* Home

* Scrivi

I fatti di Bronte,
una indelebile macchia nella storia d’Italia.



 

     Rivisitare in chiave esaustiva, pur se critica, determinati periodi della storia contemporanea, specie quelli attinenti l’unificazione dell’Italia sotto l’infausta monarchia sabauda, non può che fare bene alla coscienza del popolo, in generale, e delle giovani generazioni che stanno oggi avviandosi verso una difficile crescita, in particolare.

     Fra i tanti avvenimenti che, da un secolo e mezzo circa a questa parte, hanno segnato l’evolversi del quadro politico nazionale e istituzionale, non dovrebbero essere dimenticati i tragici “fatti di Bronte”.

     La risaputa tragedia accadde nell'agosto del 1860, l'anno in cui la Sicilia, mediante uno strumentale quanto controverso “plebiscito”, fu annessa (21 ottobre 1860) al Regno Sardo Piemontese di Vittorio Emanuele II e di Cavour.

     Non sarebbe male indagare, almeno in maniera virtuale, sul come venne indetta e condotta la citata convocazione popolare che, alla luce dei fatti e in contrasto con ogni principio democratico, rappresentò un vero e proprio imbroglio elettorale. A prescindere dalla validità o meno dell’atto di annessione (che forse ancora oggi potrebbe essere oggetto di un pertinente riesame presso la Corte di giustizia internazionale per chiederne l’annullamento), sta di fatto che mai e poi mai può essere denominato “plebiscito” quella strana votazione cui furono ammessi solo gli “appartenenti alle classi nobiliari”, i “possessori di un titolo di studio superiore” e gli “agiati borghesi titolari di adeguati censi”, cioè meno del 20% della popolazione isolana di allora.

     E’ ampiamente dimostrato, in ogni caso, che, dopo la sceneggiata dell’annessione della Sicilia al nascente Regno d’Italia, i governanti sabaudi ben poco fecero per venire incontro alle necessità della popolazione isolana al fine di colmare il divario economico, sociale e strutturale esistente nei confronti di altre regioni.

     Amareggia parecchio  la constatazione che fra la classe dirigente dell’epoca e del periodo immediatamente successivo, sono da annoverare parecchi siciliani: Francesco Crispi, Vittorio Emanuele Orlando, Antonino Paternò Castello Marchese di Sangiuliano, Antonio Starabba Di Rudinì, ecc., tre dei quali, Crispi, Orlando e Di Rudinì, ricopersero, in tempi diversi, addirittura l’incarico di “Capo del Governo”.

    L’avventura garibaldina in Sicilia, a parte ogni considerazione,  dovrebbe essere collocata in una particolare luce storica che certo non è quella attribuitale dai libri di testo. 

    Giuseppe Tomasi di Lampedusa, nel suo impareggiabile “Il Gattopardo”, ha lasciato scritto chegaribaldini erano per chi voleva esaltarli e garibaldesi  per chi li vituperava”!

     Il 14 maggio 1860, Garibaldi emanò il noto “proclama di Salemi”, mediante il quale rese noto, parecchio spavaldamente, di assumere la “Dittatura” dell’Isola in nome di Vittorio Emanuele II, fornendo così la dimostrazione che non era venuto in Sicilia per liberarla dai Borboni (che, alla fine, risulteranno meno oppressivi dei proconsoli di Casa Savoia), bensì per portare a compimento il prestabilito progetto di annessione del sud Italia alla monarchia piemontese, secondo i piani elaborati da Cavour. Quest’ultimo, peraltro, aveva candidamente dichiarato “…non solo di aver fino allora creduto che in Sicilia si parlasse arabo ma che di quest’isola ben poco conosceva, essendogli invece più familiare la storia dell’Inghilterra…”. 

