 
STATI UNITI -
Velleità da “Dominium Mundi” ?
Volendo tracciare un pur sintetico quadro riguardante l’origine
storica della odierna Federazione degli STATI UNITI d’AMERICA
(United
States of America - USA), non si può non prendere il via dalla
fatidica data del 4 luglio 1776 in cui i delegati di tredici
colonie cosiddette “ribelli” rispetto all’oppressivo dominio
inglese, ebbero a stilare, approvandola ad unanimità, la
“DICHIARAZIONE DI INDIPENDENZA”.
Fu, in quel momento, un chiaro atto di sfida nei riguardi
dell’esecrabile Impero Britannico, stante che, per la nuova
realtà sociale ed economica venutasi a creare in quella parte
del nuovo Mondo, si poneva sul tappeto l’occorrenza di porre
definitivamente fine al perdurante drastico e tracotante sistema
di governo coloniale che, da oltre un secolo, taglieggiava e
attanagliava i vasti e ricchi territori d’oltre Atlantico.
Territori di cui, peraltro, l’Inghilterra s’era impadronita
(1606) in maniera alquanto anomala, sfruttando l’iniziativa
della “London Company” - una compagnia commerciale,
della “Virginia Company” - la quale, supportata dal benestare concesso da Re Giacomo 1° d’Inghilterra, si
prefiggeva lo scopo di creare nuovi insediamenti nel nuovo
continente, attribuendone poi la sovranità alla corona inglese.

In quel periodo ebbe a compiersi anche l’avventuroso viaggio
della Mayflower (immagine a destra), la nave con la quale
qualche centinaio di religiosi staccatisi dalla Chiesa Anglicana
e già emigrati, per sfuggire alle persecuzioni, nei più
tolleranti Paesi Bassi, avevano deciso di abbandonare l’insicura
e ostile Europa.
Il 16 settembre 1620 salparono alla volta del Continente
americano e raggiunsero la meta circa due mesi dopo, il 19
novembre, sbarcando a Capo Cod, località delimitante una
penisola sulla riviera dello Stato del Massachusetts, a sud est
di Boston, ove fondarono la “colonia” di Provincetown.
Poi, mediante un accordo stipulato con i residenti già ivi
allocati, il cosiddetto “Patto del Mayflower”, si assicurarono
il governo della zona.
Vi fu anche l’arrivo di una seconda Mayflower con a bordo un
altro consistente gruppo di religiosi, sbarcati l'11 dicembre
1620, sempre sulla costa del Massachusetts, ove diedero vita
alla Colonia di Plymouth, poi ufficialmente riconosciuta nel
giugno 1621.
In quegli anni di penetrazione territoriale verso ovest, di
notevole sviluppo economico, di integrazione razziale, nacquero
e fiorirono molti grandi agglomerati abitativi da cui trassero
origine, poi, parecchie delle odierne “megalopoli” statunitensi,
oggi ben note per i loro spettacolari scenari di grattacieli, di
funzionali e spaziose “street”, di futuristiche sopralevate, di
monumentali edifici del potere, di quartieri e zone votate alla
grande industria e agli studi di sviluppo tecnico-scientifico,
di “templi” dedicati allo scibile umano essenzialmente orientato
verso una sorta di proiezione americana dell'illuminismo europeo
di Voltaire, Rousseau, Montesquieu.
La citata solidale “dichiarazione di indipendenza” prese le
mosse dalle insanabili divergenze e dai contrasti insorti con
gli inglesi oppressori e occupanti, contrasti e divergenze che
avevano innescato l’avvio della “guerra di liberazione”, di
fatto intrapresa dagli Stati ribelli il 19 aprile 1775 e
protrattasi, con alterne vicende, sino al 3 settembre 1783.
Lexington, Concord, Bunker Hill, Great Bridge, Ticonderoga,
Creek Bridge, Boston, Long Island, New York, Trenton,
Filadelfia, Saratoga, Charleston, Kings Mountain, Eutaw Springs,
Yorktown, sono i nomi delle località in cui si svolsero i più
accaniti combattimenti, con vittorie e sconfitte ottenute da
ambo le parti, pur se con pesanti perdite umane.
La guerra, alla base del suo cruento evolversi, aveva profonde e
oggettive motivazioni, prima fra tutte quella conseguente al
fatto che gli Stati ribelli non intravedevano alcuna speranza di
sviluppo e progresso ove fossero rimasti sottomessi,
amministrativamente e politicamente, alla soffocante egemonia
inglese.
Fra la folta schiera dei capi e animatori della rivolta, specie
nel settore riguardante l’approntamento, l’organizzazione e la
conduzione delle forze occorrenti per la guerra, ebbero
particolare rilievo Benjamin Franklin, George Washington,
Charles Lee, Beniamin Lincoln, Henry Knox, Marchese di La
Fayette, Joseph de Grasse (entrambi francesi), Horatio Gates,
sostenuti dai molti patrioti e comandanti locali che, pur non
disponendo né di superiorità numerica addestrativa né di
armamenti idonei e sufficienti, affrontarono e spesso subirono
gli aspri combattimenti.
Già nel 1765 s’era verificata una delle prime “sommosse” quando
il governo inglese aveva deliberato di applicare, anche nelle
colonie, la “Stamp Act”, una sorta di “marca da bollo”, in base
alla quale ogni documento commerciale o amministrativo, gli atti
legali e financo le pubblicazioni, dovevano sottostare al
pagamento di un tassa proporzionale al valore del documento
mediante una affrancatura dimostrativa del versamento.
S’era altresì verificato, il 16 dicembre 1773, l’incidente
passato alla storia come “Boston Tea Party”, quando i ribelli
assalirono le navi della Compagnia Britannica delle Indie che
deteneva il monopolio della vendita del Tè in tutta l’America,
le depredarono e buttarono a mare il loro prezioso carico.
Il reiterato verificarsi di piccoli o rilevanti scontri locali,
anche fra ribelli e lealisti, aveva ingenerato ovunque, in
definitiva, la forte tensione presto degenerata in aperto
conflitto.
E’ bene ricordare, a tal proposito, che l’Inghilterra (pur se in
regime di concorrenza e di aperto contrasto con la Francia)
deteneva allora il dominio quasi assoluto su gran parte della
America del Nord, dal Messico allora spagnoleggiante a gran
parte del Canada.
