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STATI UNITI -

Velleità da “Dominium Mundi” ?


Volendo tracciare un pur sintetico quadro riguardante l’origine storica della odierna Federazione degli STATI UNITI d’AMERICA (United States of America - USA), non si può non prendere il via dalla fatidica data del 4 luglio 1776 in cui i delegati di tredici colonie cosiddette “ribelli” rispetto all’oppressivo dominio inglese, ebbero a stilare, approvandola ad unanimità, la “DICHIARAZIONE DI INDIPENDENZA”.
Fu, in quel momento, un chiaro atto di sfida nei riguardi dell’esecrabile Impero Britannico, stante che, per la nuova realtà sociale ed economica venutasi a creare in quella parte del nuovo Mondo, si poneva sul tappeto l’occorrenza di porre definitivamente fine al perdurante drastico e tracotante sistema di governo coloniale che, da oltre un secolo, taglieggiava e attanagliava i vasti e ricchi territori d’oltre Atlantico.
Territori di cui, peraltro, l’Inghilterra s’era impadronita (1606) in maniera alquanto anomala, sfruttando l’iniziativa della “London Company” - una compagnia commerciale,  della “Virginia Company” - la quale, supportata dal benestare  concesso da Re Giacomo 1° d’Inghilterra, si prefiggeva lo scopo di creare nuovi insediamenti nel nuovo continente, attribuendone poi la sovranità alla corona inglese.

In quel periodo ebbe a compiersi anche l’avventuroso viaggio della Mayflower (immagine a destra), la nave con la quale qualche centinaio di religiosi staccatisi dalla Chiesa Anglicana e già emigrati, per sfuggire alle persecuzioni, nei più tolleranti Paesi Bassi, avevano deciso di abbandonare l’insicura e ostile Europa.
Il 16 settembre 1620 salparono alla volta del Continente americano e raggiunsero la meta circa due mesi dopo, il 19 novembre, sbarcando a Capo Cod, località delimitante una penisola sulla riviera dello Stato del Massachusetts, a sud est di Boston, ove fondarono la “colonia” di Provincetown.
Poi, mediante un accordo stipulato  con i  residenti  già ivi allocati, il cosiddetto “Patto del Mayflower”, si assicurarono il governo della zona.
Vi fu anche l’arrivo di una seconda Mayflower con a bordo un altro consistente gruppo di religiosi, sbarcati l'11 dicembre 1620, sempre sulla costa del Massachusetts, ove diedero vita alla Colonia di Plymouth, poi ufficialmente riconosciuta nel giugno 1621.
In quegli anni di penetrazione territoriale verso ovest, di notevole sviluppo economico, di integrazione razziale, nacquero e fiorirono molti grandi agglomerati abitativi da cui trassero origine, poi, parecchie delle odierne “megalopoli” statunitensi, oggi ben note per i loro spettacolari scenari di grattacieli, di funzionali e spaziose “street”, di futuristiche sopralevate, di monumentali edifici del potere, di quartieri e zone votate alla grande industria e agli studi di sviluppo tecnico-scientifico, di “templi” dedicati allo scibile umano essenzialmente orientato verso una sorta di proiezione americana dell'illuminismo europeo di Voltaire, Rousseau, Montesquieu.
La citata solidale “dichiarazione di indipendenza” prese le mosse dalle insanabili divergenze e dai contrasti insorti con gli inglesi oppressori e occupanti, contrasti e divergenze che avevano innescato l’avvio della “guerra di liberazione”, di fatto intrapresa dagli Stati ribelli il 19 aprile 1775 e protrattasi, con alterne vicende, sino al 3 settembre 1783.
Lexington, Concord, Bunker Hill, Great Bridge, Ticonderoga, Creek Bridge, Boston, Long Island, New York, Trenton, Filadelfia, Saratoga, Charleston, Kings Mountain, Eutaw Springs, Yorktown, sono i nomi delle località in cui si svolsero i più accaniti combattimenti, con vittorie e sconfitte ottenute da ambo le parti, pur se con pesanti perdite umane.
La guerra, alla base del suo cruento evolversi, aveva profonde e oggettive motivazioni, prima fra tutte quella conseguente al fatto che gli Stati ribelli non intravedevano alcuna speranza di sviluppo e progresso ove fossero rimasti sottomessi, amministrativamente e politicamente, alla soffocante egemonia inglese.
Fra la folta schiera dei capi e animatori della rivolta, specie nel settore riguardante l’approntamento, l’organizzazione e la conduzione delle forze occorrenti per la guerra, ebbero particolare rilievo Benjamin Franklin, George Washington, Charles Lee, Beniamin Lincoln, Henry Knox, Marchese di La Fayette, Joseph de Grasse (entrambi francesi), Horatio Gates, sostenuti dai molti patrioti e comandanti locali che, pur non disponendo né di superiorità numerica addestrativa né di armamenti idonei e sufficienti, affrontarono e spesso subirono gli aspri combattimenti.

Già nel 1765 s’era verificata una delle prime “sommosse” quando il governo inglese aveva deliberato di applicare, anche nelle colonie, la “Stamp Act”, una sorta di “marca da bollo”, in base alla quale ogni documento commerciale o amministrativo, gli atti legali e financo le pubblicazioni, dovevano sottostare al pagamento di un tassa proporzionale al valore del documento mediante una affrancatura dimostrativa del versamento.
S’era altresì verificato, il 16 dicembre 1773, l’incidente passato alla storia come “Boston Tea Party”, quando i ribelli assalirono le navi della Compagnia Britannica delle Indie che deteneva il monopolio della vendita del Tè in tutta l’America, le depredarono e buttarono a mare il loro prezioso carico.
Il reiterato verificarsi di piccoli o rilevanti scontri locali, anche fra ribelli e lealisti, aveva ingenerato ovunque, in definitiva, la forte tensione presto degenerata in aperto conflitto.
E’ bene ricordare, a tal proposito, che l’Inghilterra (pur se in regime di concorrenza e di aperto contrasto con la Francia) deteneva allora il dominio quasi assoluto su gran parte della America del Nord, dal Messico allora spagnoleggiante a gran parte del Canada.
Erano territori risaputamente ricchi di pregiati giacimenti di materie prime, di estese fertili contrade in cui poter praticare colture intensive, di immense praterie sostanzialmente idonee ai qualificati allevamenti di massa. Non mancavano neppure le miniere che incentivavano la favolosa e avventurosa “corsa all’oro”.
La nuova realtà antropologica concretizzatasi tra la fine del XV secolo e gli albori del XVI in quelle ancora per molti versi inviolate zone, specie nel periodo della accesa velleità colonialista di taluni Paesi europei, vide il formarsi di una composita società costituita da emigranti inglesi, francesi, irlandesi, spagnoli, olandesi, e chi più ne ha più ne metta, in buona parte “fuoriusciti” e “avventurieri”, “bucanieri” alla Drake o alla Morgan, “proscritti” provenienti dalla patrie galere europee.
Si trattava di una consistente massa di gente generalmente eterogenea, spesso ben poco ossequiente al rispetto delle leggi e del prossimo, talvolta grezza e violenta, che aveva avventurosamente varcato l’Oceano Atlantico e che, parecchio impropriamente, pur se omologati dall’interessato assenso delle case regnanti dell'epoca, aveva assunto l’inopinato ruolo di “colonizzatori”.
Erano di fatto appartenenti a gruppi parecchio diversificati, sia dal punto di vista sociale che etnico, religioso, sociopolitico e le nascenti strutture amministrative e istituzionali delle “colonie” d’oltre oceano non potevano non assumere, nel tempo, caratteristiche palesemente disomogenee, da zona a zona.
Rispetto ai vari contesti che contrassegnavano l’Europa di quei secoli - accettabili o discutibili che fossero - al di là dell'Oceano era nato un anomalo tipo di società, prevalentemente basata su un miscuglio di culture, di razze, di appartenenza a svariati ceppi atavici, di soggetti portatori di differenti livelli intellettuali, tecnici e scientifici, di contrastanti canoni religiosi, di variegati indirizzi imprenditoriali e manageriali.
Non poteva quindi non verificarsi il fenomeno della prevalenza di sistemi di integrazione parecchio discutibili (vedi schiavismo ed emarginazione di razza), oltre che abbondantemente improntati sul generalizzato impiego di metodi violenti e talvolta inumani.