      Come dire che, “ignorando” la millenaria storia della Sicilia, non era affatto in grado di comprendere la realtà isolana e non poteva avere contezza di quali indispensabili interventi sociali fossero necessari e urgenti per lenire le sofferenze di un popolo oppresso e maltrattato. Anzi, nel predisporre gli atti per l’estensione delle normative giuridiche e amministrative piemontesi ai nuovi territori annessi, impartì drastiche disposizioni e avallò l’operato dei vari “despoti” militari e civili subentrati al potere borbonico. Fu un susseguirsi di soprusi, di di nuove gravose tasse (in gran parte destinate a risanare le finanze dello Stato sabaudo), di sfruttamento delle risorse isolane.

     E’ bene ricordare, per inciso, che Casa Savoia era già stata responsabile della sottrazione alla Sicilia delle ingenti somme di denaro versate al Duca Vittorio Amedeo II a fronte dell’impegno di fare dell’Isola un Regno indipendente, per come stabilito dal trattato di Utrecht del 1713. L’impegno non fu rispettato e la Sicilia, slealmente barattata con la Sardegna, fu consegnata agli Austriaci, vanificando l’aspirazione dell’ingenuo popolo isolano. E’ quasi superfluo aggiungere che i “mercenari” di Casa Savoia del maltolto non restituiranno alla Sicilia neppure un arrugginito “tarì”.

     Tutto ciò, come già detto, è impossibile leggerlo nei testi scolastici o in molte “rinomate” enciclopedie, così come è del tutto improbabile trovare un qualsivoglia riferimento ai lati oscuri dell’avventura garibaldina in Sicilia.

     E’ ben facile trovare, viceversa, esaltanti descrizioni della cosiddetta “spedizione dei Mille”, descrizioni che spudoratamente assegnano a Garibaldi la “gloria” (“l’Eroe dei due Mondi”), il “coraggio” (“qui si fa l’Italia o si muore”), lo “spirito patriottico” dell' incontro di Teano (“Maestà, consegno a Voi il Sud liberato”).

     Non sarebbe male, una volta per tutte, trovare il coraggio di fare emergere la verità storica evitando che si continui ancora ad insegnare alle nuove generazioni tante distorte nozioni, tante errate valutazioni degli avvenimenti e tante non veritiere informazioni su taluni controversi personaggi dell’epoca “risorgimentale”.

     Concludendo questo breve antefatto è opportuno evidenziare che Garibaldi fu parecchio agevolato, nella conduzione della sua fortunosa “spedizione”, dalle congrue assegnazioni finanziarie predisposte da Cavour (circa 8/milioni, in ducati d’oro e titoli bancari) che servirono, in parte, per “corrompere” i più diretti responsabili militari borbonici, fra cui il Gen.le Landi (comandante del settore occidentale della Sicilia) e il Gen.le Lanza, Luogotenente del Re, poi processato e condannato per il reato di alto tradimento.

     Non è da dimenticare, inoltre, l’appoggio che Garibaldi ricevette dall’Inghilterra mediante il sistematico schieramento delle sue navi da guerra a Marsala (durante lo sbarco), a Palermo (nei giorni dell’ignominiosa resa borbonica), a Milazzo (durante la strenua difesa borbonica di quella piazzaforte), a Messina (nel corso del traghettamento in Calabria), con l’evidente scopo di tenere a bada le numerose unità della flotta napoletana che, se intenzionate a farlo, avrebbero potuto validamente contrastare i movimenti delle camicie rosse garibaldine.

     Non va neppure trascurato il consistente apporto dei “picciotti” siciliani, pur se parecchi di essi erano “assoldati” dai ricchi possidenti terrieri che spalleggiavano Garibaldi e di altri ancora che facevano parte delle “bande” di alcuni notori “fuori legge” del trapanese e dell’entroterra palermitano.

     E che dire, infine, della sistematica e forzosa appropriazione (presentata come “confisca”) delle risorse di denaro e titoli bancari dei vari comuni “liberati”, oltre che delle consistenti disponibilità liquide di parecchi istituti di credito, fra cui il Banco di Sicilia di Palermo ?