Erano territori risaputamente ricchi di pregiati
giacimenti di materie prime, di estese fertili contrade in cui
poter praticare colture intensive, di immense praterie
sostanzialmente idonee ai qualificati allevamenti di massa. Non
mancavano neppure le miniere che incentivavano la favolosa e
avventurosa “corsa all’oro”.
La nuova realtà antropologica concretizzatasi tra la fine del XV
secolo e gli albori del XVI in quelle ancora per molti versi
inviolate zone, specie nel periodo della accesa velleità
colonialista di taluni Paesi europei, vide il formarsi di una
composita società costituita da emigranti inglesi, francesi,
irlandesi, spagnoli, olandesi, e chi più ne ha più ne metta, in
buona parte “fuoriusciti” e “avventurieri”, “bucanieri” alla
Drake o alla Morgan, “proscritti” provenienti dalla patrie
galere europee.
Si trattava di una consistente massa di gente generalmente
eterogenea, spesso ben poco ossequiente al rispetto delle leggi
e del prossimo, talvolta grezza e violenta, che aveva
avventurosamente varcato l’Oceano Atlantico e che, parecchio
impropriamente, pur se omologati dall’interessato assenso delle
case regnanti dell'epoca, aveva assunto l’inopinato ruolo di
“colonizzatori”.
Erano di fatto appartenenti a gruppi parecchio diversificati,
sia dal punto di vista sociale che etnico, religioso,
sociopolitico e le nascenti strutture
amministrative e istituzionali delle “colonie” d’oltre oceano
non potevano non assumere, nel tempo, caratteristiche
palesemente disomogenee, da zona a zona.
Rispetto ai vari contesti che contrassegnavano l’Europa di quei
secoli - accettabili o discutibili che fossero - al di là
dell'Oceano era nato un anomalo tipo di società, prevalentemente
basata su un miscuglio di culture, di razze, di appartenenza a
svariati ceppi atavici, di soggetti portatori di differenti
livelli intellettuali, tecnici e scientifici, di contrastanti
canoni religiosi, di variegati indirizzi imprenditoriali e
manageriali.
Non poteva quindi non verificarsi il fenomeno della prevalenza
di sistemi di integrazione parecchio discutibili (vedi
schiavismo ed emarginazione di razza), oltre che abbondantemente
improntati sul generalizzato impiego di metodi violenti e
talvolta inumani.
Il tutto, di massima,
basato sul diffuso e indiscriminato uso di
armi personali, le famosissime “Colt”, le “Winchester”, le Smith
& Wesson, assurte ad emblema della avventurosa e sanguinosa
“conquista del Far West” e le cui fabbriche divennero l’embrione
delle odierne mostruose, spregevoli e fameliche “multinazionali
degli armamenti mady in USA”, in atto occupanti i primi cinque
posti nella turpe graduatoria mondiale dei produttori di
“strumenti di morte”, con un giro d’affari di migliaia di
miliardi di dollari. Buona parte della composita società
americana è oggi notoriamente proclive all'indiscriminato
commercio di micidiali armi d’ogni calibro e specie, smerciate
in spettacolari e invitanti negozi alla stregua del pane
quotidiano. Un ben poco positivo “identikit” del diffuso
atteggiamento tendenzialmente truculento di una consistente
massa di “yankee”.
E’ da segnalare, però, che parallelamente a ciò esiste una altra
faccia della medaglia.
Nell'ambito dei circa 350/milioni di americani che convivono
nelle vaste zone e nelle metropoli contraddistinte dalle diverse
coordinate dei 50 Stati Federati, non v’è dubbio alcuno che
lavorano e operano validissimi strati di laboriosi, integerrimi,
fattivi cittadini che esprimono con orgoglio e patriottismo
l’anima, la cultura, l’efficienza e la capacità operativa e
produttiva di una grande Nazione, indubbiamente primeggiante in
ogni campo.
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Dopo che nel 1775 era giunta a maturazione la sofferta decisione
di rompere le catene con cui il despota Impero Britannico teneva
legate le “colonie” nordamericane, emersero molte personalità di
spicco, carismatici capi, fra cui John Adams, Benjamin Franklin,
George Washington, Thomas Jefferson, Roger Sherman, James
Wilson, George Wythe, per citarne solo alcuni fra i 55 firmatari
della Dichiarazione d’Indipendenza, che anche a rischio della
propria vita s’imposero sulla scena storica e politica della
nuova Nazione repubblicana, denominata Federazione degli Stati
liberi d’America.
La Costituzione degli Stati Uniti d'America, legge fondamentale
del nuovo Stato, fu varata nel 1787 dalla “convenzione di
Filadelfia”, fu ratificata nel 1788 ed entrò in vigore nel marzo
1789.
In essa, era ben definito il sistema democratico della
separazione dei poteri, legislativo, affidato al Congresso,
esecutivo in capo al Presidente e al Governo, giudiziario di
esclusiva e autonoma competenza della Corte Suprema.
L'articolo 6° definiva e statuiva altresì il concetto del
federalismo, specificando diritti, doveri e responsabilità dei
singoli Stati.
Il primo presidente degli Stati Uniti federati fu
George
Washington (1732–1799), eletto nell'aprile del 1789 e rimasto in
carica sino al marzo del 1797, cui seguì John Adams (1735–1826),
sino al marzo del 1801.
Oggi si è giunti al 46° Presidente degli Stati Uniti d’America,
Joe Biden, un discusso personaggio ritenuto ben poco
convincente, parecchio insicuro nel gestire i rapporti
internazionali a livello globale, sostanzialmente inadatto al
particolare e rischioso momento storico evolutivo che la
comunità internazionale sta attraversando. Il suo gradimento
politico e il suo consenso elettorale sono tutt’altro che
soddisfacenti. Qualcuno riversa su di lui la responsabilità
dell'attuale stato di perdurante tensione fra i contrapposti
schieramenti di “Grandi Potenze”, già esistenti o emergenti e di
relativi irrequieti satelliti.
