiche e socio culturali di parecchi dei popoli chiamati
in causa.
Particolarmente il punto “9” (“facile riconoscibilità della
nazionalità”) contrastava con quanto antecedentemente convenuto
in sede di stipula del “PATTO DI LONDRA” (fra Inghilterra,
Francia e Italia) che implicitamente riconosceva all’Italia
l’assegnazione dei territori di Trento, Bolzano, Trieste,
Istria, Fiume e Dalmazia, oltre che particolari vantaggi in Asia
Minore e nei territori coloniali tedeschi.
La “dottrina WILSON”, invece, faceva correre all’Italia il
rischio di pagare il costo di una eventuale pace separata con
l’Austria prima che le terre redente fossero effettivamente
liberate. Un fatto analogo era avvenuto nel 1859 con Napoleone
III.
Sostanzialmente, i “14 punti” di Wilson finirono col seminare
discordia fra gli Alleati e suscitarono la disapprovazione del
Consiglio Superiore di Difesa.
Sono a tutti note le disastrose conseguenze della disattenta e
poco lungimirante politica americana al tavolo della Pace di
Versailles
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Sul fronte italiano trascorsero alcuni mesi di quasi inattività
bellica e ciò indusse il Maresciallo FOCH, il 7 maggio del 1918,
ad invitare DIAZ, pur se parecchio impropriamente, a
“manifestare una chiara volontà offensiva”.
Anche fra le gerarchie militari e politiche italiane serpeggiava
il malcontento e molti giunsero a pensare che “il confronto fra
i nuovi capi militari e i vecchi era a vantaggio di questi
ultimi, fino a farne dimenticare gli errori”.
DIAZ rispose a FOCH che sarebbe “desiderabile” rimanere sulla
difensiva e che in ogni caso un attacco italiano avrebbe potuto
essere realizzato solo in concomitanza con una offensiva franco
inglese in Francia.
E’ da notare, per inciso, quanto il linguaggio di Diaz fosse
riconducibile al “pensiero”di Badoglio, oltre che all’innato
temperamento dilatorio di quest’ultimo.
Anche il Consiglio di Guerra, del quale faceva parte il Re e il
Presidente del Consiglio Orlando, s’era espresso per la
“difensiva” senza tenere conto di quanto tale atteggiamento
temporeggiante avrebbe potuto influire, successivamente, sulle
trattative post belliche.
I rapporti divennero ancora più tesi proprio nel momento in cui
(13 giugno) gli austriaci decisero di scatenare una nuova
offensiva, nel tentativo di oltrepassare il Piave per dilagare
nella pianura padana e costringere l’odiata Italia alla resa.
S’accese quella che verrà chiamata “la Battaglia del solstizio”
e che gli austriaci avevano denominato “piano RADETZKY”.
L’11 Armata austriaca (Gen. CONRAD) si mosse sull’altopiano di
Asiago e sul Grappa, contro la 6° e 4° armata, puntando su
Vicenza e Castelfranco nella speranza di riuscire a sfondare e
prendere alle spalle lo schieramento difensivo italiano sul
Piave.
La 10° Armata austriaca dell’Arciduca Giuseppe attaccò nella
zona del Tonale, pur se trattavasi, più che altro, di una azione
diversiva.
La 5° e 6° Armate del Maresciallo BOROEVIC sferrano, il 15
giugno, l’offensiva dal Montello al Mare contro l’8° - 9° e 3°
armate italiane.
Gli attacchi furono preceduti da un forte tiro d'artiglieria cui
gli italiani risposero, in taluni casi anticipandolo, con un
altrettanto duro fuoco di contro preparazione.
Alle ore 7 le fanterie mossero all’attacco ma solo in pochi
punti riuscirono a penetrare nelle linee italiane. I
contrattacchi italiani furono efficaci e chiusero ogni falla.
Particolarmente nella zona del Monte Grappa (tenuta dalla 4°
armata del Gen. GIARDINO subentrato a Nicolis di Robiland) la
lotta si fece accanita, con esito alterno e parecchi colli
passano più volte di mano.
Il saliente di MONFENERA fu teatro della strenua ed efficace
difesa italiana.
Sul Montello, invece, si corse il rischio di una profonda
penetrazione che avrebbe potuto portare all’accerchiamento di
alcune divisioni della 4° Armata.