Il tutto, di massima, basato sul diffuso e indiscriminato uso di armi personali, le famosissime “Colt”, le “Winchester”, le Smith & Wesson, assurte ad emblema della avventurosa e sanguinosa “conquista del Far West” e le cui fabbriche divennero l’embrione delle odierne mostruose, spregevoli e fameliche “multinazionali degli armamenti mady in USA”, in atto occupanti i primi cinque posti nella turpe graduatoria mondiale dei produttori di “strumenti di morte”, con un giro d’affari di migliaia di miliardi di dollari. Buona parte della composita società americana è oggi notoriamente proclive all'indiscriminato commercio di micidiali armi d’ogni calibro e specie, smerciate in spettacolari e invitanti negozi alla stregua del pane quotidiano. Un ben poco positivo “identikit” del diffuso atteggiamento tendenzialmente truculento di una consistente massa di “yankee”.
E’ da segnalare, però, che parallelamente a ciò esiste una altra faccia della medaglia.
Nell'ambito dei circa 350/milioni di americani che convivono nelle vaste zone e nelle metropoli contraddistinte dalle diverse coordinate dei 50 Stati Federati, non v’è dubbio alcuno che lavorano e operano validissimi strati di laboriosi, integerrimi, fattivi cittadini che esprimono con orgoglio e patriottismo l’anima, la cultura, l’efficienza e la capacità operativa e produttiva di una grande Nazione, indubbiamente primeggiante in ogni campo.
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Dopo che nel 1775 era giunta a maturazione la sofferta decisione di rompere le catene con cui il despota Impero Britannico teneva legate le “colonie” nordamericane, emersero molte personalità di spicco, carismatici capi, fra cui John Adams, Benjamin Franklin, George Washington, Thomas Jefferson, Roger Sherman, James Wilson, George Wythe, per citarne solo alcuni fra i 55 firmatari della Dichiarazione d’Indipendenza, che anche a rischio della propria vita s’imposero sulla scena storica e politica della nuova Nazione repubblicana, denominata Federazione degli Stati liberi d’America.
La Costituzione degli Stati Uniti d'America, legge fondamentale del nuovo Stato, fu varata nel 1787 dalla “convenzione di Filadelfia”, fu ratificata nel 1788 ed entrò in vigore nel marzo 1789.
In essa, era ben definito il sistema democratico della separazione dei poteri, legislativo, affidato al Congresso, esecutivo in capo al Presidente e al Governo, giudiziario di esclusiva e autonoma competenza della Corte Suprema.
L'articolo 6° definiva e statuiva altresì il concetto del federalismo, specificando diritti, doveri e responsabilità dei singoli Stati.
Il primo presidente degli Stati Uniti federati fu George Washington (1732–1799), eletto nell'aprile del 1789 e rimasto in carica sino al marzo del 1797, cui seguì John Adams (1735–1826), sino al marzo del 1801.
Oggi si è giunti al 46° Presidente degli Stati Uniti d’America, Joe Biden, un discusso personaggio ritenuto ben poco convincente, parecchio insicuro nel gestire i rapporti internazionali a livello globale, sostanzialmente inadatto al particolare e rischioso momento storico evolutivo che la comunità internazionale sta attraversando. Il suo gradimento politico e il suo consenso elettorale sono tutt’altro che soddisfacenti. Qualcuno riversa su di lui la responsabilità dell'attuale stato di perdurante tensione fra i contrapposti schieramenti di “Grandi Potenze”, già esistenti o emergenti e di relativi irrequieti satelliti.
Fra i tanti più o meno meritevoli personaggi che contribuirono alla nascita e alla affermazione della nuova realtà mondiale USA, vanno ricordati Alexander Hamilton, primo responsabile del Dipartimento del Tesoro e braccio destro del Presidente Washington, Jonn Marshall, quarto Presidente della Corte Suprema, Philip Mazzei, oriundo toscano nativo di Poggio a Caiano in quel di Prato che, si dice, abbia coniato la frase "all men are created egual” (tutti gli uomini sono creati uguali), inserita nella “Dichiarazione d’Indipendenza”, amico personale del terzo Presidente USA Thomas Jefferson fu il primo diplomatico USA a Parigi, James Monroe, quinto Presidente e assertore della famosa “dottrina Monroe” che implicitamente propugnava l’attuazione di una politica espansionista e interventista degli Stati Uniti, Peyton Randolph, Presidente del primo Congresso federato, Friedrich Wilhelm von Steuben, generale prussiano che organizzò e addestrò le Forze Armate cosiddette “continentali”, Abraham Lincoln (foto accanto), 16° Presidente (ucciso da un cospiratore sudista il 14 aprile 1865) che guidò la Guerra di secessione (1809-1865) e indusse il Congresso alla promulgazione del “XIII emendamento” che bandiva la schiavitù in tutto il Paese, Ulysses Simpson Grant, (1822-1885), Generale comandante delle Forze Armate nel corso della citata guerra di secessione che lavorò a stretto contatto con Lincoln e fu poi il 18° Presidente USA.
Non va sottaciuta, tuttavia, la circostanza che gli avvenimenti prima accennati generarono nell'ambito delle variegate gerarchie e caste politiche, militari, industriali, finanziarie degli USA una affatto condivisibile mentalità di acquisita “superiorità” rispetto ai Paesi viciniori, con particolare riferimento a quelli del sub continente americano oltre che, pur se in maniera meno estesa, anche nei riguardi del variegato scenario internazionale.
Mentalità che, affermatasi rapidamente e ancora oggi per molti versi dominante, farà scattare nel tempo e con frequenza complicate divergenze diplomatiche e forti contrasti a fronte di pretese di dominio non sempre facilmente accettabili.
Vennero a maturazione situazioni di tensione che talvolta sfociarono in impegnativi interventi militari tesi all’ottenimento di una maggiore “autorevolezza” oltre che ad una sempre più consistente egemonia a livello territoriale, economico e commerciale, imponendo oltretutto la assodata potenzialità del “dollaro USA” come privilegiata moneta di interscambio.
Non va trascurato il fatto che, in parallelo con l’affermazione transnazionale del giovane agguerrito Stato, proliferarono anche invasive e condizionanti aree di potere interno (non sempre ammantate di legalità e di sani principi) che, in simbiosi con la potente Massoneria e con i radicati e utilitaristi schieramenti dei Partiti politici, oltre che con altre organizzazioni e fondazioni più o meno lineari e trasparenti, presero a dominare i settori nevralgici della economia, della finanza, delle aziende multinazionali, della stessa ossatura amministrativa e istituzionale della Nazione in rapido sviluppo.
E’ da rilevare, per inciso, che nel corso degli anni ebbero a fare parte delle varie “logge” massoniche numerosi personaggi politici di primo piano fra cui lo stesso Presidente George Washington, o altri esponenti della vasta progenie istituzionale emersa nel tempo quali James Monroe, Andrew Jackson, James K. Polk, James Buchanan, Andrew Johnson, James Garfield, William McKinley, Theodore Roosevelt, William Howard Taft, Warren G. Harding, Franklin Delano Roosevelt, Harry S. Truman, Gerald Ford.
Senza dire della inclusiva e parecchio influente galassia borsistica di Wall Street, potenzialmente in grado di determinare e indirizzare, talvolta speculativamente o per fini tutt’altro che etici, gli indirizzi politici dei vari settori della economia, a parte le utilitaristiche manovre nel campo dei complessi e impegnativi rapporti finanziari a livello internazionale.
Vale la pena fare qualche passo indietro per ricordare altresì che nella fase iniziale di crescita del nuovo Stato sovrano, nelle vaste e ancora primitive zone dell'entroterra, più o meno distanti dai grossi centri urbani, la vita delle collettività, stanziali o in transito, aveva preso a svolgersi alquanto precariamente su basi in gran misura fondate sull’approssimato e spesso inadeguato sistema degli “sceriffi”, dei “giudici itineranti”, dei “pistoleri” assoldati dai capoccia locali sia come addetti alla loro protezione che come uomini di fiducia per portare a compimento ritorsioni e rappresaglie.
Non mancavano neppure gli “Scout” alla Buffalo-Bill la cui incombenza consisteva, di massima, nell’accompagnare in posti sicuri e idonei le carovane di emigranti o nel fungere da guida per talune missioni militari (Army Scout).
Ai primordi del XIX secolo, infatti, alla stregua di un torrente in piena aveva avuto avvio la sfrenata corsa alla “conquista del West”, cui era seguita la massiccia affaristica penetrazione ferroviaria lungo la direttrice est/ovest ed est/sud.
In vaste aree, magari occupate a titolo gratuito, s’erano frattanto insediati parecchi più o meno efficienti “ranch” (nel tempo assurti al ruolo di scenario per film western) la cui funzione era l’allevamento del bestiame. Essi, quasi sempre, erano dimora di potenti e agguerriti “allevatori” che, divenuti indiscussi proprietari, spesso e volentieri agivano con metodi dispotici e spregiudicati. I “ranch”, come detto strutturati su base estensiva, erano accuditi da una numerosa e caratteristica “categoria” di operatori specializzati, i rinomati “cowboy” dai tipici cappelli a falde larghe, dai larghi copri pantaloni in pelle con relative frange, dai vistosi cinturoni muniti di funzionali fondine per l’immancabile “Colt”.
Uomini duri e spesso rozzi, avvezzi ad ogni rischio, temprati da una vita faticosa e insicura.
La loro fondamentale attività, a parte l’ostentativo coraggio di partecipare spericolatamente ai brutali e ben poco lodevoli “rodei”, era rivolta all’incremento, alla riproduzione e alla commercializzazione di immense mandrie di bovini ed equini, di prolifere “giovenche”, di teneri “vitelli”.
Il loro compito era anche quello di addomesticare (in base alle regole della etologia equina) i preziosi puledri e, in genere, i focosi cavalli di razza.
Va posto in luce il fatto che il diffusissimo, vario e massiccio impiego di questi ultimi utilissimi quadrupedi, sia per uso civile che militare, in aggiunta all’enorme consumo ed esportazione di carne macellata (il ben noto ”manzo”), fece sì che tale settore si sviluppasse alla grande, prima che fosse in gran parte surclassato dai prodotti delle concorrenziali “fazendas” brasiliane e argentine.
Il forte incremento della diversificata popolazione insediatasi, più o meno abusivamente, nelle vastissime e incontaminate “praterie” e nelle fiorenti, suggestive e paesaggistiche zone collinari e montuose dotate di fitti boschi, di estesi protettivi canaloni, attraversate da fiumi ricchi d’acqua, fece sì che sorgessero e si ingrandissero a vista d’occhio parecchi borghi pioneristici, d’ogni dimensione e tipologia (le famose “West Town”, oggi denominati “siti fantasma”), in cui non mancavano certo né il tradizionale “Saloon”, né la consueta “Bank” più o meno sicura, affidabile e protetta. Si trattava di tipici e magari improvvisati agglomerati abitativi, ricettivi ed essenzialmente logistici, in cui disinvoltamente si muoveva una variopinta multirazziale e spesso turbolenta popolazione, in gran misura accresciutasi e amalgamatasi in funzione del notevole afflusso di variegati e ibridi gruppi di “emigranti” in cerca di fortuna.
Nelle città e zone rivierasche degli Stati Uniti, invece, divenne parecchio rilevante l’inserimento di consistenti masse di gente proveniente - come detto - da oltre oceano, e più o meno socializzatasi con i vari strati di cittadini stanziali ivi presenti.
Nell'ambito della enorme e travolgente marea di nuovi arrivati ebbero incisiva rilevanza
* i “puritani” - una notevole massa di religiosi in fuga dall’Europa poiché perseguitati, che diedero vita, sulla costa orientale americana, alla “Nuova Inghilterra”; nei vasti territori in cui essi si insediarono sono oggi presenti ben sei Stati (Maine, New Hampshire, Vermont, Massachusetts, Rhode Island, Connecticut);
* gli “esploratori” della già citata “Virginia Company” (da cui la “London Company”, fondatrice della colonia chiamata “Jamestown” in onore di Re Giacomo 1°, oggi Stato della Virginia), di fatto intraprendenti e spregiudicati emigranti in cerca di fortuna, insediatisi, per l’appunto, nei territori della odierna Virginia;
* una folta schiera di perseguitati politici, criminali graziati o evasi, errabondi d’ogni risma e specie che per circostanziali e ovvi motivi avevano lasciato alle spalle l’Europa e si erano riversati sulle sponde del nuovo continente, specie nell'attuale Stato di Georgia;
Un po’ tutte queste “categorie” contribuirono in buona misura a formare la policroma e dissonante compagine dell'emergente eclettica entità nazionale nordamericana.
E’ da dire, tuttavia, che il nuovo “Stato Federale”, oggi conosciuto come USA (United States of America), trasse da tale atipico e multirazziale contesto una sorta di iniziale forza di aggregazione sociale e di sperimentazione della convivenza di diverse culture, oltre che la possibilità di usufruire largamente dell'utilizzo strumentale di una larga manovalanza e di selezionare adeguatamente i quadri occorrenti per lo sviluppo delle varie attività produttive, strutturali e logistiche.
Il nuovo Stato, in verità, inizialmente strutturatosi in maniera piuttosto improvvisata e approssimata ma rapidamente evolutosi e sviluppatosi in linea strutturalmente ed economicamente espansiva, riuscì presto ad estendersi sino alla costa del Pacifico e ai confini del Messico ancora influenzato dalla lunga dominazione spagnola.
In quel burrascoso periodo di assestamento, manco a dirlo, talvolta per motivazioni più o meno accettabili, presero avvio svariati controversi e cruenti conflitti epocali, fra cui:
* la guerra contro il Messico (1846 / 1848), il confinante Paese dei “companeros”, eredi degli antichi Maya, Toltechi e Aztechi che fu invaso sino ad occupare anche Città del Messico; a seguito della pace di Guadalupe, gli Stati Uniti ottennero la California, il Nuovo Messico, l’Arizona, il Nevada, l’Utah, oltre a buona parte del Colorado e dello Wyoming; il corso del fiume Rio Grande divenne il confine fra le due Nazioni;
* la cosiddetta “guerra di secessione” (1861 / 1865), di fatto una sanguinosa e fratricida guerra civile spietatamente combattuta fra nordisti (“unionisti”) e sudisti (“confederati”), in gran misura dovuta alla decisione del Presidente in carica, Abraham Lincoln, di abolire definitivamente l’inumano sistema dello schiavismo;
* la pur breve “guerra ispano-americana” (1898) che permise l’occupazione della Florida, della base di Guantanamo nell'Isola di Cuba, di Porto Rico, oltre all’acquisizione di una sorta di supercontrollo su gran parte del vasto bacino caraibico e sulla zona in cui poi sarebbe sorto il Canale di Panama (1881/1914); quale risultato finale gli Stati Uniti acquisirono inoltre la possibilità di insediarsi nell'arcipelago delle Filippine e nella Isola di Guam, al centro del Pacifico, ambedue di rilevante importanza strategica ai fini di una eventuale successiva fase di espansione politica ed economica in quell’immenso Oceano, espansione già del resto avviata con l’ottenimento, nel 1876, del protettorato sull’arcipelago delle Hawaii alla fine divenuto, nel 1959, uno dei 50 Stati USA.