Fra i tanti più o meno meritevoli personaggi che contribuirono
alla nascita e alla affermazione della nuova realtà mondiale
USA, vanno ricordati Alexander Hamilton, primo responsabile del
Dipartimento del Tesoro e braccio destro del Presidente
Washington, Jonn Marshall, quarto Presidente della Corte
Suprema, Philip Mazzei, oriundo toscano nativo di Poggio a
Caiano in quel di Prato che, si dice, abbia coniato la frase "all
men are created egual” (tutti gli uomini sono creati uguali),
inserita nella “Dichiarazione d’Indipendenza”, amico personale
del terzo Presidente USA Thomas Jefferson fu il primo
diplomatico USA a Parigi, James Monroe, quinto Presidente e
assertore della famosa “dottrina Monroe” che implicitamente
propugnava l’attuazione di una politica espansionista e
interventista degli Stati Uniti, Peyton Randolph, Presidente del
primo Congresso federato, Friedrich Wilhelm von Steuben,
generale prussiano che organi zzò e addestrò le Forze Armate
cosiddette “continentali”, Abraham Lincoln
(foto accanto), 16°
Presidente (ucciso da un cospiratore sudista il 14 aprile 1865)
che guidò la Guerra di secessione (1809-1865) e indusse il
Congresso alla promulgazione del “XIII emendamento” che bandiva
la schiavitù in tutto il Paese, Ulysses Simpson Grant,
(1822-1885), Generale comandante delle Forze Armate nel corso
della citata guerra di secessione che lavorò a stretto contatto
con Lincoln e fu poi il 18° Presidente USA.
Non va sottaciuta, tuttavia, la circostanza che gli avvenimenti
prima accennati generarono nell'ambito delle variegate gerarchie
e caste politiche, militari, industriali, finanziarie degli USA
una affatto condivisibile mentalità di acquisita “superiorità”
rispetto ai Paesi viciniori, con particolare riferimento a
quelli del sub continente americano oltre che, pur se in maniera
meno estesa, anche nei riguardi del variegato scenario
internazionale.
Mentalità che, affermatasi rapidamente e ancora oggi per molti
versi dominante, farà scattare nel tempo e con frequenza
complicate divergenze diplomatiche e forti contrasti a fronte di
pretese di dominio non sempre facilmente accettabili.
Vennero a maturazione situazioni di tensione che talvolta
sfociarono in impegnativi interventi militari tesi
all’ottenimento di una maggiore “autorevolezza” oltre che ad una
sempre più consistente egemonia a livello territoriale,
economico e commerciale, imponendo oltretutto la assodata
potenzialità del “dollaro USA” come privilegiata moneta di
interscambio.
Non va trascurato il fatto che, in parallelo con l’affermazione
transnazionale del giovane agguerrito Stato, proliferarono anche
invasive e condizionanti aree di potere interno (non sempre
ammantate di legalità e di sani principi) che, in simbiosi con
la potente Massoneria e con i radicati e utilitaristi
schieramenti dei Partiti politici, oltre che con altre
organizzazioni e fondazioni più o meno lineari e trasparenti,
presero a dominare i settori nevralgici della economia, della
finanza, delle aziende multinazionali, della stessa ossatura
amministrativa e istituzionale della Nazione in rapido sviluppo.
E’ da rilevare, per inciso, che nel corso degli anni ebbero a
fare parte delle varie “logge” massoniche numerosi personaggi
politici di primo piano fra cui lo stesso Presidente George
Washington, o altri esponenti della vasta progenie istituzionale
emersa nel tempo quali James Monroe, Andrew Jackson, James K.
Polk, James Buchanan, Andrew Johnson, James Garfield, William
McKinley, Theodore Roosevelt, William Howard Taft, Warren G.
Harding, Franklin Delano Roosevelt, Harry S. Truman, Gerald
Ford.
Senza dire della inclusiva e parecchio influente galassia
borsistica di Wall Street, potenzialmente in grado di
determinare e indirizzare, talvolta speculativamente o per fini
tutt’altro che etici, gli indirizzi politici dei vari settori
della economia, a parte le utilitaristiche manovre nel campo dei
complessi e impegnativi rapporti finanziari a livello
internazionale.
Vale la pena fare qualche passo indietro per ricordare altresì
che nella fase iniziale di crescita del nuovo Stato sovrano,
nelle vaste e ancora primitive zone dell'entroterra, più o meno
distanti dai grossi centri urbani, la vita delle collettività,
stanziali o in transito, aveva preso a svolgersi alquanto
precariamente su basi in gran misura fondate sull’approssimato e
spesso inadeguato sistema degli “sceriffi”, dei “giudici
itineranti”, dei “pistoleri” assoldati dai capoccia locali sia
come addetti alla loro protezione che come uomini di fiducia per
portare a compimento ritorsioni e rappresaglie.
Non mancavano neppure gli “Scout” alla Buffalo-Bill la cui
incombenza consisteva, di massima, nell’accompagnare in posti
sicuri e idonei le carovane di emigranti o nel fungere da guida
per talune missioni militari (Army Scout).
Ai primordi del XIX secolo, infatti, alla stregua di un torrente
in piena aveva avuto avvio la sfrenata corsa alla “conquista del
West”, cui era seguita la massiccia affaristica penetrazione
ferroviaria lungo la direttrice est/ovest ed est/sud.
In vaste aree, magari occupate a titolo gratuito, s’erano
frattanto insediati parecchi più o meno efficienti “ranch” (nel
tempo assurti al ruolo di scenario per film western) la cui
funzione era l’allevamento del bestiame. Essi, quasi sempre,
erano dimora di potenti e agguerriti “allevatori” che, divenuti
indiscussi proprietari, spesso e volentieri agivano con metodi
dispotici e spregiudicati. I “ranch”, come detto strutturati su
base estensiva, erano accuditi da una numerosa e caratteristica
“categoria” di operatori specializzati, i rinomati “cowboy” dai
tipici cappelli a falde larghe, dai larghi copri pantaloni in
pelle con relative frange, dai vistosi cinturoni muniti di
funzionali fondine per l’immancabile “Colt”.
Uomini duri e spesso rozzi, avvezzi ad ogni rischio, temprati da
una vita faticosa e insicura.
La loro fondamentale attività, a parte l’ostentativo coraggio di
partecipare spericolatamente ai brutali e ben poco lodevoli
“rodei”, era rivolta all’incremento, alla riproduzione e alla
commercializzazione di immense mandrie di bovini ed equini, di
prolifere “giovenche”, di teneri “vitelli”.