Gli austriaci erano riusciti ad oltrepassare il Piave a PONTE
PRIULA e la stessa cosa era avvenuto più a sud a FAGARE’ e SAN
DONA’ DEL PIAVE, minacciando MONTEBELLUNA e TREVISO.
Fu l’ardimento e lo spirito combattivo di taluni singoli
reparti, guidati da coraggiosi Ufficiali subalterni, a riuscire
a spezzettare, con violenti contrattacchi, l’offensiva
austriaca, bloccandone di fatto lo slancio.
Quattro giorni di dura lotta, i tiri d’artiglieria concentrati
su ponti e passerelle, le mitragliatrici che continuano a
crivellare di colpi il nemico, fecero si che gli austriaci da
“cacciatori" divenissero "selvaggina”.
Il fiume in piena aiutò parecchio gli italiani creando notevoli
difficoltà nei punti ove si stava tentando l’attraversamento.
Il 20 giugno l’attacco s’esaurì e il 22 notte gli austriaci
dovettero riguadagnare disordinatamente la riva sinistra del
Piave.
I reparti di prima linea avevano “offerto” al Comando Supremo la
possibilità di avvalersi di un prezioso successo tattico ma
esso, impreparato e attendista, non fu in grado di sfruttarlo.
La visione strategica di DIAZ e BADOGLIO (GIARDINO, come detto,
aveva assunto il comando della 4° Armata), basata sul testardo
concetto della conservatrice tattica “difensiva”, fece perdere
un’occasione d’oro.
Non era stato predisposto, infatti, alcun piano mirato alla
eventualità di muoversi all’inseguimento del nemico, prima che
riuscisse a riorganizzarsi.
Una analoga inadempienza del Comando Supremo aveva imposto a
Capello, nel 1916 di fermarsi appena dopo Gorizia, quando
vittoriosamente aveva condotto il suo C.d.A. ad attestarsi al di
là dell’Isonzo.
Il comportamento degli gallonati di vertice dell’Alto Comando
risultò del tutto inspiegabile, pur tenendo conto del
temperamento caratteriale di chi sostanzialmente tirava le fila
delle decisioni finali da adottare, quasi imponendo la linea
operativa del non osare e quindi della rinuncia.
Era prevalso, ancora una volta, il pensiero del “non farsi
illusioni”, in gran parte basato sulla sopravalutazione delle
forze avversarie.
Questa linea di pensiero si protrasse sino ai primi di ottobre e
fece profilare il pericolo che gli Alleati giungessero alla pace
separata con l’Austria prima che si potessero riconquistare i
territori perduti un anno prima (Caporetto), oltretutto mettendo
a repentaglio l’ottenimento di quanto concordato in sede di
stipula del “Patto di Londra”.
Per più di venti anni queste considerazioni sono state tenute
nascoste agli Italiani e si è solo larvatamente accennato al
fatto che esse furono la principale causa delle difficoltà poi
insorte a Versailles, in danno dell'’Italia, al tavolo della
pace.
Il tutto creò le condizioni perché si diffondesse la convinzione
della “Vittoria mutilata”.
Il vittorioso esito della “battaglia di solstizio” fu, in
definitiva, opera più del valore delle divisioni di prima linea
che tennero il fronte e respinsero il nemico, che della capacità
decisionale del Comando Supremo.
Mancò a quest'ultimo, chiaramente, la capacità di valutare
prontamente le favorevoli circostanze determinatesi, oltre che
la volontà di adottare valide e coraggiose iniziative.
Gli austriaci accusarono la perdita di circa 125.000 uomini, tra
morti e feriti, oltre a 25.000 prigionieri.
Le perdite italiane ammontarono a circa 85.000 uomini.
La vittoria sul Piave influì anche sull’andamento dell’offensiva
tedesca in Francia.
Il Gen.le tedesco LUDENDORFF scrisse che “vedemmo allontanarsi
fra le brume del Piave quella vittoria che eravamo già certi di
cogliere sul fronte di Francia”.
*******************
Date da ricordare:
* Il 10 giugno RIZZO con il suo MAS affonda, a PREMUDA, la
corazzata austriaca “Santo Stefano”.
* Il 21 giugno, nel cielo del Montello, muore BARACCA mentre
mitraglia da bassa quota la fanteria austriaca attorno
all’Abbazia di NEVERSA. L’aviazione italiana aveva superbamente
conquistato il dominio dei cieli e fu di grande aiutò alle forze
di terra. A fronte di sole 9 perdite vennero abbattuti 107 aerei
avversari.