     Per riprendere il discorso sui “fatti di Bronte”, va subito evidenziato l’antefatto del decreto del 2 giugno 1860, emanato da Garibaldi, con cui era stata promessa la “libertà” e s’era fatta intravedere ai contadini la certezza di avere assegnate le vaste aree terriere del demanio statale e dei “feudi”. Di tale insincera promessa si trova ampia conferma anche nei successivi “proclami”.

     L’annoso problema, in particolare, riguardava la zona di Bronte, nel cui territorio ricadevano diversi grandi feudi che a lungo erano stati dominio dell’Abate di Maniace (località ricadente fra Bronte e Maletto) e che poi erano passati in dotazione all’Ospedale Grande di Palermo.

     Nel 1799 Ferdinando IV concesse i vasti feudi di Maniace (compresi i fabbricati della borgata e la stessa Abbazia) all’ammiraglio inglese Orazio Nelson quale segno di riconoscenza per l’aiuto fornitogli quando era stato costretto ad abbandonare Napoli sotto l’incalzare delle truppe napoleoniche, trovando asilo in Sicilia. In tale frangente l’ammiraglio (poi macchiatosi della grave colpa di avere fatto impiccare sul pennone della Nave “Minerva” il malcapitato Francesco Caracciolo, comandante della flotta napoletana) ospitò i reali sulla sua nave ammiraglia (la “Vanguard”) e li condusse a Palermo, nel bel mezzo di un periglioso fortunale che imperversava sul Tirreno.

     Nacque e prese corpo, in tal modo, la famosa “Ducea di Nelson”, un vero e proprio “possedimento inglese” installato nel cuore della Sicilia e che, solo di recente, dopo circa due secoli di burrascose e controverse vicissitudini, è stato possibile smantellare del tutto.

     Trascorsa la cruenta stagione del fallito tentativo insurrezionale del 1848-49, erano frattanto sorti in Bronte due schieramenti che, nel tempo, si contrastarono a vicenda, con tenacia, determinando profonde discordie fra gli abitanti. L’uno (i cosiddetti “comunisti” o “comunili”) difendeva i diritti del Comune, l’altro (i “ducali”) perorava, invece, gli interessi del pingue casato dei Nelson.

     Tuttavia, il vero problema sociale di Bronte era costituito dalla numerosissima “sotto classe” dei braccianti agricoli (uomini, donne e ragazzi in età adolescenziale) destinati a vivere nella più squallida miseria pur non essendo esentati dal versare gravosi e iniqui balzelli (fra cui le famose “decime”) all’amministrazione pubblica, ai feudatari e ai loro scagnozzi esattori.  Essi, solo apparentemente annoverabili fra i normali esseri umani, erano costretti a vivere cibandosi di pane nero e raffermo, di acqua di cisterna, di spontanee radici e verdure. Le loro insalubri abitazioni erano parecchio simili agli antri dell’uomo delle caverne e dovevano accontentarsi di misere ricompense “in natura” o di poche decine di “monete di rame”. Le “giornate lavorative” (“..a iurnata”, da dove deriva la definizione di “iurnataru”)  erano peraltro discontinue rispetto alle stagioni e a mala pena sfioravano i cento giorni effettivi.

     Le magniloquenti e ambigue promesse del “dittatore” Garibaldi non si erano per nulla avverate e i contadini e i braccianti seguitavano a vivere in maniera grama e stentata. Nel periodo della semina (ottobre – novembre) e durante i periodi di zappatura (febbraio – marzo) lavoravano duramente in mezzo alle intemperie stagionali mentre poi, nel momento cruciale della mietitura (giugno – luglio), portavano avanti la loro massacrante fatica sotto il sole bruciante.

     Era quindi più che spiegabile il fatto che, alla fine, fossero oltremodo esasperati. Fu così che il 2 di agosto il malcontento raggiunse il culmine e si manifestarono le prime ribellioni ad opera dei “comunili”, di ispirazione socialista, che avevano come personaggio di riferimento l’Avv. Nicolò Lombardo. Si verificarono i primi violenti tafferugli nel corso dei quali vennero incendiati parecchi edifici pubblici fra cui il Teatro e l’Archivio comunale. Si dovettero registrare sedici vittime fra civili, militari e notabili del luogo.