Il loro compito era anche quello di addomesticare (in base alle
regole della etologia equina) i preziosi puledri e, in genere, i
focosi cavalli di razza.
Va posto in luce il fatto che il diffusissimo, vario e massiccio
impiego di questi ultimi utilissimi quadrupedi, sia per uso
civile che militare, in aggiunta all’enorme consumo ed
esportazione di carne macellata (il ben noto ”manzo”), fece sì
che tale settore si sviluppasse alla grande, prima che fosse in
gran parte surclassato dai prodotti delle concorrenziali
“fazendas” brasiliane e argentine.
Il forte incremento della diversificata popolazione insediatasi,
più o meno abusivamente, nelle vastissime e incontaminate
“praterie” e nelle fiorenti, suggestive e paesaggistiche zone
collinari e montuose dotate di fitti boschi, di estesi
protettivi canaloni, attraversate da fiumi ricchi d’acqua, fece
sì che sorgessero e si
ingrandissero a vista d’occhio parecchi
borghi pioneristici, d’ogni dimensione e tipologia (le famose
“West Town”, oggi denominati “siti fantasma”), in cui non
mancavano certo né il tradizionale “Saloon”, né la consueta
“Bank” più o meno sicura, affidabile e protetta. Si trattava di
tipici e magari improvvisati agglomerati abitativi, ricettivi ed
essenzialmente logistici, in cui disinvoltamente si muoveva una
variopinta multirazziale e spesso turbolenta popolazione, in
gran misura accresciutasi e amalgamatasi in funzione del
notevole afflusso di variegati e ibridi gruppi di “emigranti” in
cerca di fortuna.
Nelle città e zone rivierasche degli Stati Uniti, invece,
divenne parecchio rilevante l’inserimento di consistenti masse
di gente proveniente - come detto - da oltre oceano, e più o
meno socializzatasi con i vari strati di cittadini stanziali ivi
presenti.
Nell'ambito della enorme e travolgente marea di nuovi arrivati
ebbero incisiva rilevanza
* i “puritani” - una notevole massa di religiosi in fuga
dall’Europa poiché perseguitati, che diedero vita, sulla costa
orientale americana, alla “Nuova Inghilterra”; nei vasti
territori in cui essi si insediarono sono oggi presenti ben sei
Stati (Maine, New Hampshire, Vermont, Massachusetts, Rhode
Island, Connecticut);
* gli “esploratori” della già citata “Virginia Company” (da cui
la “London Company”, fondatrice della colonia chiamata
“Jamestown” in onore di Re Giacomo 1°, oggi Stato della
Virginia), di fatto intraprendenti e spregiudicati emigranti in
cerca di fortuna, insediatisi, per l’appunto, nei territori
della odierna Virginia;
* una folta schiera di perseguitati politici, criminali graziati
o evasi, errabondi d’ogni risma e specie che per circostanziali
e ovvi motivi avevano lasciato alle spalle l’Europa e si erano
riversati sulle sponde del nuovo continente, specie nell'attuale
Stato di Georgia;
Un po’ tutte queste “categorie” contribuirono in buona misura a
formare la policroma e dissonante compagine dell'emergente
eclettica entità nazionale nordamericana.
E’ da dire, tuttavia, che il nuovo “Stato Federale”, oggi
conosciuto come USA (United States of America), trasse da tale
atipico e multirazziale contesto una sorta di iniziale forza di
aggregazione sociale e di sperimentazione della convivenza di
diverse culture, oltre che la possibilità di usufruire
largamente dell'utilizzo strumentale di una larga manovalanza e
di selezionare adeguatamente i quadri occorrenti per lo sviluppo
delle varie attività produttive, strutturali e logistiche.
Il nuovo Stato, in verità, inizialmente strutturatosi in maniera
piuttosto improvvisata e approssimata ma rapidamente evolutosi e
sviluppatosi in linea strutturalmente ed economicamente
espansiva, riuscì presto ad estendersi sino alla costa del
Pacifico e ai confini del Messico ancora influenzato dalla lunga
dominazione spagnola.
In quel burrascoso periodo di assestamento, manco a dirlo,
talvolta per motivazioni più o meno accettabili, presero avvio
svariati controversi e cruenti conflitti epocali, fra cui:
* la guerra contro il Messico (1846 / 1848), il confinante Paese
dei “companeros”, eredi degli antichi Maya, Toltechi e Aztechi
che fu invaso sino ad occupare anche Città del Messico; a
seguito della pace di Guadalupe, gli Stati Uniti ottennero la
California, il Nuovo Messico, l’Arizona, il Nevada, l’Utah,
oltre a buona parte del Colorado e dello Wyoming; il corso del
fiume Rio Grande divenne il confine fra le due Nazioni;
* la cosiddetta “guerra di secessione” (1861 / 1865), di fatto
una sanguinosa e fratricida guerra civile spietatamente
combattuta fra nordisti (“unionisti”) e sudisti (“confederati”),
in gran misura dovuta alla decisione del Presidente in carica,
Abraham Lincoln, di abolire definitivamente l’inumano sistema
dello schiavismo;
* la pur breve “guerra ispano-americana” (1898) che permise
l’occupazione della Florida, della base di Guantanamo nell'Isola
di Cuba, di Porto Rico, oltre all’acquisizione di una sorta di
supercontrollo su gran parte del vasto bacino caraibico e sulla
zona in cui poi sarebbe sorto il Canale di Panama (1881/1914);
quale risultato finale gli Stati Uniti acquisirono inoltre la
possibilità di insediarsi nell'arcipelago delle Filippine e
nella Isola di Guam, al centro del Pacifico, ambedue di
rilevante importanza strategica ai fini di una eventuale
successiva fase di espansione politica ed economica in
quell’immenso Oceano, espansione già del resto avviata con
l’ottenimento, nel 1876, del protettorato sull’arcipelago delle
Hawaii alla fine divenuto, nel 1959, uno dei 50 Stati USA.