* Il 9 agosto sette aerei italiani volano su Vienna facendo
cadere una pioggia di manifestini. Il “raid” era stato
organizzato da Gabriele D’Annunzio che volle anche parteciparvi.
* Il 31 ottobre avviene il forzamento della base di POLA e viene
affondata, da ROSSETTI e PAOLUCCI, la corazzata “VIRIBUS UNITIS”.
VITTORIO VENETO
Dopo le polemiche fra FOCH e DIAZ e dopo la "battaglia del
solstizio", subentrò un ulteriore periodo di inattività.
Sembrava che il Comando Supremo fosse ancora bloccato dalla
psicosi di Caporetto (la non tanto recondita "ossessione" di
Badoglio) e si temeva il verificarsi di una nuova offensiva
austriaca.
Timore infondato e poco realistico.
L’Austria, infatti, era già ben consapevole di non avere più
energie sufficienti per continuare la guerra e, quindi, non
disponeva più della capacità di predisporre una ulteriore
offensiva.
Tuttavia, pur di non ammettere di essere stata battuta sul campo
dall’Italia, era disposta a tutto e sottobanco stava trattando,
attraverso la mediazione del Vaticano, per una pace separata,
mostrandosi addirittura disposta a cedere la sovranità sulle
"terre irredente" del Trentino Alto Adige e della Venezia
Giulia.
Frattanto la Russia di Lenin aveva reso pubblici gli accordi
segreti contenuti nel PATTO DI LONDRA e il fatto aveva
innervosito parecchio Thomas Woodrow Wilson - Presidente degli
Stati Uniti - (foto a destra) che dimostrava aperta avversione
per le già concordate rivendicazioni italiane sull’Istria, Fiume
e parte della Dalmazia, in particolare quella ex veneziana.
A tal proposito, andava dicendo che, a suo giudizio, “valeva più
un croato o uno sloveno che mille italiani”.
Il tracotante e ambiguo Presidente Wilson si permise di asserire
inoltre, per evidenti finalità elettoralistiche, che l’America
era scesa in guerra senza essere stata posta a conoscenza
dell’esistenza del Patto di Londra.
Cosa fieramente smentita dal Premier inglese David Lloyd George.
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Era necessario, a tal punto, fare uscire dal letargo le Armate
italiane e far comprendere al Comando Supremo di DIAZ e BADOGLIO
che non era più ammissibile ritardare ulteriormente l'azione
offensiva senza correre il rischio di perdere il treno della
Pace e senza compromettere il raggiungimento di quegli obiettivi
per cui erano già morti centinaia di migliaia di soldati.
Il Comando Supremo sosteneva, a sua discolpa, che una “massiccia
preparazione” non sarebbe sfuggita al nemico, specie in quei
settori in cui il “terreno non si prestava a risultati
apprezzabili” (sembra proprio il linguaggio di Badoglio), e
quindi era sconsigliabile una offensiva su vasta scala.
Era diffusa convinzione, oltretutto, che l’evolversi della
situazione politica internazionale non avrebbe imposto alcuna
azione offensiva prima della fine dell’anno.
Il settore più propizio per eventuali operazioni di tal natura
era il settore che dall’ansa del Piave scendeva sino al mare.
Sarebbe stato necessario però attraversare in forze il fiume per
puntare verso Feltre e cercare di porre in crisi la 11° Armata
austriaca che si trovava fra il Monte Grappa e l’altopiano di
Asiago.
Fra una proposta e l’altra e fra un diniego e l’altro, solo a
fine settembre si venne fuori da quell'incredibile stato di
assoluto immobilismo. Ove si fosse continuato a temporeggiare,
non era da escludere che la Pace avrebbe trovato l’Esercito
Italiano ancora arroccato sul Piave, sulla difensiva.
L’Italia rischiava, conseguentemente, di essere politicamente
declassata, fra i vincitori, ad un ruolo secondario.
Il Comando Supremo, da giugno in poi, aveva perso parecchio
tempo prezioso e ci si trovava ora, in ottobre, a fronteggiare
anche le avverse condizioni atmosferiche. Infatti, quando alfine
Orlando rompe gli indugi e ordina perentoriamente di passare
all’offensiva, controbattendo le forti resistenze dei Generali e
di qualche Ministro (NITTI), si dovette ancora ritardare
l’inizio delle operazioni dal 16 al 24 ottobre.