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Ma la sintesi storica della nascita e dello straordinario sviluppo di quella che nell'arco di meno di due secoli diverrà la prima “superpotenza” mondiale, sarebbe incompleta o quanto meno lacunosa ove non si facesse riferimento ai barbari genocidi e all’olocausto spietatamente operati contro gli  “indiani”, i cosiddetti “selvaggi pellirosse”, pur se, in verità, si trattava di popolazioni tutt’altro che selvagge, oltretutto dotate di una propria identità sociale, religiosa e culturale.
Sarebbe senz’altro prolisso elencare e porre in evidenza i fatti collegati ai reiterati sanguinosi massacri succedutisi nel corso delle cosiddette “guerre indiane”, cui fecero da corollario violente stragi, feroci genocidi, deportazioni di massa. Il tutto scientemente mirato allo sterminio del popolo dei nativi pellirosse, spudoratamente violando ogni loro secolare diritto su quei territori che erano il loro naturale habitat ma che ora facevano gola agli usurpatori bianchi.
Lo storico John Tolant - Premio Pulitzer 1971 - ha scritto che “… i metodi di sterminio e segregazione attuati contro i nativi nordamericani, vennero presi a modello da Hitler contro gli ebrei”.
La cronistoria del lungo quanto nefasto lasso di tempo in cui le organizzate truppe federali eseguirono l’ordine politico di sterminare le tribù dei pellerossa, pone in evidenza il fatto che tale sterminio fu talvolta brutalmente assecondato dai cruenti e frequenti scontri dei nativi pellerossa con i cosiddetti “pionieri del Far West”, in genere ben poco animati da buone intenzioni.
Trattavasi di una enorme massa di gente avvezza ad ogni evenienza, con famiglie e masserizie al seguito, che si spostavano impiegando, alquanto avventurosamente, lunghe “carovane” di celeberrimi “conestoga” (vedi immagine a fianco), il pesante spazioso carro a trazione animale provatamente idoneo ad affrontare massacranti e impervi tragitti. Raggiunte le zone ritenute confacenti al loro stabile insediamento, si configurò una vera e propria piratesca appropriazione dei fertili terreni e degli incontaminati luoghi ove, da millenni, la generosa natura aveva da sempre consentito l’indisturbata convivenza della gente nativa con una grande varietà di utili risorse e con la fauna selvatica, fra cui i bisonti che erano la principale fonte di sostentamento delle popolazioni stanziali.
Fu una lotta impari, pur se le più combattive e le più numerose tribù, come ad esempio i Sioux, gli Apaches, i Navajo, Cheyenne, i Kiowa, i Mohicani, capeggiati da leggendarie figure immortalate dalla storia, quali Cochise, Toro Seduto, Geronimo, Cavallo Pazzo, Nuvola Rossa, si opposero con i mezzi rudimentali di cui disponevano (frecce e lance) prima che, anche loro, potessero fare uso di ben altre armi, quali le famosissime carabine Winchester acquistate a caro prezzo presso gli spregiudicati e ingordi commercianti d’armi che, in sostanza, portavano avanti un inqualificabile sporco mestiere.
Gli odiati invasori “bianchi”, per raggiungere lo scopo dello sterminio dei pellirosse, non si ponevano eccessivi scrupoli e, talvolta, ricorrevano addirittura al barbaro sistema di dare alle fiamme gli accampamenti indiani, massacrando indiscriminatamente donne, vecchi e bambini, come ignominiosamente avvenne in quel di Sand Creek o di Wounded Knee.
A riequilibrare le sorti della campagna di “pulizia razziale” intrapresa con dovizia di mezzi dai crudeli “yanchee”, non bastò, di contro, la cocente sconfitta (25 giugno 1876) loro inferta in uno dei canyon del “Little Bighorn” ove, ad opera degli indiani di Cavallo Pazzo e di Toro Seduto, fu tesa l’imboscata che portò all’annientamento del “7° Reggimento Cavalleria” del tracotante e fanatico Tenente Colonnello George Custer il quale, per pura spavalderia e per cocciuta presunzione di invincibilità, mandò i suoi uomini incontro a morte certa.
La mentalità all’epoca vigente, è riassunta nella infelice frase pronunciata dal deputato James M. Cavanaugh il quale ebbe a dire, arrogantemente e incivilmente, che “l’unico indiano buono è l’indiano morto”.
Uomini come il generale William Sherman, come un certo colonnello John Chivington (quello che, rivolto ai suoi ufficiali dipendenti, aveva ordinato “scalpateli tutti, grandi e piccoli”) o come il citato Ten. Col. George Custer, sono ricordati per la efferatezza dimostrata nel portare avanti le operazioni di massacro degli indiani, presentati come “malvagi per natura”.
Vedi caso tali abominevoli personaggi potrebbero essere considerati come una sorta di antesignani del tronfio texano Gen.le George Patton (foto a destra) il quale, nel luglio 1943, all’atto dello sbarco della sua strapotente Armata sulle coste della Sicilia, riferendosi ai soldati italiani e tedeschi ebbe a indirizzare ai suoi sottoposti un feroce messaggio, affermando pressappoco la stessa cosa: "… se si arrendono non badate alle mani alzate. Mirate tra la terza e la quarta costola, poi sparate. Si fottano, nessun prigioniero. È finito il momento di giocare, è ora di uccidere! Io voglio una divisione di killer …". Dall’atteggiamento incivile e sprezzante del citato dispotico generale scaturirono verosimilmente i nefasti fatti riguardanti i due eccidi di Biscari-Acate e quello di Piano Stella (Ragusa) in cui trovarono morte, per spietata fucilazione, oltre un centinaio di “prigionieri di guerra” italiani (in maggioranza) e tedeschi, in assoluto dispregio della “Convenzione di Ginevra” del luglio 1929. Non va sottaciuta, altresì, la strage di Canicattì. Nel contesto di cotanti barbari episodi, parecchi appartenenti a svariate unità militari dei cosiddetti “liberatori” agirono crudelmente e si macchiarono di atroci comprovati delitti, pur se in un modo o nell'altro scansarono ogni adeguata condanna quali comprovati “criminali di guerra”.
Riprendendo il discorso del genocidio dei nativi americani è da porre in risalto che le vittime fra la popolazione indiana (anche vecchi, donne e bambini) ascesero a diverse centinaia di migliaia, mentre si dice che circa altri 85/mila nativi furono sottoposti alla forzata sterilizzazione. Alla fine, la maggior parte dei sopravvissuti furono coercitivamente rinchiusi nelle “riserve”, veri e propri campi di concentramento.
Nell'ambito della cerchia di comando politico e militare USA s’era di fatto instaurato, diffondendosi rapidamente nei vari settori della scala gerarchica, l’errato concetto della “regola del più forte” - spesso del più violento - che poi si sarebbe evoluta in quella della adusa tendenza alla prevaricazione e talvolta della coartazione, facendo spesso ricorso al “potere” acquisito attraverso la conquista pseudo democratica dei vari centri di governo politico, amministrativo, giuridico, economico.
Vennero alla luce e si consolidarono gli elementi portanti di una sorta di diversa bioetica sociale, morale e caratteriale che, salvo le dovute eccezioni, rappresentano tuttora le radicate caratteristiche antropologiche di una consistente parte della società americana.
Uno stile di generalizzata presunta superiorità che lascia alquanto perplessi circa la funzione auto attribuitasi di “difensori della democrazia e della libertà”.
Non sarebbe corretto, pur tuttavia, non porre in giusto rilievo, come prima accennato, il fatto che il XX secolo ha posto in luce l’indiscussa affermazione degli Stati Uniti, oltre che sul piano militare, industriale ed economico, anche in quello oltremodo importante e determinante della ricerca scientifica, dello sviluppo tecnologico e aerospaziale. Oggi sono la prima Nazione nella graduatoria mondiale con circa 24 migliaia di miliardi di PIL.
Negli Stati Uniti operano con successo circa 1925 Istituzioni Universitarie, moltissime di primaria importanza mondiale, famose e di grande reputazione, fra cui parecchie delle seguenti sono considerate di livello “top”:
• Princeton University
• Harvard University (intelligenza artificiale - arte e umanità)
• Yale University.
• Columbia University
• Stanford University (Ingegneria - elettricità - elettronica)
• Brown University
• University of Chicago
• Connecticut University
• Massachusetts Institute of Technology (formazione tecnica, scolastica e imprenditoriale)
• California State University
• University of Connecticut Storrs
• Georgia State University
• Cornell University
• University of Pennsylvania