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Ma la sintesi storica de lla nascita e dello straordinario
sviluppo di quella che nell'arco di meno di due secoli diverrà
la prima “superpotenza” mondiale, sarebbe incompleta o quanto
meno lacunosa ove non si facesse riferimento ai barbari genocidi
e all’olocausto spietatamente operati contro gli
“indiani”, i cosiddetti “selvaggi pellirosse”, pur se, in
verità, si trattava di popolazioni tutt’altro che selvagge,
oltretutto dotate di una propria identità sociale,
religiosa e culturale.
Sarebbe senz’altro prolisso elencare e porre in evidenza i fatti
collegati ai reiterati sanguinosi massacri succedutisi nel corso
delle cosiddette “guerre indiane”, cui fecero da corollario
violente stragi, feroci genocidi, deportazioni di massa. Il
tutto scientemente mirato allo sterminio del popolo dei nativi
pellirosse, spudoratamente violando ogni loro secolare diritto
su quei territori che erano il loro naturale habitat ma che ora
facevano gola agli usurpatori bianchi.
Lo storico John Tolant - Premio Pulitzer 1971 - ha scritto che
“… i metodi di sterminio e segregazione attuati contro i nativi
nordamericani, vennero presi a modello da Hitler contro gli
ebrei”.
La cronistoria del lungo quanto nefasto lasso di tempo in cui le
organizzate truppe federali eseguirono l’ordine politico di
sterminare le tribù dei pellerossa, pone in evidenza il fatto
che tale sterminio fu talvolta brutalmente assecondato dai
cruenti e frequenti scontri dei nativi pellerossa con i
cosiddetti “pionieri del Far West”, in genere ben poco animati
da buone intenzioni.

Trattavasi di una enorme massa di gente avvezza ad ogni
evenienza, con famiglie e masserizie al seguito, che si
spostavano impiegando, alquanto avventurosamente, lunghe
“carovane” di celeberrimi “conestoga” (vedi immagine a fianco),
il pesante spazioso carro a trazione animale provatamente idoneo
ad affrontare massacranti e impervi tragitti. Raggiunte le zone
ritenute confacenti al loro stabile insediamento, si configurò
una vera e propria piratesca appropriazione dei fertili terreni
e degli incontaminati luoghi ove, da millenni, la generosa
natura aveva da sempre consentito l’indisturbata convivenza
della gente nativa con una grande varietà di utili risorse e con
la fauna selvatica, fra cui i bisonti che erano la principale
fonte di sostentamento delle popolazioni stanziali.
Fu una lotta impari, pur se le più combattive e le più numerose
tribù, come ad esempio i Sioux, gli Apaches, i Navajo, Cheyenne,
i Kiowa, i Mohicani, capeggiati da leggendarie figure
immortalate dalla storia, quali Cochise, Toro Seduto, Geronimo,
Cavallo Pazzo, Nuvola Rossa, si opposero con i mezzi rudimentali
di cui disponevano (frecce e lance) prima che, anche loro,
potessero fare uso di ben altre armi, quali le famosissime
carabine Winchester acquistate a caro prezzo presso gli
spregiudicati e ingordi commercianti d’armi che, in sostanza,
portavano avanti un inqualificabile sporco mestiere.
Gli odiati invasori “bianchi”, per raggiungere lo scopo dello
sterminio dei pellirosse, non si ponevano eccessivi scrupoli e,
talvolta, ricorrevano addirittura al barbaro sistema di dare
alle fiamme gli accampamenti indiani, massacrando
indiscriminatamente donne, vecchi e bambini, come
ignominiosamente avvenne in quel di Sand Creek o di Wounded Knee.
A riequilibrare le sorti della campagna di “pulizia razziale”
intrapresa con dovizia di mezzi dai crudeli “yanchee”, non
bastò, di contro, la cocente sconfitta (25 giugno 1876) loro
inferta in uno dei canyon del “Little Bighorn” ove, ad opera
degli indiani di Cavallo Pazzo e di Toro Seduto, fu tesa
l’imboscata che portò all’annientamento del “7° Reggimento
Cavalleria” del tracotante e fanatico Tenente Colonnello George
Custer il quale, per pura spavalderia e per cocciuta presunzione
di invincibilità, mandò i suoi uomini incontro a morte certa.
La mentalità all’epoca vigente, è riassunta nella infelice frase
pronunciata dal deputato James M. Cavanaugh il quale ebbe a
dire, arrogantemente e incivilmente, che “l’unico indiano buono
è l’indiano morto”.
Uomini come il generale William Sherman, come un certo
colonnello John Chivington (quello che, rivolto ai suoi
ufficiali dipendenti, aveva ordinato “scalpateli tutti, grandi e
piccoli”) o come il citato Ten. Col. George Custer, sono
ricordati per la efferatezza dimostrata nel
portare avanti le operazioni di massacro degli indiani,
presentati come “malvagi per natura”.

Vedi caso tali abominevoli personaggi potrebbero essere
considerati come una sorta di antesignani del tronfio texano
Gen.le George Patton (foto a destra) il quale, nel luglio 1943,
all’atto dello sbarco della sua strapotente Armata sulle coste
della Sicilia, riferendosi ai soldati italiani e tedeschi ebbe a
indirizzare ai suoi sottoposti un feroce messaggio, affermando
pressappoco la stessa cosa: "… se si arrendono non badate alle
mani alzate. Mirate tra la terza e la quarta costola, poi
sparate. Si fottano, nessun prigioniero. È finito il momento di
giocare, è ora di uccidere! Io voglio una divisione di killer
…". Dall’atteggiamento incivile e sprezzante del citato
dispotico generale scaturirono verosimilmente i nefasti fatti
riguardanti i due eccidi di Biscari-Acate e quello di Piano
Stella (Ragusa) in cui trovarono morte, per spietata
fucilazione, oltre un centinaio di “prigionieri di guerra”
italiani (in maggioranza) e tedeschi, in assoluto dispregio
della “Convenzione di Ginevra” del luglio 1929. Non va
sottaciuta, altresì, la strage di Canicattì. Nel contesto di
cotanti barbari episodi, parecchi appartenenti a svariate unità
militari dei cosiddetti “liberatori” agirono crudelmente e si
macchiarono di atroci comprovati delitti, pur se in un modo o
nell'altro scansarono ogni adeguata condanna quali comprovati
“criminali di guerra”.