A Roma si pregava perché spuntasse il sole e si facevano voti
affinché, frattanto, non giungessero i plenipotenziari austriaci
a chiedere l’armistizio. L’Imperatore austriaco, volendo
umiliare l’Italia per non essere riuscita a conquistare sul
campo le terre irredente, s’era, come detto, rivolto al Papa
BENEDETTO XV affinché intercedesse per evitare l’attacco
italiano in cambio di consistenti cessioni territoriali. E'
pensabile che, ove tale richiesta fosse stata rivolta
direttamente al Governo Italiano piuttosto che al Papa,
parecchio probabilmente, pur andando incontro ad una ovvia e
poco giustificabile figuraccia, avrebbe ottenuto un positivo
riscontro.
In quel particolare scenario operativo le forze contrapposte
erano così composte:
* AUSTRIACI:
Un totale di sessanta divisioni così suddivise:
Gruppo TIROLO - BRENTA - Arciduca Giuseppe - 10° e 11° Armate
Gruppo BELLUNO - Maresciallo VON GOGLIA
Gruppo ISONZO - Maresciallo BOROEVIC - Armate 6° e 5°
Oltre a 3 Gruppi di riserva.
* ITALIANI :
7° Armata - Gen. TASSONI – zona Garda Stelvio - 4 Divisioni
1° Armata - Gen. PECORI GIRALDI – zona Astico – 5 Divisioni
6° Armata - Gen. MONTUORI – zona Brenta – 6 Divisioni
4° Armata - Gen. GIARDINO – zona Monte Grappa – 9 Divisioni
12°Armata - Gen. GRAZIANI – zona Tomba Cornuta – 4 divisioni
8° Armata - Gen. CAVIGLIA–zona Montello – Priula – 15 Divisioni
10°Armata - Gen. LORD CAVAN – zona Ponte Piave – 4 Divisioni
3° Armata - EMANUELE FILIBERTO DUCA D’AOSTA – 4 Divisioni
9° Armata - Gen. MANTONE (di riserva) - 6 Divisioni
Corpo di Cavalleria - V. E. Giovanni Maria di Savoia Aosta - 4
Divisioni
Il tutto per un totale di 61 Divisioni, quasi in parità con gli
avversari.
Quando finalmente ci si decise a passare all’azione, l’arduo
compito di portare l'’attacco sulla sponda est del Piave (zona
Priula) fu affidato alla 8° Armata del Gen.le Enrico Caviglia.
La piena del fiume, tuttavia, scompaginò non poco i ponti di
barche e mise in crisi i reparti, ma Caviglia, ricorrendo ad un
intelligente stratagemma e con inflessibile determinazione,
riuscì a fare passare ugualmente il suo XXV Corpo sui ponti
della vicina
10°Armata costituendo, così, la testa di ponte che gli
permetterà di avanzare e di puntare su SUSEGANA.
Il 26 e 27 ottobre anche la 60° Divisione passa il Piave a
SERNAGLIA.
Il 28 l’Imperatore Carlo d’Austria fa sapere a Wilson di essere
disposto ad accettare tutte le sue condizioni per un ormai
indifferibile armistizio ma continua, ostentando una
inconcepibile e sterile superbia, a non rivolgersi direttamente
agli italiani, affidando tale compito al Gen. WEBER.
Il 30 ottobre Caviglia raggiunge e occupa VITTORIO VENETO.
Il 31 ottobre gli Austriaci cedono anche sul Monte Grappa e le
truppe di Giardino possono così entrare di slancio a Feltre.
Nello stesso giorno Caviglia occupa Ponte delle Alpi, mentre la
delegazione austriaca si presenta ad Abano per l’ufficiale
inizio delle trattative.
Il 1° novembre Caviglia raggiunge Belluno e la 4° Armata di
Giardino risale la VALSUGANA tagliando la ritirata alle truppe
austriache dell’Altopiano di ASIAGO.
La 10° Armata, parimenti, occupa LIVENZA mentre la 4° Armata,
attraverso la Val di Non giunge a RIVA, a ROVERETO e alfine a
TRENTO.
Il 3 novembre vengono occupate BOLZANO, CEMBRA e PRIMIERO.