      Solo a tarda sera la folla accennò a placarsi ma lo spirito di rivolta non si spense e la forte tensione si protrasse anche nei giorni successivi. La sommossa popolare di Bronte faceva peraltro eco ai tumulti antigaribaldini che, tra giugno e luglio del 1860, avevano fortemente interessato le zone di Nicosia, Mistretta, Cerami, Regalbuto, Biancavilla, Centuripe, Randazzo, Maletto e in atri piccoli centri del centro Sicilia e del circondario dell’Etna.  Era la naturale e istintiva protesta del “popolo dei reietti”, delusi dai suggestivi ma falsi proclami garibaldini. In cambio della libertà e della promessa assegnazione delle terre, la misera e tartassata “plebe” del diffuso bracciantato contadino, dei piccoli artigiani di paese, dei molti derelitti addetti ai lavori più infimi, avevano visto accentuarsi, invece, la miseria, l’imposizione di ulteriori sacrifici e tasse, le sofferenze e i lutti per le imperversanti malattie.

      La misura era colma, la delusione e l’amarezza traboccavano dai loro animi, nessuno più osava avanzare speranze riguardo ai nuovi “invasori”, mentre la rabbia montava a fronte dei patimenti e della fame. Ovunque s’innalzava la protesta al grido di: “abbassu li cappeddi”, “vulimu li terri” !

      Il contestato “eroe dei due Mondi”, Garibaldi, dopo la forzata sosta in quel di Milazzo (ove aveva subito l’accanita reazione difensiva della guarnigione di quella piazzaforte, comandata dal Col. Beneventano del Bosco), era da pochi giorni giunto a Messina quando gli pervenne notizia di ciò che stava accadendo a Bronte.

      Ad informarlo era stato il ligio console inglese di Palermo il quale, parecchio preoccupato per le possibili azioni rivoltose che avrebbero potuto coinvolgere anche la “Ducea di Nelson”, invitava Garibaldi a provvedere urgentemente all’invio di una forza militare sufficiente a difenderla, arrestando e condannando i “facinorosi”. Quasi pretendendo per la “Ducea” un vero e proprio diritto di “extraterritorialità”. Tale pretesa era del resto chiaramente convalidata dal fatto che in essa (in pieno territorio siciliano) sventolava, da sempre e liberamente, la bandiera inglese. Analoga forte sollecitazione giunse reiteratamente e con alterigia anche dal console di Catania.   

      Garibaldi, sprezzantemente, scelse la più facile fra le possibili soluzioni, quella legata all’uso della forza bruta. In funzione di tale decisione ordinò a Bixio, in quel momento di stanza a Giardini, di partire alla volta di Bronte e di agire con durezza nei confronti dei rivoltosi.  Finì per assecondare le mire di stampo colonialista di quella stirpe inglese risaputamente avvezza alle usurpazioni, alle malversazioni, agli eccidi, oltre che alla legittimazione della pirateria. Decise, alla stregua di un servile giustiziere, di punire il popolo in rivolta che, tutto sommato, non chiedeva altro che di uscire dal tunnel della fame, della miseria e delle privazioni.

      Per riportare l'ordine Nino Bixio giunse a Bronte alla testa di un battaglione di camicie rosse. E’ ormai assodato, attraverso l’esame della documentazione dell’epoca, che Garibaldi non inviò Bixio a Bronte solo per ripristinare una certa qual forma di ordine pubblico ma, al di fuori di ogni altra razionale considerazione, fu mosso dalla esigenza di proteggere gli interessi dell’Inghilterra verso la quale si sentiva fortemente obbligato per avere favorito l’occupazione dell’Isola, oltre che con le navi da guerra pronte a sparare sui borbonici, anche con il generoso sostegno finanziario elargito in moneta sonante e in oro. Come si chiama chi per denaro si presta a scopi che poco hanno in comune con la dignità e la morale?