Il citato XX secolo è stato da più parti definito, pertanto, il “secolo americano”.
A fronte di tale comprovato e meritorio quadro tecnologicamente espansivo e indiscutibilmente all’avanguardia, gran parte della società statunitense non è riuscita, tuttavia, ad eliminare il pervicace razzismo, basato oltremisura sul colore della pelle o sul ceppo natale, la diffusa differenzazione ed emarginazione di classe, la triste piaga dei “ghetti” di periferia e dei miserrimi “barboni” relegati ai margini degli opulenti emblemi dei “city center” metropolitani stracolmi, come già detto, di “grattacieli”, di faraonici “palazzi del potere”, di imponenti “strutture ludiche”, di vertiginose “sopraelevate”, di quartieri dedicati all’esercizio di un esasperato consumismo, agli spettacoli e, perché no, alle bische o agli attraenti locali a “luci rosse”.
Tale è oggi l’offuscata immagine della decantata “civiltà” americana, specie perché è diffusamente notorio che, a fianco del privilegiato benessere di larghe fasce di popolazione e della ostentata super ricchezza dei molti pantagruelici gruppi affaristici, si sono nel tempo affermate, magari più o meno tacitamente ratificate e avallate dagli altolocati centri di potere, ignobili e insaziabili spinte speculative facenti capo alle grandi concentrazioni industriali e finanziarie in cerca di usurai profitti e di arricchimento patrimoniale.
Quasi in parallelo, inoltre, talvolta a seguito della affermazione di taluni “clan” politici di rilievo, in special modo dopo il “boom” della industrializzazione, della motorizzazione di massa, della frenesia degli elettrodomestici, dello sviluppo esponenziale della aviazione commerciale, dell’intensificarsi dei trasporti marittimi di merci e idrocarburi, della strabiliante ed enorme produzione di sofisticati e micidiali armamenti, presero piede estesi fenomeni di spregiudicato predominio di gruppi finanziari e industriali d’alto lignaggio.
E non va dimenticata la già citata incredibile diffusione - spesso mediante cruenti e sanguinosi conflitti, attentati mortali, atti terroristici - dei delinquenziali, spavaldi, ben strutturati e potenti organismi malavitosi alla Al Capone, alla Lucky Luciano, alla Gambino, alla Valachi, alla John Dillinger, ecc. ecc., cui solo parzialmente riuscivano a fare fronte (a prescindere dalla connivenza di qualche deviato esponente delle varie impalcature di “police force”), i pur addestrati ed efficienti agenti FBI (Federal Bureau of Investigation).


Riprendendo il fondamentale discorso della evoluzione storica degli Stati Uniti, è da porre in rilievo che, specie nel periodo finale della 1° guerra mondiale e poi, massicciamente, nel corso della 2° guerra mondiale, la enunciata fase di preponderante ascesa nella scala delle Nazioni più industrializzate, più tecnicamente progredite, più economicamente avanzate, surclassò di parecchio e speditamente il precedente periodo storico globale, che va dal 1815 al 1914, prevalentemente caratterizzato dalla politica espansionistica e dominatrice dell'Impero Britannico (peraltro incisiva già a decorrere dai secoli XVII e XVIII) e, pur se in minore misura, della Francia post napoleonica.
Ciò modificò profondamente il quadro complessivo di quando avvenuto nei secoli precedenti, essenzialmente contrassegnati dalla accentuata tendenza di parecchi Stati europei (fra cui Portogallo, Belgio, Olanda, Germania e in minima misura la neonata Italia, ultima arrivata) a portare avanti, magari senza scrupoli e in concorrenza con le predominanti Gran Bretagna e Francia, il detestabile sistema della pseudo “colonizzazione” di vastissime aree dei continenti africani e asiatici.
Colonizzazione che sarebbe meglio definire “dominazione” o “sottomissione”, ove si considerino i pesanti e riprovevoli risvolti di sfruttamento delle risorse locali, i fenomeni di “apartheid” (crimine internazionale di segregazione razziale), le cruente repressioni di diffuse ed estese ribellioni locali.
Gli Stati Uniti divennero parecchio rapidamente la patria del consumismo irrazionale e sfrenato che, trovando terreno fertile in seno alla crescente società ricca e benestante, assunse il ruolo di vettore trainante del massiccio sviluppo economico definito “all’americana” e modificò il sistema e il tenore di vita di larghe fasce di popolazione.


Fu l’inizio di un inarrestabile e contagioso fenomeno di trasformazione strutturale della società mondiale, destinato a diffondersi, con palese rapidità, fra gli strati “abbienti” o “ricchi” della cosiddetta “società civile” di un po’ tutte le Nazioni più o meno progredite.
Di contro e senza scrupolo alcuno furono abbandonate al loro miserevole destino le reiette, strabocchevoli e povere popolazioni delle immense aree “sottosviluppate”, in gran parte riguardanti i vari stati e staterelli nati a seguito di irrazionali e spesso amorfe forme di “indipendenza” acquisita (talvolta a livello tribale) da molti ex “possedimenti” delle sapute riprovevoli nazioni colonialiste, precedentemente e abbondantemente sfruttati nel corso della lunga opprimente sottomissione da queste ultime portata avanti spesso per secoli.
Si determinò, ovviamente, la corsa all’accaparramento spregiudicato delle fonti di materie prime energetiche, quali carbone, petrolio, gas naturale, oltre che di minerali preziosi o strategici per i settori industriali e militari, specie quelli essenziali in campo nucleare.


Sorsero i nefasti “trust”, o “cartelli” che dir si voglia, presto finiti nelle fauci dell'ingordo apparato finanziario e speculativo.
Si irrobustirono oltre misura, in special modo, le famose “sette sorelle” (le statunitensi Exxon, Mobil, Texaco, Standard, Gulf, l'anglo-olandese Shell e la britannica British Petroleum), pur se già si profilavano all’orizzonte i magnati mediorientali e arabi del petrolio destinati a divenire presto il determinante ago della bilancia dei mercati mondiali degli idrocarburi. Aggiungasi il progressivo inserimento, nel quadro di tali mercati, della notevole produzione di materie prime energetiche proveniente dalle immense risorse rinvenute nei vasti territori ex URSS (oggi Federazione Russa), e il palese risultato complessivo non poteva non divenire preoccupante, per non dire condizionante e disgregante, ai fini dello sviluppo industriale ed economico dei Paesi cosiddetti “occidentali”.
Presero a proliferare, purtroppo senza pianificazione e senza efficaci controlli, un numero impressionante di inquinanti raffinerie, di mastodontiche pericolose “navi petroliere” (anche con stazza di oltre 100/mila tonnellate), di insensati stravolgimenti del territorio per realizzare gli impianti di raffinazione e per creare i parchi di stoccaggio dei prodotti petroliferi.

Il tutto incentivando una miriade di pericolosi fattori di rischio, sia in campo ambientale che in quello, delicatissimo, della salute delle popolazioni residenti nelle aree interessate.


E’ sufficientemente noto quanto e come il citato “secolo americano” abbia innescato pressanti politiche protese a perseguire il controllo egemonico, strategico, militare ed economico, di vaste aree mondiali, senza dire delle ricorrenti interferenze nei riguardi di Paesi da cui promana il flusso di materie prime indispensabili alla mastodontica industria degli armamenti, a quella sviluppatissima del settore aerospaziale e, in generale, a quelle interconnesse con il sempre crescente impiego della elettronica.
Il peso della controversa politica degli Stati Uniti è divenuto particolarmente incisivo dopo la fine della seconda guerra mondiale, quando sembrava che l’unico potenziale avversario fosse l'Unione Sovietica.
Dopo la dissoluzione di quest’ultima, avvenuta nel 1991, almeno sino a quando è comparsa all’orizzonte l’emergente potenzialità militare ed economica della Cina e dei suoi satelliti, gli Stati Uniti hanno addirittura mirato ad assumere la posizione di “superpotenza” con aspirazioni da “dominium mundi”, peraltro parecchio influenzata dalla convinzione di essere addirittura una esclusiva "iperpotenza".


A tale convinzione si riferisce l'editore Henry Luce, quando Il 17 febbraio del 1941 in un editoriale sulla rivista LIFE, facendo per la prima volta ricorso a tale termine, indica quello che avrebbe dovuto essere il ruolo degli Stati Uniti dopo la 2° guerra mondiale, evitando l'isolazionismo e sostenendo sistemi politici che avrebbero dovuto dimostrare di essere assertori di comprovati valori democratici.
Luce assunse la veste di fautore di "un potere globale e universale USA non circoscritto ad un territorio specifico, anche impiegando ogni mezzo ritenuto necessario".
Aveva però trascurato il fatto che tale “convinzione”, pur se mirante alla difesa di taluni “specifici interessi economici e finanziari, comportava la pregiudiziale rinuncia al paritetico e pacifico dialogo con i Paesi avversari o presunti tali”.


A tal proposito non sembra fuor di luogo un breve aggancio storico al teutonico Federico 1° Hohenstaufen, inteso il “Barbarossa”, il quale, forse perché ispirato dal suo predecessore Carlo Magno (sostenitore del concetto che “l’Impero deve dominare su tutto”), oltre che dalla storia dell'Impero Romano la cui “forza” era fondata sul dogma della “suprema autorità”, era arciconvinto che il suo potere fosse superiore a tutto e tutti.

A conferma di quanto prima rassegnato appare opportuno soffermarsi sui seguenti punti:

* nel 1901, gli Stati Uniti decidono di agire militarmente contro la Repubblica Filippina allo scopo di assoggettare definitivamente alla propria sovranità (protrattasi poi sino al 1946) quel vasto e nevralgico arcipelago dominante il centro dell'Oceano Pacifico;

* nel 1903 istituiscono la “Zona Militare USA del Canale di Panama” per porre sotto il loro diretto controllo (protrattosi sino al 1979) il costruendo Canale di Panama.

* nel 1904 prende corpo la politica interventista americana istituzionalizzata mediante l'emanazione del Corollario Roosevelt alla “Dottrina Monroe” la quale aveva proclamato il diritto degli Stati Uniti di intervenire in qualsiasi luogo delle Americhe e del mondo.

* con lo scoppio della 1° Guerra mondiale (1914), gli Stati Uniti scelgono inizialmente una politica di non intervento nel conflitto, tentando la via diplomatica per la stipula di un accordo di pace. Poi, invece, in una fase successiva, il presidente Wilson dichiara che quella guerra è determinante ai fini del futuro di molte Nazioni e che, per partecipare da vincitori alla successiva conferenza di pace non può non esservi un diretto intervento militare statunitense. Gli Stati Uniti. pur se formalmente non alleati, entrano in guerra nel 1917 proponendosi nel ruolo di "alleati". Tuttavia, dopo che 1919 viene stipulato il controverso Trattato di Versailles, gli Stati Uniti tornano ad adottare una politica isolazionista, rifiutando di riconoscere talune clausole e di entrare a fare parte della Lega delle Nazioni.

* anche a fronte del deflagrare della Seconda guerra mondiale (1 settembre 1939) il Congresso americano pur allentando i limiti operanti negli anni '30, rimane comunque neutrale. Poi, a fronte del discorso sullo Stato dell'Unione del 1941, il presidente Roosevelt infrange (a ciò indotto, si dice, dall’incisivo influsso della profuga Regina di Norvegia, cui sembra sia stato affettuosamente pur se platonicamente legato) la politica di non interventismo ed enuncia il ruolo di aperto aiuto degli Stati Uniti alle Nazioni della coalizione alleata contro l’Asse Germania - Italia.