Lo stesso giorno i Bersaglieri sbarcano trionfalmente a TRIESTE.
Il 3/11/1918, alle ore 18, viene firmato l’armistizio di Villa
Giusti che entrerà in vigore alle 15 del 4 NOVEMBRE 1918.
Alle ore 12 dello stesso 4 novembre viene diramato il “BOLLETINO
DELLA VITTORIA” così formulato da Diaz:
…….. ” I RESTI DI QUELLO CHE FU UNO DEI PIU’ POTENTI ESERCITI
DEL MONDO RISALGONO IN DISORDINE E SENZA SPERANZA LE VALLI CHE
AVEVANO DISCESO CON ORGOGLIOSA SICUREZZA” …….
Il giorno 11 novembre anche la Germania si arrende e alle ore 11
il trombettiere francese SELLIER può scandire le note del
“CESSATE IL FUOCO”.
I soldati escono dalle trincee, s'abbracciano e, sul piano
umano, non sono pochi i casi di gioiosa e spontanea
fraternizzazione con i commilitoni nemici.
Il Gen.le tedesco Erich LUDENDORFF così scrive nelle sue
memorie:
- “ ….. nell’ottobre 1918, ancora una volta, sul fronte italiano
rintronò il colpo mortale. A Vittorio Veneto l’Austria non aveva
perduto una battaglia, ma aveva perduto la guerra e se stessa,
trascinando anche la Germania nella propria rovina …..”
--------------------
VERSAILLES
Il 18 gennaio 1919 viene convocata a Parigi la CONFERENZA della
PACE cui partecipano le caleidoscopiche rappresentanze di quasi
tutte le Nazioni del Mondo, anche di quelle che non avevano
partecipato a nessuna sorta di operazioni belliche.
L’Italia incontra, come prevedibile, non poche difficoltà nel
fare valere le proprie ragioni rispetto agli accordi stipulati
con FRANCIA, INGHILTERRA E RUSSIA in sede di stipula del PATTO
DI LONDRA.
Il comportamento sleale di Wilson mette a disagio la nostra
delegazione che abbandona il tavolo delle trattative.
Gli inglesi fanno sapere che se l’Italia non tornerà sui suoi
passi il trattato di Londra verrà dichiarato decaduto.
La Delegazione torna al tavolo delle trattative e firma ma,
impuntandosi sulla definizione dei confini orientali, non pone
attenzione sui risvolti economici del Trattato di Versailles,
non avanza alcuna concreta richiesta in materia di colonie e
rinuncia ad ogni pretesa in Asia Minore.
Nasce così “LA PACE MUTILATA”.
In definitiva l’Italia dovrà accontentarsi dei confini al
displuviale delle Alpi, dell’Alto Adige, dell’Istria e di Zara.
Fiume è “internazionalizzata” e la Dalmazia viene
“neutralizzata” .
Ci volle l’azione di forza di D’Annunzio, perché Fiume fosse
dichiarata italiana.
Il Trattato di Pace sarà rocambolescamente sottoscritto dalla
Germania il 28 maggio 1919 e solo il 10 settembre verrà
ratificato dall’Austria.
In merito alle funeste decisioni assunte a VERSAILLES, BENEDETTO
CROCE ebbe a scrivere:
- “… coloro che sedevano attorno al Tavolo della Pace erano
uomini che si abbandonarono alla corrente degli odi e delle
cupidigie sfrenate; … peggio che a Brest-Litowsk e a Bucarest,
quelli dell’INTESA, poi che la guerra fu vinta, invece di
levarsi a più alta sfera, ricambiarono i vinti col trattato di
Versailles: dove la coscienza umana fu dolorosamente offesa
dallo spettacolo dei vincitori che traevano al loro tribunale
anche l’eroico avversario, grondante di sangue di cento
battaglie e si ergevano sopra di lui giudici di moralità ed
esecutori di giustizia , e lo costringevano ad ammettere la sua
colpa, così colpevoli a loro volta, se pure di colpa si vuole
parlare, e non piuttosto, come a noi sembra, di un comune
errore, che chiedeva comune espiazione. La guerra mancò ad ogni
promessa”
23 maggio 2013 Augusto. Lucchese
ALTRE NOTIZIE E PARTICOLARI.