      Sarebbe prolisso, in questa sede, affrontare la dettagliata ricostruzione di ciò che avvenne in Bronte quando Bixio adottò le spietate “ordinanze” che portarono all’arresto di centinaia di persone fra cui, oltre ai presunti capi della sommossa, molti inermi e incolpevoli “servi della gleba” come, ad esempio, un povero demente tamburino, tale Ciraldo Fraiunco.

      Il tribunale (impropriamente definito “di guerra”) celebrò il processo in poche ore ed emise, nella serata del 9 agosto, l’inappellabile sentenza che condannava a morte, pur in assenza di provate colpevolezze, Nicolò Lombardo, Spitaleri Nunzio Nunno, Samperi Nunzio fu Spiridione, Longhitano Nunzio Longi, Nunzio Ciraldo Fraiunco. Il fatto più ignobile fu quello che la delittuosa sentenza di morte fu emessa “in nome di Vittorio Emanuele II re d’Italia”.

      Va sottolineato, altresì, che, senza alcun rispetto per la dignità e la personalità dell’imputato, l'eroico patriota avvocato Nicolò Lombardo era stato accusato (personalmente da Bixio, nel suo luogo di comando installato presso il “Collegio Capizzi”) di essere “presidente della canaglia di Bronte”.

      A questo punto è d’uopo formulare una riflessione. Come mai, oggi, commemorando annualmente le vittime delle Fosse Ardeatine o di altre “stragi”, si ritiene doveroso porre in risalto lo sdegno e la condanna per i colpevoli dell’inumana tragedia, nessuno dei governanti dell’Italia monarchica e post monarchica ha mai pensato di additare al medesimo sdegno i colpevoli dell’eccidio di Bronte ?

     Solo pochi sanno e ricordano che esso fu perpetrato, con l’assenso del “dittatore nizzardo”, da un “improvvisato” generale succube della follia omicida che contraddistingue le persone prive di umanità e dei freni inibitori della coscienza.

     Furono condannati dei civili che, tuttavia, non erano ancora sudditi di quel Re piemontese che per pura ambizione dinastica aspirava a divenire Re di una Italia unificata ma che, di contro, non riusciva ad impedire che si ammazzassero in suo nome uomini inermi e indifesi.

     L’indomani all’alba, senza neppure consentire ai parenti di avvicinare le incolpevoli vittime predestinate, la sentenza venne brutalmente eseguita in contrada “Piano San Vito” mediante fucilazione. Bixio, in sella al suo cavallo, impassibile, osservò la scena. 

     Mediante l’uso spregiudicato della violenza, in ciò assecondato dalle condanne a morte decretate da un improvvisato e asservito “tribunale di guerra” (che non aveva tenuto in nessun conto le arringhe della difesa), riteneva di avere vinto la “sua” battaglia ma non immaginava che i posteri lo avrebbero inappellabilmente condannato all’infamia. La storia ha ampiamente evidenziato che, nell'ambito della sciagurata vicenda dei “fatti di Bronte”, il garibaldino Bixio (pur se a suo nome sono tuttora intitolate piazze e strade, di cui una proprio a Bronte) agì da autentico sicario e dimostrò di essere incapace di provare qualsivoglia senso di pietà per i condannati. Si dice che abbia vieppiù manifestato tale perversa tendenza quando ordinò al comandante del plotone di esecuzione di sparare a bruciapelo al povero matto Nunzio Ciraldo Fraiunco miracolosamente sfuggito alle pallottole della prima scarica. Vane furono le grida del poveretto che aveva implorato “…grazia, grazia, la Madonna mi ha fatto la grazia, fatemela voi, grazia, grazia”.  Sembra che Bixio, insensibile a quel grido di dolore, fosse stato inflessibile e la morte, mediante un colpo alla nuca, colse quell’infelice menomato cui poteva essere attribuita solo la colpa di avere portato in giro per Bronte un tamburo di latta, gridando Viva la libertà.

10 maggio 2008                                                             Augusto Lucchese

 

    Ass. Socio-Cult. «ETHOS -