Riprendendo il discorso del genocidio dei nativi americani è da
porre in risalto che le vittime fra la popolazione indiana
(anche vecchi, donne e bambini) ascesero a diverse centinaia di
migliaia, mentre si dice che circa altri 85/mila nativi furono
sottoposti alla forzata sterilizzazione. Alla fine, la maggior
parte dei sopravvissuti furono coercitivamente rinchiusi nelle
“riserve”, veri e propri campi di concentramento.
Nell'ambito della cerchia di comando politico e militare USA
s’era di fatto instaurato, diffondendosi rapidamente nei vari
settori della scala gerarchica, l’errato concetto della “regola
del più forte” - spesso del più violento - che poi si sarebbe
evoluta in quella della adusa tendenza alla prevaricazione e
talvolta della coartazione, facendo spesso ricorso al “potere”
acquisito attraverso la conquista pseudo democratica dei vari
centri di governo politico, amministrativo, giuridico,
economico.
Vennero alla luce e si consolidarono gli elementi portanti di
una sorta di diversa bioetica sociale, morale e caratteriale
che, salvo le dovute eccezioni, rappresentano tuttora le
radicate caratteristiche antropologiche di una consistente parte
della società americana.
Uno stile di generalizzata presunta superiorità che lascia
alquanto perplessi circa la funzione auto attribuitasi di
“difensori della democrazia e della libertà”.
Non sarebbe corretto, pur tuttavia, non porre in giusto rilievo,
come prima accennato, il fatto che il XX secolo ha posto in luce
l’indiscussa affermazione degli Stati Uniti, oltre che sul piano
militare, industriale ed economico, anche in quello oltremodo
importante e determinante della ricerca scientifica, dello
sviluppo tecnologico e aerospaziale. Oggi sono la prima Nazione
nella graduatoria mondiale con circa 24 migliaia di miliardi di
PIL.
Negli Stati Uniti operano con successo circa 1925 Istituzioni
Universitarie, moltissime di primaria importanza mondiale,
famose e di grande reputazione, fra cui parecchie delle seguenti
sono considerate di livello “top”:
• Princeton University
• Harvard University (intelligenza artificiale - arte e umanità)
• Yale University.
• Columbia University
• Stanford University (Ingegneria - elettricità - elettronica)
• Brown University
• University of Chicago
• Connecticut University
• Massachusetts Institute of Technology (formazione tecnica,
scolastica e imprenditoriale)
• California State University
• University of Connecticut Storrs
• Georgia State University
• Cornell University
• University of Pennsylvania
Il citato XX secolo è stato da più parti definito, pertanto, il
“secolo americano”.
A fronte di tale comprovato e meritorio quadro tecnologicamente
espansivo e indiscutibilmente all’avanguardia, gran parte della
società statunitense non è riuscita, tuttavia, ad eliminare il
pervicace razzismo, basato oltremisura sul colore della pelle o
sul ceppo natale, la diffusa differenzazione ed emarginazione di
classe, la triste piaga dei “ghetti” di periferia e dei
miserrimi “barboni” relegati ai margini degli opulenti emblemi
dei “city center” metropolitani stracolmi, come già detto, di
“grattacieli”, di faraonici “palazzi del potere”, di imponenti
“strutture ludiche”, di vertiginose “sopraelevate”, di quartieri
dedicati all’esercizio di un esasperato consumismo, agli
spettacoli e, perché no, alle bische o agli attraenti locali a
“luci rosse”.
Tale è oggi l’offuscata immagine della decantata “civiltà”
americana, specie perché è diffusamente notorio che, a fianco
del privilegiato benessere di larghe fasce di popolazione e
della ostentata super ricchezza dei molti pantagruelici gruppi
affaristici, si sono nel tempo affermate, magari più o meno
tacitamente ratificate e avallate dagli altolocati centri di
potere, ignobili e insaziabili spinte speculative facenti capo
alle grandi concentrazioni industriali e finanziarie in cerca di
usurai profitti e di arricchimento patrimoniale.
Quasi in parallelo, inoltre, talvolta a seguito della
affermazione di taluni “clan” politici di rilievo, in special
modo dopo il “boom” della industrializzazione, della
motorizzazione di massa, della frenesia degli elettrodomestici,
dello sviluppo esponenziale della aviazione commerciale,
dell’intensificarsi dei trasporti marittimi di merci e
idrocarburi, della strabiliante ed enorme produzione di
sofisticati e micidiali armamenti, presero piede estesi fenomeni
di spregiudicato predominio di gruppi finanziari e industriali
d’alto lignaggio.
E non va dimenticata la già citata incredibile diffusione -
spesso mediante cruenti e sanguinosi conflitti, attentati
mortali, atti terroristici - dei delinquenziali, spavaldi, ben
strutturati e potenti organismi malavitosi alla Al Capone, alla
Lucky Luciano, alla Gambino, alla Valachi, alla John Dillinger,
ecc. ecc., cui solo parzialmente riuscivano a fare fronte (a
prescindere dalla connivenza di qualche deviato esponente delle
varie impalcature di “police force”), i pur addestrati ed
efficienti agenti FBI (Federal Bureau of Investigation).
Riprendendo il fondamentale discorso della evoluzione storica
degli Stati Uniti, è da porre in rilievo che, specie nel periodo
finale della 1° guerra mondiale e poi, massicciamente, nel corso
della 2° guerra mondiale, la enunciata fase di preponderante
ascesa nella scala delle Nazioni più industrializzate, più
tecnicamente progredite, più economicamente avanzate, surclassò
di parecchio e speditamente il precedente periodo storico
globale, che va dal 1815 al 1914, prevalentemente caratterizzato
dalla politica espansionistica e dominatrice dell'Impero
Britannico (peraltro incisiva già a decorrere dai secoli XVII e
XVIII) e, pur se in minore misura, della Francia post
napoleonica.
Ciò modificò profondamente il quadro complessivo di quando
avvenuto nei secoli precedenti, essenzialmente contrassegnati
dalla accentuata tendenza di parecchi Stati europei (fra cui
Portogallo, Belgio, Olanda, Germania e in minima misura la
neonata Italia, ultima arrivata) a portare avanti, magari senza
scrupoli e in concorrenza con le predominanti Gran Bretagna e
Francia, il detestabile sistema della pseudo “colonizzazione” di
vastissime aree dei continenti africani e asiatici.