Il sistema difensivo del Monte GRAPPA era una sorta di fortezza
in caverna, un autentico capolavoro di ingegneria militare.
Ancora oggi, l’opera voluta da Cadorna prima dell’entrata in
guerra dell’Italia contro gli Imperi Centrali, visitandola,
lascia stupefatti per tanta bravura costruttiva, specie
considerando il tipico ambiente di alta montagna e l’epoca in
cui essa fu realizzata. Lo sviluppo della galleria principale,
spina dorsale delle fortificazioni, era di circa 1500 metri,
mentre lo sviluppo complessivo dei vari condotti collaterali,
principali e secondari, arrivava a tre volte tanto; ciò fornisce
l’idea di quanto fossero estese le varie diramazioni che, alla
fine, sfociavano in appostamenti per artiglierie, in piazzole
protette per mitragliatrici e in strategici posti di
osservazione.
Le batterie in caverna erano 23, di cui 6 di artiglierie da
“105”, 10 da “75” da campagna, 7 da “65” da montagna. Le
batterie esterne, dotate di cannoni da “75”, erano ubicate in
siti adiacenti. Una, da montagna, era appostata su un costone a
nord - est della Cima. Le batterie in tal maniera approntate
erano in totale 26.
Il sistema difensivo e operativo, ben funzionale e bene
attrezzato, si prestava inoltre, senza inficiare le opere e gli
apprestamenti preventivati, alla possibile predisposizione di
azioni offensive o controffensive mediante l’utilizzo dei vari
sottopassaggi in galleria che, ben dissimulati, sboccavano al di
là dei reticolati. Ciò premuniva le truppe d'attacco
dall’eventuale immediata reazione nemica. Attraverso gallerie o
cunicoli, i vari settori della fortezza erano altresì in
comunicazione con le difese esterne e con la circostante rete di
camminamenti in trincea.
Considerato che la sezione media delle gallerie era di due metri
di altezza per 1,50 di larghezza, si può ben apprezzare la
fatica per il lavoro di scavo e per l’indispensabile
rivestimento delle pareti.
Tenuto conto delle molte aperture e comunicazioni esterne, si ha
subito l’idea dell’importanza della difesa contro i gas,
ottenuta mediante accorgimenti mirati alla necessaria
ventilazione, specie quando la truppa era ammassata nella
fortezza in attesa di muoversi per azioni all'esterno.
Era stata predisposta la chiusura di tutte le aperture con
triplici tende antigas e la compartimentazione stagna
dell'interno; l'aria era fornita da ventilatori che
l'attingevano all'esterno e la filtravano prima di introdurla
nella galleria.
Per l’approvvigionamento, esistevano magazzini di viveri e di
munizioni scavati in roccia; per l'acqua, in particolare, vi era
un grande serbatoio di 110.000 litri che entrava in funzione in
caso di rottura delle condutture di normale distribuzione; un
altro più grande serbatoio era già in costruzione ma non pote’
essere ultimato prima dell’inizio delle ostilità.
BATTAGLIA DIFENSIVA del GIUGNO 1918.
Si dice che solo per accondiscendere alle pressioni del Generale
CONRAD (sostenitore della guerra sulle vette) e del Generale
BOROEVIC (sostenitore della guerra lungo le valli), il Capo di
Stato Maggiore dell'Esercito Austro Ungarico, Generale ARZ, dopo
l’insuccesso della prima battaglia del Piave, abbia deciso, il
15 giugno 1918, di lanciare una ulteriore offensiva contro
l'Esercito Italiano, sia sul PIAVE che sul GRAPPA. Egli così
presentò ai suoi collaboratori la decisione assunta: "mi
riprometto, in tal maniera, lo sfacelo militare dell'Italia".
Su parecchi elmetti austriaci apparve la scritta: 'NACH MAILAND'
(a Milano).
Gli attaccanti riuscirono ad infiltrarsi sui Colli Alti sul
versante ovest del massiccio del Grappa e sul Montello nella
zona del Piave, superando per un paio di chilometri le difese
attorno alla Chiesetta di San Giovanni.
L'attacco, tuttavia, si esaurì ben presto, non tanto per
mancanza di spirito combattivo degli Austro-Ungarici quanto per
la mancanza di adeguate riserve di uomini, di munizioni e
vettovaglie.