* il 14 agosto dello stesso anno, il Presidente USA Franklin Delano Roosevelt e il Primo Ministro britannico Winston Churchill, quest’ultimo in rappresentanza di una Nazione abbastanza provata a fronte del contingente strapotere militare della Germania di Hitler, si incontrano  a bordo dell' incrociatore pesante “USS Augusta”, ancorato nella baia Argentia dell'Isola di Terranova in Canada, per definire i piani di aiuto e di collaborazione tracciando, nel contempo, le linee guida della futura politica mondiale post-bellica di cui alla cosiddetta “Carta Atlantica” che, riconoscendo il principio della “autodeterminazione dei Popoli”, implicitamente segnava la fine dell'Impero Britannico.

* nel dicembre 1941 gli Stati Uniti entrano in conflitto con il Giappone che, dopo snervanti trattative andate a male per l’irrigidimento di Washington, colpisce di sorpresa taluni importanti obiettivi strategici statunitensi nel Sud Est asiatico e nel Pacifico centrale, tra cui Pearl Harbor nelle Hawaii;

* in prosieguo, alla conclusione del sanguinoso conflitto (agosto 1945) e allo scopo di proteggere la futura pace mondiale, la coalizione degli Alleati occidentali (Inghilterra e Francia), in uno alla URSS di Stalin e alla Cina di Chiang Kai - Shek , nasce il 24 ottobre 1945 la “Organizzazione delle Nazioni Unite” (ONU), pur se l’attività della stessa si troverà sempre ad essere imbrigliata dal “diritto di veto” riconosciuto alle suddette Nazioni.

Nel 1948, poi, vedrà la luce la “Dichiarazione universale dei Diritti dell'’Uomo”, anche questo un trattato più di natura formale che sostanziale in quanto, in genere, sarà ben poco rispettato dai Paesi aderenti.

* in quel periodo, per motivazioni di tutt’altra natura, si manifesta negli Stati Uniti una corrente di pensiero parecchio intransigente in materia di estremismi di sinistra o di destra.
Basta e avanza, a tal proposito, riportare alla luce il negativo ricordo del “maccartismo” (1950 - 1955), frutto della insensata attività portata avanti dal senatore Joseph McCarthy (1908-1957) nella qualità di Presidente della commissione parlamentare per la repressione delle attività antiamericane (particolarmente in funzione anticomunista), cinicamente considerate pericolose per lo stile di vita della società americana.

Oggi la situazione sembra parecchio mutata.

* La Federazione Russa, raccogliendo, almeno parzialmente, la controversa eredità dell'URSS staliniana, scomparsa nel 1991 alla fine di un lungo periodo di tribolazioni interne e di defezione di talune comunità regionali dichiaratesi “indipendenti” e di preesistenti Stati sovrani che avevano riacquistata la libertà democratica, è tornata ad essere una altrettanto determinante “superpotenza”, pur se ritenuta, in occidente, pericolosa e sostanzialmente inaffidabile.

* La grande, immensa e superpopolosa Cina, dopo la consolidata pur se tanto discussa terapia maoista, da diversi lustri a questa parte, ha preso ormai a crescere a dismisura, sia sul piano economico produttivo che militare, assumendo sempre più l’incisivo e determinante ruolo di “Paese guida” di un nutrito numero di Nazioni asiatiche più o meno viciniore e di parecchi Paesi africani di strategica importanza. La Cina, dietro la maschera della quasi indifferenza per tutto ciò che di crudele sta avvenendo in Ucraina, agisce in maniera eclatante per allargare e irrobustire la sua macroscopica posizione dominante puntando a divenire in assoluto la prima potenza economica e militare del Pianeta. A parte la presenza in ogni angolo dello stesso di consistenti e articolate “Chinatown” (“comunità cinesi”) cresciute, si buon ben dire, a dismisura ma indissolubilmente rimaste legate alla “madre patria” che, a sua volta, le censisce e le controlla, anche ricavandone rilevanti profitti commerciali e succose rimesse in valuta pregiata.

In questo precario e instabile scenario mondiale la pregressa posizione degli Stati Uniti risulta essere non più quella di “prima della classe” bensì, ormai, quella di un discusso e meno incisivo “partecipante” alla competizione egemonica (economica, tecnica e militare) in corso fra il cosiddetto “Mondo Occidentale” (USA - Regno Unito di Gran Bretagna/Commonwealth - Unione Europea - NATO) e il vari Paesi dell'opposto schieramento, fra cui il noto emergente polo denominato “BIC” (Brasile-India-Cina), cui fanno da sponda la euroasiatica Russia putiniana oltre che parecchie nazioni satelliti. Paesi che, nel complesso, rappresentano circa la metà della popolazione dell'intero Pianeta e muovono circa il 30% del PIL mondiale.

Di recente il precipitoso ritiro dall’Afghanistan (agosto 1921) - dopo una tormentata e dispendiosa guerra durata circa 20 anni - ha rappresentato per gli Stati Uniti e per il suo indefinibile Presidente in carica, l’evento più discreditante di quest’ultimo periodo, sia sul piano geopolitico internazionale che sul piano del consenso interno. E’ stato come avventurarsi in un insidioso dedalo, già di per se stesso abbastanza infido, senza rendersi conto che tale inconsulto modo di procedere, parecchio irrazionale e imprevidente, ha determinato un risultato del tutto contrastante con i canoni delle decantate ambizioni statunitensi permettendo, oltretutto, il ritorno al potere, in maniera quasi indisturbata e indolore, di un dispotico apparato oscurantistico, negatore di ogni libertà civile, religiosa, culturale.

Una figuraccia che s’assomma alla caduta di credibilità dovuta ai rapporti tutt’altro che idilliaci venutisi a creare, di recente, con parecchi Paesi mediorientali (ivi compresa l’influente Arabia Saudita), con altri del Sud Est asiatico, non dimenticando, infine, la Corea del Nord.
Sembrerebbe che il declino dell'influenza degli Stati Uniti rispetto alla pregressa posizione di primaria “superpotenza mondiale”, sia significativamente irreversibile, pur se la sua consolidata potenzialità militare è tutt’altro che in fase calante.

Quest’ultima, anzi, come da recenti sondaggi elaborati da competenti organismi internazionali, risulta essere ancora la più progredita in campo tecnologico, addestrativo e di pronto impiego, senza dire della ben nota superiorità in campo nucleare.

Dopo la dura e altalenante guerra di Corea del 1950, dopo le pesanti sconfitte morali, tattiche e strategiche della Baia dei Porci a Cuba (1961), dell'infausto, pluriennale e sanguinoso conflitto in Vietnam, in Laos e in Cambogia (dal 1964 al 1973), a parte le controverse avventure belliche in Iran (1980), Kuwait (1991), Somalia (1992), Iraq (2003), Libia (2011), Siria (2017), s’è assistito al progressivo ridimensionato del valore dissuasore della citata potenzialità bellica americana pur se basata sempre sulla possibilità di un pronto impiego della sua potentissima USAF (United States Air Force) e delle sue efficientissime “Flotte” presenti in tutti i mari e oceani ove si svolge un continuo e impegnativo “braccio di ferro” con apparati militari di altre Nazioni non certamente trascurabili o amichevoli.

Nel 1979, a proposito della crisi insorta con gli Ayatollah iraniani, Jimmy Carter ebbe ad affermare arrogantemente: “qualsiasi tentativo di prendere il controllo del Golfo verrà considerato un attacco agli “interessi vitali” degli USA”.
L’11 settembre 2001, l’inaspettato attacco alle Torri Gemelle di New York rappresentò un gravoso scacco morale per gli Stati Uniti, per la prima volta attaccati e colpiti sul proprio territorio. Il tragico avvenimento terroristico segnò, di riflesso, l’avvio di una dura fase di rivalsa e di “punizione” verso i presunti mandanti stanziati nel teatro mediorientale.
L’amministrazione di George W. Bush dà il via a una “war on terror” (“guerra del terrore”) che, anche in funzione del diretto intervento in Afghanistan nel 2001 e dell’invasione dell’Iraq nel 2003, coincide con l’apice dell’impegno militare statunitense in Asia Centrale e in Medio Oriente. I due teatri di operazione presentano ben presto agli occhi dell’opinione pubblica americana un conto economico e di vite umane difficilmente ammissibile o giustificabile.

Alla attuale difficile congiuntura, determinatasi come riflesso della enigmatica diplomazia internazionale, oltre che per la nebulosa credibilità dei propositi statunitensi circa il futuro del Pianeta, s’associa, nell'ambito dello scenario interno americano, una persistente fase di insicurezza democratica, di palese scollegamento fra Amministrazione in carica e opinione pubblica, di una sempre maggiore diserzione dalle più o meno manipolate competizioni elettorali, vieppiù a fronte di una sostanziale e profonda incrinatura di taluni pregressi valori sociali, culturali ed etici.

Lo sfarzoso, imbavagliato e alquanto macchinoso habitat della “Casa Bianca”, del Dipartimento degli Esteri, del “Pentagono”, è oggi calcato da personaggi non certo di spicco, posti lì da un sistema elettorale ben poco democratico e partecipativo, fatto di intrighi, di dispendiosi sistemi propagandistici, di giochi e scontri di potere, di scarsa partecipazione al voto, di interessi settoriali ed egemonici di gruppi affaristici.

La fiducia popolare verso i capi è un bene in esaurimento, volatile e ben poco recuperabile.

Prova ne sia il fatto che il quoziente di gradimento per l’attuale controverso, debole e ben poco rappresentativo Presidente Joe Biden è in palese e irrefrenabile discesa.

E’ opinione diffusamente condivisa quella che “mentre gli Stati Uniti del secolo scorso potevano essere considerati a ragione la terra delle opportunità, del progresso sociale e civile, della vittoria delle lotte per i diritti delle minoranze e dei più deboli e potevano quindi rappresentare il sogno americano, a distanza di tempo l’American Dream pare essersi eclissato per sempre”.

Il sogno dei Padri fondatori è rimasto tale mentre la realtà lascia perplessi e molto a desiderare.

La giornalista RAI Elisabetta Grande, in suo intervento datato 31 dicembre 2021, ha asserito che “il crollo americano non è solo militare, bensì sociale, culturale e istituzionale.

L’errore più eclatante sembra risiedere nel fatto che, sotto la spinta dell'eccessivo benessere di taluni ceti sociali, della ingorda corsa al profitto dei magnati della industria, del rilevante ammontare del giro d’affari in campo commerciale e finanziario, dell'abuso del consumismo, la composita società statunitense abbia smarrito la strada dei sani valori umani, dell'idealismo, della responsabilità oggettiva.

Non basta atteggiarsi o ritenere di essere la più forte potenza militare del Mondo per fregiarsi della nomea di “democrazia esemplare” (più o meno dimostrabile o esportabile), di assennata guida del Mondo libero, di artefice di ricchezza e di felicità.