Colonizzazione che sarebbe meglio definire “dominazione” o
“sottomissione”, ove si considerino i pesanti e riprovevoli
risvolti di sfruttamento delle risorse locali, i fenomeni di
“apartheid” (crimine internazionale di segregazione razziale),
le cruente repressioni di diffuse ed estese ribellioni locali.
Gli Stati Uniti divennero parecchio rapidamente la patria del
consumismo irrazionale e sfrenato che, trovando terreno fertile
in seno alla crescente società ricca e benestante, assunse il
ruolo di vettore trainante del massiccio sviluppo economico
definito “all’americana” e modificò il sistema e il tenore di
vita di larghe fasce di popolazione.
Fu l’inizio di un inarrestabile e contagioso fenomeno di
trasformazione strutturale della società mondiale, destinato a
diffondersi, con palese rapidità, fra gli strati “abbienti” o
“ricchi” della cosiddetta “società civile” di un po’ tutte le
Nazioni più o meno progredite.
Di contro e senza scrupolo alcuno furono abbandonate al loro
miserevole destino le reiette, strabocchevoli e povere
popolazioni delle immense aree “sottosviluppate”, in gran parte
riguardanti i vari stati e staterelli nati a seguito di
irrazionali e spesso amorfe forme di “indipendenza” acquisita
(talvolta a livello tribale) da molti ex “possedimenti” delle
sapute riprovevoli nazioni colonialiste, precedentemente e
abbondantemente sfruttati nel corso della lunga opprimente
sottomissione da queste ultime portata avanti spesso per secoli.
Si determinò, ovviamente, la corsa all’accaparramento
spregiudicato delle fonti di materie prime energetiche, quali
carbone, petrolio, gas naturale, oltre che di minerali preziosi
o strategici per i settori industriali e militari, specie quelli
essenziali in campo nucleare.
Sorsero i nefasti “trust”, o “cartelli” che dir si voglia,
presto finiti nelle fauci dell'ingordo apparato finanziario e
speculativo.
Si irrobustirono oltre misura, in special modo, le famose “sette
sorelle” (le statunitensi Exxon, Mobil, Texaco, Standard, Gulf,
l'anglo-olandese Shell e la britannica British Petroleum), pur
se già si profilavano all’orizzonte i magnati mediorientali e
arabi del petrolio destinati a divenire presto il determinante
ago della bilancia dei mercati mondiali degli idrocarburi.
Aggiungasi il progressivo inserimento, nel quadro di tali
mercati, della notevole produzione di materie prime energetiche
proveniente dalle immense risorse rinvenute nei vasti territori
ex URSS (oggi Federazione Russa), e il palese risultato
complessivo non poteva non divenire preoccupante, per non dire
condizionante e disgregante, ai fini dello sviluppo industriale
ed economico dei Paesi cosiddetti “occidentali”.
Presero a proliferare, purtroppo senza pianificazione e senza
efficaci controlli, un numero impressionante di inquinanti
raffinerie, di mastodontiche pericolose “navi petroliere” (anche
con stazza di oltre 100/mila tonnellate), di insensati
stravolgimenti del territorio per realizzare gli impianti di
raffinazione e per creare i parchi di stoccaggio dei prodotti
petroliferi.
Il tutto incentivando una miriade di pericolosi
fattori di rischio, sia in campo ambientale che in quello,
delicatissimo, della salute delle popolazioni residenti nelle
aree interessate.
E’ sufficientemente noto quanto e come il citato “secolo
americano” abbia innescato pressanti politiche protese a
perseguire il controllo egemonico, strategico, militare ed
economico, di vaste aree mondiali, senza dire delle ricorrenti
interferenze nei riguardi di Paesi da cui promana il flusso di
materie prime indispensabili alla mastodontica industria degli
armamenti, a quella sviluppatissima del settore aerospaziale e,
in generale, a quelle interconnesse con il sempre crescente
impiego della elettronica.
Il peso della controversa politica degli Stati Uniti è divenuto
particolarmente incisivo dopo la fine della seconda guerra
mondiale, quando sembrava che l’unico potenziale avversario
fosse l'Unione Sovietica.
Dopo la dissoluzione di quest’ultima, avvenuta nel 1991, almeno
sino a quando è comparsa all’orizzonte l’emergente potenzialità
militare ed economica della Cina e dei suoi satelliti, gli Stati
Uniti hanno addirittura mirato ad assumere la posizione di
“superpotenza” con aspirazioni da “dominium mundi”, peraltro
parecchio influenzata dalla convinzione di essere addirittura
una esclusiva "iperpotenza".
A tale convinzione si riferisce l'editore Henry Luce, quando Il
17 febbraio del 1941 in un editoriale sulla rivista LIFE,
facendo per la prima volta ricorso a tale termine, indica quello
che avrebbe dovuto essere il ruolo degli Stati Uniti dopo la 2°
guerra mondiale, evitando l'isolazionismo e sostenendo sistemi
politici che avrebbero dovuto dimostrare di essere assertori di
comprovati valori democratici.
Luce assunse la veste di fautore di "un potere globale e
universale USA non circoscritto ad un territorio specifico,
anche impiegando ogni mezzo ritenuto necessario".
Aveva però trascurato il fatto che tale “convinzione”, pur se
mirante alla difesa di taluni “specifici interessi economici e
finanziari, comportava la pregiudiziale rinuncia al paritetico e
pacifico dialogo con i Paesi avversari o presunti tali”.
A tal proposito non sembra fuor di luogo un breve aggancio
storico al teutonico Federico 1° Hohenstaufen, inteso il
“Barbarossa”, il quale, forse perché ispirato dal suo
predecessore Carlo Magno (sostenitore del concetto che “l’Impero
deve dominare su tutto”), oltre che dalla storia dell'Impero
Romano la cui “forza” era fondata sul dogma della “suprema
autorità”, era arciconvinto che il suo potere fosse superiore a
tutto e tutti.
A conferma di quanto prima rassegnato appare opportuno
soffermarsi sui seguenti punti:
* nel 1901, gli Stati Uniti decidono di agire militarmente
contro la Repubblica Filippina allo scopo di assoggettare
definitivamente alla propria sovranità (protrattasi poi sino al
1946) quel vasto e nevralgico arcipelago dominante il centro
dell'Oceano Pacifico;
* nel 1903 istituiscono la “Zona Militare USA del Canale di
Panama” per porre sotto il loro diretto controllo (protrattosi
sino al 1979) il costruendo Canale di Panama.