Nei primi mesi del 1918, infatti, a causa della carestia che
imperversava in gran parte dei territori sotto controllo
austriaco, il soldato dei reparti di prima linea aveva una
razione di cibo giornaliera di 280 grammi di farinacei e una
assegnazione settimanale di 200 grammi di carne.
Il soldato italiano di prima linea, invece, poteva contare
giornalmente su 750 grammi di pane e 250 grammi di altri
alimenti, fra cui la carne. Ciò era dovuto al fatto che gli
aiuti Americani cominciavano a giungere regolarmente anche sul
fronte italiano.
Il Generale ARZ, altresì, commise l'errore di frazionare lo
sforzo bellico su due obiettivi diversi, il PIAVE e il GRAPPA,
indebolendo, così, la spinta offensiva delle truppe.
Il 24 giugno gli Austro Ungarici dovettero ripiegare sulla
sponda sinistra del Piave.
Il grande Maresciallo Paul von HINDENBURG (Capo dell'Esercito
Tedesco) commentò incisivamente l’accaduto: "….. il disastro del
nostro alleato è la maggiore delle disgrazie anche per noi; …..
da questo momento la Monarchia Danubiana cessa d'essere un
pericolo per l'Italia".
A seguito della “battaglia del solstizio”, lo scenario politico
e militare cambiò ma solo a settembre, come già detto, si
profilò l’idea di un attacco offensivo italiano.
S’iniziavano già ad avvertire precisi segnali dell’imminente
crollo dell’Impero austro- ungarico, sia per effetto dell’azione
dei movimenti nazionalisti e sia per il peso della fame e della
miseria prodotti da quasi cinque anni di guerra.
Tuttavia, per le forti divergenze politiche e militari, il
Governo non riusciva ancora a concordare con il Comando Supremo
una data certa per l’inizio dell'attacco.
Solo nell’ottobre - novembre 1918, alfine, si mosse la macchina
bellica che da lì a qualche settimana, avrebbe dato la spallata
finale, con la vittoriosa offensiva di Vittorio Veneto, alla già
critica situazione interna dell’Impero Austro-Ungarico
determinandone il definitivo crollo. Se tale decisione fosse
stata assunta nel giugno dopo il fallimento dell'ultima
offensiva austro-ungarica di cui sopra, il peso italiano sulle
future trattative di pace di Versailles sarebbe stato
sicuramente ben diverso.
La TERZA BATTAGLIA del PIAVE (o di VITTORIO VENETO che dir si
voglia) iniziò il 24 ottobre e l’offensiva fu portata avanti per
circa sei giorni, assumendo subito le caratteristiche di una
vera e propria travolgente manovra.
Sul Grappa, il Generale GIARDINO dovette in brevissimo tempo
cambiare la disposizione della sua 4° Armata da difensiva ad
offensiva. Fu un'operazione difficilissima in quell’ambiente
montagnoso (il tragico esempio di Caporetto era ancora ben
presente), specie perché, in quel periodo dell'anno, sul Grappa
era ormai inverno.
Lo sforzo delle sue valorose divisioni fu sostanziale dal punto
di vista tattico e strategico pur se dovettero battersi contro
le ancor solide forze austriache che si difesero vigorosamente
fino al successo della manovra della VIII Armata di Caviglia e
della III Armata di Emanuele Filiberto Duca d’Aosta.
L'ARMATA del GRAPPA ancora una volta lottò strenuamente e
combatté impavidamente ma il complessivo contributo fu parecchio
pesante:
• tra il 24 ottobre e il 4 novembre furono uccisi, feriti e
dispersi ben 824 UFFICIALI e 23.859 SOLDATI;
• i quattro BATTAGLIONI del raggruppamento ALPINI ebbero fuori
combattimento, in 4 giorni, più di 3.000 uomini;
• una proporzione che non era mai stata raggiunta, nemmeno nel
corso della disfatta di Caporetto;
• questi dati dimostrano la dura lotta svoltasi nel settore del
Monte GRAPPA che da allora, a buon diritto, potrà fregiarsi
della definizione di “SACRA MONTAGNA D’ITALIA”.
Le esaltanti parole del testo della “Canzone del Grappa” sono la
misura del sentimento che lega gli italiani ai luoghi in cui,
nella fase cruciale, si consumò l’epopea delle sanguinose
battaglie, pur se vittoriose, del giugno e dell'’ottobre del
1918:
Montegrappa, tu sei la mia Patria,
Sovra te il nostro sole risplende,
a te mira chi spera ed attende
I fratelli che a guardia vi stan.