Come è ben possibile arguire, gli elementi di spicco della classe dirigente degli Stati Uniti - pur senza venire meno al sacrosanto rispetto per la maggioritaria parte sana del proficuo popolo americano - smaniosi di allargare il proprio campo d’azione e di controllo, non sono esenti dalla accusa di “provocazione” oltre che da quella di imbastire “trame sotterranee”, magari innescando tensioni locali e internazionali.

Senza dire delle ingerenze che, pur se più o meno camuffate da interventi in difesa o in ripristino delle libertà fondamentali e della democrazia dei popoli, hanno puntato nel passato a favorire manovre di affermazione economica e politica prettamente legate ad obiettivi di inserimento in zone strategiche, specie quando si sono palesate importanti motivazioni di predominio dei mercati o di sfruttamento di essenziali risorse naturali.

Il tutto con l’arroganza di chi presume di essere all’apice della potenzialità militare.

Non è con la forza delle armi, specie se ostentate a fronte di edonistiche progettualità, che si può imporre una sorta di predominio su altri popoli o su altre Nazioni.

La pace mondiale non si raggiunge mediante drastiche e contrastanti prese di posizioni o mediante sorde lotte a base di “veti”, “sanzioni”, “dazi doganali”.

Non si raggiunge neppure facendo prevalere gli anatemi per i comportamenti delle parti avverse senza prima avere analizzato a dovere i propri piccoli o grandi errori di fondo.

Una circostanza ancora più grave si concretizza nel momento in cui si ricorre alla strumentalizzazione di organismi associativi di liberi Stati (come ad esempio l’ONU e la NATO) nel tentativo di tenere sotto scacco talune Nazioni teoricamente avverse o riottose che, più o meno ragionevolmente, contrastano talune iniziative USA ritenute esorbitanti, invadenti o addirittura “minacciose”, anche se in effetti sono solo frutto di irragionevolezza.
A parte, infine, il ripetersi di “dichiarazioni” inconsulte o di atteggiamenti prevaricatori, del tutto assimilabili ad autentiche gaffe diplomatiche, visti in chiave provocatoria dall’altra parte della barricata.

Volendo essere, tuttavia, più obiettivi e imparziali possibili è da sottolineare in grassetto che il discorso, parecchio chiaramente, non concerne solo gli Stati Uniti e la fascia di Paesi che per un verso o per l’altro gravitano nella loro orbita, ma riguarda, allo stesso identico modo e con le medesime colpevolezze, quelle Nazioni che dominano la parte avversa e bloccano pregiudizialmente ogni teorica possibilità di dialogare costruttivamente per cercare di salvare la stirpe umana, la natura, l’esistenza stessa del Pianeta.

Nulla di nuovo sotto il sole e, a tal proposito si è costretti ad assistere, pur se ormai assuefatti al clima da “guerra fredda” del periodo staliniano, kruscioviano e kennediano, alla sconsiderata escalation della tensione mondiale, in gran misura alimentata da una parte dalla insidiosa e preponderante politica statunitense (anche attraverso l’incauto allargamento della NATO nei paesi dell'est europeo più o meno adiacenti alla Federazione Russa - vedi cartina a fianco) e dall’altra accentuato dai ricorrenti e più o meno velati anatemi di stampo putiniano circa un possibile ricorso al tragico impiego delle super micidiali armi nucleari. L’Europa dalle tante divergenti facce ha sbagliato, facendo correre enormi rischi alla propria popolazione, nell'assumere un atteggiamento di sfida a fronte del quale non ha altro a disposizione che il ricorso al boomerang delle “sanzioni”, peraltro facendosi chiamare in causa a fronte delle provocatorie sostanziose forniture di materiale bellico d’ogni specie e qualità ad una delle fazioni in lotta, pur se quella aggredita.

La cruenta, sconsiderata e crudele guerra in Ucraina quasi certamente avrebbe potuto essere evitata se non si fosse spudoratamente soffiato sul fuoco già da tempo acceso e si fosse esercitata, di contro, la massima pressione diplomatica (non militare) affinché i contendenti si sedessero, come suole dirsi, attorno ad un tavolo, magari chiusi in una sorta di clausura, sino a che non avessero trovata la strada maestra della convivenza, pur se solo a titolo di compromesso e pur accettando la rinuncia alla forza per dirimere talune controversie sia di natura territoriale che di principio.

Le superpotenze militari che oggi dominano lo scenario mondiale dovrebbero finalmente rendersi conto che non esiste alcuna valida alternativa alla pace se non il costruttivo dialogo.

Essendo ciò un incontrovertibile assioma perché stuzzicare in mille maniere l’orso ex-sovietico, magari sino a farlo divenire ancora più aggressivo e pericoloso?

L’adesione alla “NATO”, che vede l’Italia addirittura fra i Paesi fondatori, riguarda in particolare l’opportuno impegno della “solidarietà fra Nazioni” da far scattare solo in presenza di aggressioni “nemiche”, solidarietà che in ogni caso non dovrebbe mai derogare dalla sostanzialità “difensiva” degli accordi sottoscritti.
Men che meno dovrebbe essere una forma di tacita approvazione e condivisione dell'allargamento a tappeto delle “zone di influenza NATO”, magari in contrasto con pregressi equilibri e intese internazionali.
Ove una Nazione aderente alla NATO, specie se con preponderante incisività in seno ad essa, decida di assumere, nei confronti di un qualsivoglia Paese collocato in altri schieramenti o ricadente in diverse aree di influenza, iniziative non concordate, o agisce e opera in forza di esclusive determinazioni o di propri interessi economici, magari incentivando tensioni diplomatiche o atteggiamenti drastici, non sembra ammissibile che le Nazioni consociate a soli fini difensivi siano “obbligate” ad intervenire in suo favore.
Ne andrebbe di mezzo la sovranità dei singoli Stati aderenti.
La solidarietà non significa subordinazione e tanto meno complicità.
Vedi, ad esempio, l’escalation del braccio di ferro fra Stati Uniti e Cina (oggi impersonati, chissà se nel bene o nel male, da Biden e Xi Jinping) circa l’inconsulta visita di Nancy Pelosi - Speaker della Camera dei Rappresentati USA - a Formosa (Taiwan) su cui la Cina non demorde dall’accampare sovrani diritti. Una evitabile quanto inutile “provocazione”.
Per inciso dal 1949 l'isola di Formosa divenne sede nazionale del governo cinese del Kuomintag (anticomunista o nazionalista che dir si voglia), retto dal Generalissimo Chiang Kai-shek , che durante tutto il secondo conflitto mondiale aveva partecipato alla guerra e rappresentava la Cina in seno alla alleanza delle 4 Grandi Potenze (Stati Uniti,Inghilterra, Russia, Cina).
Nel 1949 il Governo del Kuomintag di Chiang Kai-shek (confermato sino al 1972), rifugiatosi nell'isola a seguito della sconfitta subita ad opera dell'’emergente regime comunista di Mao Tse Tung, proclamò l’indipendenza di Formosa (Taiwan) non rinunciando altresì a rivendicare in sede costituzionale la sovranità su tutta la Cina continentale e il diritto a mantenere, in virtù della partecipazione alla guerra fra le citate 4 Grandi Potenze vincitrici, il pieno diritto della rappresentanza cinese alle Nazioni Unite (ONU) e in altre organizzazioni mondiali cui, peraltro, aveva contribuito alla loro fondazione.
Tale posizione le fu riconosciuta, anche durante il periodo della cosiddetta “guerra fredda”, da gran parte dai Paesi del Mondo Occidentale, Stati Uniti in primo luogo, oggi impliciti garanti della sua esistenza.
In base a tali considerazioni il “diritto di veto ONU”, statuito in sede della sua fondazione, dovrebbe deduttivamente spettare più alla Repubblica Cinese di Formosa (Taiwan) che alla Cina maoista di Pechino.
Non va dimenticato che nel calderone del farraginoso apparato ONU, fra l’altro esageratamente dispendioso, sono appollaiati ben 204 Stati del Mondo (di cui 193 “sovrani”e 11 non riconosciuti) dai quali promanano diversificate situazioni strutturali, politiche, culturali, religiose.
E’ emersa a più riprese la constatazione, particolarmente a fronte della odierna crisi fra Russia e Ucraina, che l’ONU, in pratica, non è in grado di assolvere la sua principale funzione, quella di assicurare e mantenere la pace. Quindi, a tale scopo, la citata Organizzazione è pressoché superflua per non dire inutile.
E’ evidente che tale incapacità si ripercuote drasticamente sulla vita delle popolazioni loro malgrado coinvolte nei conflitti, in rivoluzioni più o meno popolari, in cruenti scontri locali e tribali, in colpi di Stato più o meno indolori, in attentati terroristici, in accese rivendicazioni territoriali, e chi più ne ha più ne metta.
Per altro verso non è certo rassicurante il sapere che le sorti del Pianeta sono racchiuse nelle “borse cifrate” che custodiscono i dati di accesso e di procedura di lancio dei micidiali ordigni nucleari sempre pronti all’uso nei “bunker” sparsi in vari territori.

Sembra che i vari despoti delle Nazioni che dispongono di un più o meno potente “arsenale nucleare” se le tengano sempre a portata di mano, magari permettendosi, tracotantemente, di minacciarne l’uso ove provocatoriamente e irreversibilmente ostacolati nel perseguimento di eventuali obiettivi revanscisti o egemonici.

Cosa succederebbe se qualcuno di costoro, improvvisamente, uscisse fuori di senno o perdesse il controllo dei propri nervi ?

Dopo le già accennate dispendiose vicissitudini legate alla guerra di Corea (1950/1953), all’insuccesso di Cuba (1961), alla massacrante guerra del Vietnam (1960/1973), alle contestate due Guerre del Golfo (1991 e 2003), alla negativa esperienza NATO in Libia (2011) e, ultima ma forse la più grave, alla ingloriosa fine della lunga, penosa e costosa avventura NATO-USA in Afganistan (2021), l’opinione pubblica statunitense ha accentuato la pressione contro la politica interventista, sperando che le varie Amministrazioni decidano di adottare politiche meno invasive e meno velleitarie.

Ciò non toglie però che nei piani alti degli apparati economici, finanziari e militari che dominano le strutture portanti degli Stati Uniti, pur a fronte della nomea di più grande democrazia del Pianeta, si seguita ad agire senza eccessivi scrupoli, anche tirando in ballo un possibile massiccio impiego del potenziale militare offensivo di cui dispongono, ogni qual volta è in gioco il proprio peso decisionale e la propria influenza nel continuo evolversi degli scenari geopolitici dei vari Continenti, fra cui, in primo luogo, l’Europa.

La crescente propensione della variegata e multiculturale società statunitense (non certo quella dei generali e ammiragli del Pentagono) verso una politica di “non intervento”, dovrebbe indurre la Casa Bianca a più miti consigli, convalidando la tesi che la NATO non è più rispondente alle originarie finalità difensive. I mezzi d’informazione hanno diffuso, in merito, la notizia che la Germania sembra avere avanzato la richiesta di “ritiro delle truppe americane (e relative armi atomiche) dal proprio territorio e da quelli degli altri Paesi europei”.
Papa Francesco, reiteratamente e instancabilmente, ammonisce i “responsabili delle Nazioni dominanti” e quelli dei Paesi in cui è di casa il terrore di sanguinosi conflitti locali, a smetterla di impiegare la violenza delle armi per dirimere i problemi e le discordie esistenti.
L’attuale indomito Pontefice seguita a percorrere, in merito, la strada maestra degli illuminati concetti a suo tempo esposti da Papa San Giovanni XXIII nella sua impareggiabile enciclica “Pacem in Terris”, promulgata l’11 aprile 1963 e sempre di grande attualità, in cui con dovizia di argomenti e di riflessioni, ebbe a trattare “il tema molto scottante del disarmo” e in cui fu indicata l’importanza dei negoziati a fronte della pericolosa divisione in blocchi di Nazioni e del rischio di una guerra nucleare.
Da tale enciclica prese corpo, altresì, la lapalissiana verità che è “impossibile pensare che nell’era atomica la guerra possa essere utilizzata come strumento di potere o di giustizia”.
Vox clamans in deserto ?

luglio 2023                                                                                                  Luau

     

A convalida di quanto sin qui detto in merito alle velleità egemoniche USA, non tanto facilmente giustificabili, non sembra fuor di luogo rifarsi al testo di una riflessione datata 2003, tratta dal mio libro “Enna 1943 - Ricordi di guerra” :
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     U.S.A. - GENDARME DEL MONDO?

È a conoscenza di un po’ tutti che al verificarsi di qualsivoglia tensione internazionale o nella misura in cui venga posta in discussione la propria posizione egemonica (militare o economica), gli Stati Uniti, magari di riflesso rispetto a situazioni di crisi riguardanti Nazioni “consociate” o annoverate come “amiche”, ricorrono spesso all’avvertimento di un possibile eventuale impiego del loro superpotente apparato militare. E’ ampiamente dimostrato, tuttavia, come e quanto tale atteggiamento si sia rivelato, nel tempo, parecchio controproducente rispetto alla primaria esigenza del mantenimento della pace mondiale. Buona parte delle ricorrenti crisi - con relativi conflitti armati e conseguenti rigurgiti di natura terroristica, non solo di matrice islamica - derivano dal permanere di tale rischiosa politica, peraltro contagiosamente adottata, non tanto giustificatamente, anche da contrapposte potenti nazioni emergenti, in primo luogo la Cina ex maoista.
Senza dire, in aggiunta, dell’inasprirsi delle tensioni a sfondo ideologico e di fanatismo religioso, specie per la crescente intraprendenza di una gran parte del mondo islamico.
Tenuto conto del delicato e variegato scenario mondiale venutosi a creare, è evidente che la diplomazia basata sulla forza militare, da chiunque adottata, nuoce all’instaurazione di stabili e pacifici rapporti fra gli Stati, sia essi appartenenti al vecchio mondo cosiddetto “occidentale” e ai suoi “satelliti”, che a quello medio orientale, asiatico continentale, sud - americano e sud - africano, peraltro in piena fase di sviluppo socio economico e militare. Gli interessi di parte, gli obiettivi contrastanti, le insanabili divergenze di natura politica, le creano e acuiscono un incontrollabile circuito di costante competizione a livello globale. E non va sottaciuto il potenziale pericolo nucleare che tiene il Mondo in perenne stato di rischio autodistruttivo. Cosa accadrebbe all’umanità e al pianeta Terra se, Dio non voglia, dovesse verificarsi una terza guerra mondiale?
Non è sicuramente questa la sede per evidenziare quanto abbiano influito e ancora influiscano i misfatti nei secoli perpetrati dal colonialismo europeo sugli odierni comportamenti degli Stati a prevalenza mussulmana o di parecchi dei Paesi intesi come “sottosviluppati”, in genere ex possedimenti abbandonati al loro miserevole destino e spesso in mano a despoti locali, sfruttatori multinazionali, sette crudeli e inumane. Così come non è questo il contesto adatto per valutare, rispetto ai rivolgimenti socio politici e bellici verificatisi a livello globale dopo la seconda guerra mondiale, quale sia stata e quale sia tuttora il peso che su di essi ha avuto il periodo storico che va dalla proclamazione dell’indipendenza U.S.A. (1776) ai nostri giorni.
Non è facile, in generale, e forse non lo è nei particolari, formulare apprezzamenti o biasimi, esprimere commenti o trarre conclusioni. I dubbi sono tanti e lasciano perplessi.
Solo l’imparziale “tribunale della storia”, negli anni a venire e per chi ci sarà, potrà essere in grado d’emettere esaustivi verdetti circa taluni arroganti e ricorrenti comportamenti delle citate “superpotenze” talvolta addirittura in contrasto, relativamente ai metodi e alla forma, con i principi della civile convivenza e con le decisioni adottate dall’ O.N.U.
Che senso ha, a tal proposito, constatare che l’operato di quest’ultimo organismo supernazionale è spesso condizionato o bloccato dall’anacronistico “diritto di veto”?

 

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             Guerra o pace? Questo è il dilemma.


Il Medio Oriente e i Paesi Arabi in generale - risaputamente smembrati in una precaria varietà di frontiere, di stati e staterelli, nell’ambito dei quali si contrappongono le due principali ramificazioni monoteiste dell’Islam, Sunniti e Sciiti - sono divenuti il cratere principale di un pericoloso vulcano guerrafondaio che preoccupa sempre più e danneggia pesantemente l’aspirazione alla pace mondiale. La millenaria rivalità tra le varie fazioni islamiche, talvolta straripata in aperti conflitti armati, ma prevalentemente affidata alla criminale prassi del terrorismo e degli attentati, ha indirettamente coinvolto, per svariate motivazioni di interesse economico, prevalentemente legato al petrolio, o di egemonia politica e strategica, anche talune Nazioni del cosiddetto Mondo Occidentale.
Sono abbastanza note le cause che, dalla fine del periodo colonialista in poi e dopo la creazione dello Stato di Israele, hanno innescato in quella particolare zona del Mondo tutta una serie di conflitti locali. Implacabili e spietati conflitti che ancora oggi seguitano ad interessare e ad insanguinare parecchi territori facenti capo a Israele, Egitto, Gaza, Siria, Libano, Giordania, Iraq, Iran, Kuwait, Stato Islamico (ISIS),Yemen, Libia. Senza dire delle violente lotte fratricide e dei genocidi che tuttora sconvolgono parecchie zone dell’Africa. Gli insanabili contrasti, anche per effetto della interessata e talvolta pesante interferenza, diretta e indiretta, delle cosiddette Superpotenze mondiali, non sembra che si possano facilmente dirimere o eliminare. Oggi il Medio Oriente è divenuto una sorta di Santabarbara che potrebbe maggiormente esplodere, in un crescendo incontrollabile, finendo con l’innescare, di fatto, varie concause e conseguenze che potrebbero degenerare in un pericolosissimo “terzo conflitto mondiale”.
L’attentato, motivato o meno, che ha portato alla morte il generale iraniano Quassem Soleimani, condotto a termine da “droni” USA, su specifico ordine dell’imprevedibile e cinico Presidente Trump, ha fornito al Mondo una ulteriore dimostrazione che certi ambienti guerrafondai (dell’una e dell’altra parte in causa) sono vocati più all’esercizio della violenza che a quello della diplomazia e del dialogo. In alto loco si è però scientemente (o solo incoscientemente) trascurato il fatto che l’omicidio a sangue freddo, per motivazioni di rivalsa o di vendetta, è pur sempre un omicidio e non può essere equiparato alla ragionevole “punizione” di un presunto colpevole, pur se presentato e chiamato in causa come responsabile ed organizzatore di attentati, di azioni terroristiche o solo perché a capo di unità speciali per operazioni segrete all’estero. Non siamo più nell’epoca dei giudizi sommari parecchio in uso, a suo tempo, nel Far West o dei criminali metodi alla Al Capone. Può darsi che l’impulsivo inquilino della Casa Bianca, esprimendo in pieno la mentalità prepotente di chi detiene il potere, non abbia valutato le possibili conseguenze e non si sia reso conto a quale pericolosa “escalation” abbia dato il via. Nella misura in cui sostiene che è suo dovere difendere gli americani (purtroppo intrufolati dappertutto), ha sicuramente creato condizioni di grave rischio per milioni di altri cittadini del Mondo. Non basta avere alle spalle un potenziale militare di assoluta superiorità per fare la faccia feroce contro chiunque. Decantata quanto costosissima superiorità militare che si estrinseca, purtroppo, oltre che parallelamente alla continua ricattatoria minaccia di “sanzioni economiche”, anche mediante l’eventuale automatico coinvolgimento dei Paesi in atto aderenti alla NATO, fra cui in prima fila l’Italia. Secondo le regole, neppure al pur potente Presidente degli Stati Uniti dovrebbe essere consentito di decidere “da solo” di varcare il Rubicone, come se la cosa riguardasse esclusivamente la Nazione da lui temporaneamente rappresentata.
La storia si ripete, anche se oggi la fonte della forza bruta dei guerrafondai non scaturisce più dalla vecchia e passiva Europa, bensì da Paesi d’altri continenti che hanno fatto proprio il credo della “superiorità” e della “invincibilità”. In mano a codesti nuovi promotori e artefici di sciagure planetarie, quale sarà il futuro dei popoli della Terra, tutti inclusi e nessuno escluso?
Papa Francesco, in occasione del suo recente viaggio in Giappone ove ha visitato i luoghi dell’esecrando misfatto di Hiroscima e Nagasachi (città in cui l’arma atomica fu senza alcuno scrupolo impiegata dagli americani, nell’agosto 1945, provocando, a parte gli incommensurabili danni ambientali, l’ecatombe di diverse centinaia di migliaia di morti), ha detto che il Mondo deve mantenere viva la memoria storica dei nefasti avvenimenti del passato se vuole evitare che possano ripetersi, in danno della Pace globale. A prescindere dalla autorevolezza o meno del suo messaggio, è pienamente condivisibile la convinzione che conservare e trasmettere, particolarmente alle giovani generazioni, la “memoria” di tante passate tragiche e criminali sciagure, può stimolare efficacemente la coscienza delle masse. E’ augurabile che tale convinzione possa anche indurre ad approntare una valida invalicabile barriera contro quella lercia minoranza di personaggi senza scrupoli che, magari in forza di pilotati sistemi pseudo democratici, detengono e manovrano le leve del potere economico e militare. Le cosiddette “SUPERPOTENZE” mondiali (USA, Russia, Cina, e satelliti vari), dovrebbero comprendere che non si può ottenere una duratura PACE mondiale condizionando, per proprie motivazioni egemoniche o economiche, le strutture portanti (ideologiche, religiose e antropologiche) dei Paesi interessati, oltre che le stesse basi esistenziali della compagine mondiale delle altre Nazioni. A furia di scherzare col fuoco si potrebbe generare un apocalittico incendio, un irreversibile disastro planetario. La strada che conduce alla guerra viene costruita da costoro, passo dopo passo, sino a giungere ad un presumibile punto di non ritorno.
E, a proposito della “memoria del passato”, vale la pena ribadire l’occorrenza che essa debba essere sempre fondata su imparziali giudizi (non certo quelli unilaterali dei potenti di turno o precostituiti ad arte da taluni ambienti interessati a non far conoscere la verità) che mettano il più possibile in luce i lati oscuri o taciuti degli avvenimenti, i comportamenti dei personaggi politici e militari che su di essi hanno influito, gli interessi egemonici ed economici dei vari centri di potere mondiale che li hanno incentivati. Il tutto nel quadro, più o meno rispettoso, delle convenute normative internazionali.
Le svariate tendenze ideologiche o di fanatismo religioso, pur se talvolta impiegate come paravento o come strumento propagandistico, non dovrebbero mai divenire altrettante spinte revansciste o assolutiste e non dovrebbero seguitare ad innescare motivazioni strumentali per deleteri scontri armati fra Nazioni. E’ dovere di chi ancora non ha perso di vista la realtà dell’oggi, manifestare solidarietà e condivisione a chi lotta, nel Mondo già parecchio danneggiato ecologicamente, per affermare l’aspirazione a vivere in PACE, senza la costante paura di avere sul collo una sorta di spada di Damocle.
C’è solo da augurarsi che i nefasti dispensatori di morte che sperimentano, costruiscono e vendono armi sempre più sofisticate e micidiali anche a gente impreparata ad usarle e che le adopera per spargere disastri, i vertici politici delle Nazioni turbolente che pretendono di dominare con la forza tutto e tutti, gli esecutori che formano i quadri militari di comando, i mercenari o i fanatici che vivono e agiscono all’insegna del terrore, comprendano, alla fine, che se il Pianeta Terra, mercé la loro deprecabile opera, dovesse essere avviato verso la catastrofe finale della autodistruzione, neppure loro potranno godere di un lasciapassare verso la salvezza.