Contro a te già s'infranse il nemico
Che all'Italia tendeva lo sguardo
Non si passa un cotal baluardo
Affidato ad italici cuor
Monte Grappa, tu sei la mia patria
Sei la stella che addita il cammino
Sei la gloria, il volere, il destino
Che all'Italia ci fa ritornar.
Le tue cime fur sempre vietate
Per il piede dell'odiato straniero
Dei tuoi fianchi egli ignora il sentiero
Che pugnando più volte tentò
Quanta candida neve che al verno
Ti ricopre di splendido ammanto
Tu sei puro ed invitto col vanto
Che il nemico non lasci passa’
Monte Grappa, tu sei la mia patria
Sei la stella che addita il cammino
Sei la gloria, il volere, il destino
Che all'Italia ci fa ritornar
O montagna, per noi tu sei sacra
Giù di lì scenderanno le schiere
Che irrompenti, a spiegate bandiere
L'invasore dovranno scacciar
Ed i giorni del nostro servaggio
Che scontammo mordendo nel freno
In un forte avvenire sereno
Noi ben presto vedremo mutar
Monte Grappa, tu sei la mia patria
Sei la stella che addita il cammino
Sei la gloria, il volere, il destino
Che all'Italia ci fa ritornar.
In conclusione, appare quanto mai opportuno riportare ciò che,
in merito, ha lasciato scritto, nelle sue “memorie”, il Generale
GIARDINO :
" …. il paragone sarebbe che le 9 Divisioni Italiane del Grappa
hanno perduto, in media, 2712 uomini (ufficiali e truppa)
ciascuna, mentre le 22 Divisioni Italiane ed alleate sul Piave
hanno perduto, in media, 560 (Ufficiali e truppa) ciascuna." ….
"Più importante è che le cifre documentino come quella riscossa,
che si volle presentare come “riscossa interalleata”, sia stata
pagata col sangue di 1374 Ufficiali Italiani in confronto di 91
Ufficiali alleati, e col sangue di 35.124 uomini di truppa
italiani in confronto di 2337 uomini di truppa alleati: e cioè
con il 93,8 per cento di ufficiali italiani e con il 93,3 per
cento di truppa italiana".
Qualcuno ha giustamente posto in evidenza che, anche in quella
fase in cui le prospettive erano del tutto favorevoli alle armi
italiane, si verificarono incertezze, inspiegabili ritardi
nell’avvio dell’offensiva, attriti fra potere politico e comando
militare. Si sa che dovette intervenire personalmente il
Presidente del Consiglio, Vitt. Emanuele Orlando, per imporre al
Comando di Diaz e Badoglio di dare immediatamente inizio alle
operazioni. In maniera risoluta intimò: - “ove non provvediate
con immediatezza, sarò io stesso a dare l’ordine di attaccare”.
L’ingiustificato e dannoso attendismo del Comando Superiore
(francesi e inglesi premevano per l’attacco), era da attribuire,
molto probabilmente, al consueto sistema tergiversante e
attendista di concezione e marca badogliana.
Raggiunto il fatidico 4 novembre (giorno della vittoria) e poste
a tacere, almeno per il momento, le accuse riguardanti il suo
comportamento a Caporetto, Badoglio, a fronte delle recenti
approntate “benemerenze”, ottiene una ulteriore promozione.
E non tanto stranamente è proprio lui a ricevere l’incarico di
sottoscrivere, a Villa Giusti, l’armistizio con l’Austria.
Come mai a tale prestigiosa incombenza non fu chiamato il Gen.le
Diaz, suo superiore e Capo di Stato Maggiore?
In virtù della posizione di vertice di quest’ultimo e a
prescindere da ogni altra personale considerazione, sarebbe
spettato più a lui che a Badoglio rappresentare l’Italia alla
stipula dei documenti armistiziali.
Chissà se Diaz fu preventivamente consultato in proposito.
Sulla decisione politica di demandare a Badoglio tale storica
incombenza, avrà influito, probabilmente, la notoria pur se
nebulosa e per taluni versi “misteriosa” sua posizione di
“beniamino” e “longa manus” della Monarchia?
Il solito oscuro e pasticciato modo di fare all’italiana.
24 maggio 2016
A. Lucchese
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