6 gennaio 2020 Luau

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        LA PACE MONDIALE e LA METASTASI DEL POTERE  

         EGEMONICO E MILITARISTICO DEGLI STATI UNITI.


Nell’ambito di vastissimi territori asiatici e africani, risaputamente smembrati in una numerosa varietà di stati e staterelli, a parte la miserrima vita e la indigenza delle popolazioni, si susseguono cruenti conflitti locali, scontri tribali, attentati terroristici. Rappresentano oggi un pericoloso vulcano che preoccupa parecchio e compromette ogni aspirazione alla pace mondiale.
Nel settore mediorientale, in particolare, si contrappongono le due principali ramificazioni monoteiste dell’Islam, Sunniti e Sciiti, affiancati e solidali solo nella pregiudiziale e irriducibile odiosità verso Israele.
La millenaria rivalità tra le varie fazioni che compongono il mosaico islamico, talvolta tracimata in aperti conflitti armati o prevalentemente affidata alla criminale prassi del terrorismo e degli attentati, ha indirettamente coinvolto, per svariate motivazioni di interesse economico prevalentemente legate al petrolio e al gas naturale, oltre che talune Nazioni appartenenti al cosiddetto Mondo Occidentale, le due superpotenze ex marxiste, Russia e Cina.
Sono abbastanza note le cause che, dalla fine del periodo colonialista in poi e dopo la creazione dello Stato di Israele, hanno innescato in una particolare zona del Mondo tutta una serie di conflitti locali. Implacabili e spietati conflitti che ancora oggi seguitano ad interessare e ad insanguinare parecchi territori facenti capo a Israele, Egitto, Gaza, Siria, Libano, Giordania, Iraq, Iran, Kuwait, Stato Islamico (ISIS),Yemen, Libia. Senza dire delle violente lotte fratricide e dei genocidi che tuttora sconvolgono parecchie zone dell’Africa.
Gli insanabili contrasti, anche per effetto della interessata e talvolta pesante interferenza, diretta e indiretta, delle cosiddette Superpotenze mondiali, non sembra che si possano facilmente dirimere o eliminare. Oggi il Medio Oriente è divenuto una sorta di Santabarbara che potrebbe esplodere, in un crescendo incontrollabile, finendo con l’innescare, di fatto, varie concause e conseguenze che potrebbero degenerare in un pericolosissimo “terzo conflitto mondiale”.
L’attentato, motivato o meno, che ha portato alla morte il generale iraniano Quassem Soleimani, condotto a termine da “droni” USA, su specifico ordine dell’imprevedibile e cinico Presidente Trump, ha fornito al Mondo una ulteriore dimostrazione che certi ambienti guerrafondai (dell’una e dell’altra parte in causa) sono vocati più all’esercizio della violenza che a quello della diplomazia e del dialogo.
In alto loco si è però scientemente (o solo incoscientemente) trascurato il fatto che l’omicidio a sangue freddo, per motivazioni di rivalsa o di vendetta, è pur sempre un omicidio e non può essere equiparato alla ragionevole “punizione” di un presunto colpevole, pur se presentato e chiamato in causa come responsabile ed organizzatore di attentati, di azioni terroristiche o solo perché a capo di unità speciali per operazioni segrete all’estero.
Non siamo più nell’epoca dei giudizi sommari parecchio in uso, a suo tempo, nel Far West o dei criminali metodi alla Al Capone.
Può darsi che l’impulsivo inquilino della Casa Bianca, esprimendo in pieno la mentalità prepotente di chi detiene il potere, non abbia valutato le possibili conseguenze e non si sia reso conto a quale pericolosa “escalation” abbia dato il via.
Nella misura in cui sostiene che è suo dovere difendere gli americani (purtroppo intrufolati dappertutto), ha sicuramente creato condizioni di grave rischio per milioni di altri cittadini del Mondo. Non basta avere alle spalle un potenziale militare di assoluta superiorità per fare la faccia feroce contro chiunque.
Decantata quanto costosissima superiorità militare che si estrinseca, purtroppo, oltre che parallelamente alla continua ricattatoria minaccia di “sanzioni economiche”, anche mediante l’eventuale automatico coinvolgimento dei Paesi in atto aderenti alla NATO, fra cui in prima fila l’Italia.
Secondo le regole, neppure al pur potente Presidente degli Stati Uniti dovrebbe essere consentito di decidere “da solo” di varcare il Rubicone, come se la cosa riguardasse esclusivamente la Nazione da lui temporaneamente rappresentata.
La storia si ripete, anche se oggi la fonte della forza bruta dei guerrafondai non scaturisce più dalla vecchia e passiva Europa, bensì da Paesi d’altri continenti che hanno fatto proprio il credo della “superiorità” e della “invincibilità”. In mano a codesti nuovi promotori e artefici di sciagure planetarie, quale sarà il futuro dei popoli della Terra, tutti inclusi e nessuno escluso?
Papa Francesco, in occasione del suo recente viaggio in Giappone ove ha visitato i luoghi dell’esecrando misfatto di Hiroscima e Nagasachi (città in cui l’arma atomica fu senza alcuno scrupolo impiegata dagli americani, nell’agosto 1945, provocando, a parte gli incommensurabili danni ambientali, l’ecatombe di diverse centinaia di migliaia di morti), ha detto che il Mondo deve mantenere viva la memoria storica dei nefasti avvenimenti del passato se vuole evitare che possano ripetersi, in danno della Pace globale.
A prescindere dalla autorevolezza o meno del suo messaggio, è pienamente condivisibile la convinzione che conservare e trasmettere, particolarmente alle giovani generazioni, la “memoria” di tante passate tragiche e criminali sciagure, può stimolare efficacemente la coscienza delle masse.
E’ augurabile che tale convinzione possa anche indurre ad approntare una valida invalicabile barriera contro quella lercia minoranza di personaggi senza scrupoli che, magari in forza di pilotati sistemi pseudo democratici, detengono e manovrano le leve del potere economico e militare.
Le cosiddette “SUPERPOTENZE” mondiali (USA, Russia, Cina, e satelliti vari), dovrebbero comprendere che non si può ottenere una duratura PACE mondiale condizionando, per proprie motivazioni egemoniche o economiche, le strutture portanti (ideologiche, religiose e antropologiche) dei Paesi interessati, oltre che le stesse basi esistenziali della compagine mondiale delle altre Nazioni.
A furia di scherzare col fuoco si potrebbe generare un apocalittico incendio, un irreversibile disastro planetario. La strada che conduce alla guerra viene costruita, passo dopo passo, sino a giungere ad un presumibile punto di non ritorno.
E, a proposito della “memoria del passato”, vale la pena ribadire l’occorrenza che essa debba essere sempre fondata su imparziali giudizi (non certo quelli unilaterali dei potenti di turno o precostituiti ad arte da taluni ambienti interessati a non far conoscere la verità) che mettano il più possibile in luce i lati oscuri o taciuti degli avvenimenti, i comportamenti dei personaggi politici e militari che su di essi hanno influito, gli interessi egemonici ed economici dei vari centri di potere mondiale che li hanno incentivati.
Il tutto nel quadro, più o meno rispettoso, delle convenute normative internazionali.
Le svariate tendenze ideologiche o di fanatismo religioso, pur se talvolta impiegate come paravento o come strumento propagandistico, non dovrebbero mai divenire altrettante spinte revansciste o assolutiste e non dovrebbero seguitare ad innescare motivazioni strumentali per deleteri scontri armati fra Nazioni.
E’ dovere di chi ancora non ha perso di vista la realtà dell’oggi, manifestare solidarietà e condivisione a chi lotta, nel Mondo già parecchio danneggiato ecologicamente, per affermare l’aspirazione a vivere in PACE, senza la costante paura di avere sul collo una sorta di spada di Damocle.
C’è solo da augurarsi che i nefasti dispensatori di morte che sperimentano, costruiscono e vendono armi sempre più sofisticate e micidiali anche a gente impreparata ad usarle e che le adopera per spargere disastri, i vertici politici delle Nazioni turbolente che pretendono di dominare con la forza tutto e tutti, gli esecutori che formano i quadri militari di comando, i mercenari o i fanatici che vivono e agiscono all’insegna del terrore, comprendano, alla fine, che se il Pianeta Terra, mercé la loro deprecabile opera, dovesse essere avviato verso la catastrofe finale della autodistruzione, neppure loro potranno godere di un lasciapassare verso la salvezza.
6 gennaio 2020 Luau

 

Ass. Socio-Cult. «ETHOS - VIAGRANDE»
Presidente Augusto Lucchese
e-mail: augustolucchese@virgilio.it