* nel 1904 prende corpo la politica interventista americana
istituzionalizzata mediante l'emanazione del Corollario
Roosevelt alla “Dottrina Monroe” la quale aveva proclamato il
diritto degli Stati Uniti di intervenire in qualsiasi luogo
delle Americhe e del mondo.
* con lo scoppio della 1° Guerra mondiale (1914), gli Stati
Uniti scelgono inizialmente una politica di non intervento nel
conflitto, tentando la via diplomatica per la stipula di un
accordo di pace. Poi, invece, in una fase successiva, il
presidente Wilson dichiara che quella guerra è determinante ai
fini del futuro di molte Nazioni e che, per partecipare da
vincitori alla successiva conferenza di pace non può non esservi
un diretto intervento militare statunitense. Gli Stati Uniti.
pur se formalmente non alleati, entrano in guerra nel 1917
proponendosi nel ruolo di "alleati". Tuttavia, dopo che 1919
viene stipulato il controverso Trattato di Versailles, gli Stati
Uniti tornano ad adottare una politica isolazionista, rifiutando
di riconoscere talune clausole e di entrare a fare parte della
Lega delle Nazioni.
* anche a fronte del deflagrare della Seconda guerra mondiale (1
settembre 1939) il Congresso americano pur allentando i limiti
operanti negli anni '30, rimane comunque neutrale. Poi, a fronte
del discorso sullo Stato dell'Unione del 1941, il presidente
Roosevelt infrange (a ciò indotto, si dice, dall’incisivo
influsso della profuga Regina di Norvegia, cui sembra sia stato
affettuosamente pur se platonicamente legato) la politica di non
interventismo ed enuncia il ruolo di aperto aiuto degli Stati
Uniti alle Nazioni della coalizione alleata contro l’Asse
Germania - Italia.
* il 14 agosto dello stesso anno, il Presidente USA Franklin
Delano Roosevelt e il Primo Ministro britannico Winston
Churchill, quest’ultimo in rappresentanza di una Nazione
abbastanza provata a fronte del contingente strapotere militare
della Germania di Hitler, si incontrano a bordo
dell' incrociatore pesante “USS Augusta”, ancorato nella baia Argentia dell'Isola di Terranova in Canada, per definire i piani
di aiuto e di collaborazione tracciando, nel contempo, le linee
guida della futura politica mondiale post-bellica di cui alla
cosiddetta “Carta Atlantica” che, riconoscendo il principio
della “autodeterminazione dei Popoli”, implicitamente segnava la
fine dell'Impero Britannico.
* nel dicembre 1941 gli Stati Uniti entrano in conflitto con il
Giappone che, dopo snervanti trattative andate a male per
l’irrigidimento di Washington, colpisce di sorpresa taluni
importanti obiettivi strategici statunitensi nel Sud Est
asiatico e nel Pacifico centrale, tra cui Pearl Harbor nelle
Hawaii;
* in prosieguo, alla conclusione del sanguinoso conflitto
(agosto 1945) e allo scopo di proteggere la futura pace
mondiale, la coalizione degli Alleati occidentali (Inghilterra e
Francia), in uno alla URSS di Stalin e alla Cina di Chiang Kai -
Shek , nasce il 24 ottobre 1945 la “Organizzazione delle Nazioni
Unite” (ONU), pur se l’attività della stessa si troverà sempre
ad essere imbrigliata dal “diritto di veto” riconosciuto alle
suddette Nazioni.
Nel 1948, poi, vedrà la luce la “Dichiarazione universale dei
Diritti dell'’Uomo”, anche questo un trattato più di natura
formale che sostanziale in quanto, in genere, sarà ben poco
rispettato dai Paesi aderenti.
* in quel periodo, per motivazioni di tutt’altra natura, si
manifesta negli Stati Uniti una corrente di pensiero parecchio
intransigente in materia di estremismi di sinistra o di destra.
Basta e avanza, a tal proposito, riportare alla luce il negativo
ricordo del “maccartismo” (1950 - 1955), frutto della insensata
attività portata avanti dal senatore Joseph McCarthy (1908-1957)
nella qualità di Presidente della commissione parlamentare per
la repressione delle attività antiamericane (particolarmente in
funzione anticomunista), cinicamente considerate pericolose per
lo stile di vita della società americana.
Oggi la situazione sembra parecchio mutata.
* La Federazione Russa, raccogliendo, almeno parzialmente, la
controversa eredità dell'URSS staliniana, scomparsa nel 1991
alla fine di un lungo periodo di tribolazioni interne e di
defezione di talune comunità regionali dichiaratesi
“indipendenti” e di preesistenti Stati sovrani che avevano
riacquistata la libertà democratica, è tornata ad essere una
altrettanto determinante “superpotenza”, pur se ritenuta, in
occidente, pericolosa e sostanzialmente inaffidabile.
* La grande, immensa e superpopolosa Cina, dopo la consolidata
pur se tanto discussa terapia maoista, da diversi lustri a
questa parte, ha preso ormai a crescere a dismisura, sia sul
piano economico produttivo che militare, assumendo sempre più
l’incisivo e determinante ruolo di “Paese guida” di un nutrito
numero di Nazioni asiatiche più o meno viciniore e di parecchi
Paesi africani di strategica importanza. La Cina, dietro la
maschera della quasi indifferenza per tutto ciò che di crudele
sta avvenendo in Ucraina, agisce in maniera eclatante per
allargare e irrobustire la sua macroscopica posizione dominante
puntando a divenire in assoluto la prima potenza economica e
militare del Pianeta. A parte la presenza in ogni angolo dello
stesso di consistenti e articolate “Chinatown” (“comunità
cinesi”) cresciute, si buon ben dire, a dismisura ma
indissolubilmente rimaste legate alla “madre patria” che, a sua
volta, le censisce e le controlla, anche ricavandone rilevanti
profitti commerciali e succose rimesse in valuta pregiata.
In questo precario e instabile scenario mondiale la pregressa
posizione degli Stati Uniti risulta essere non più quella di
“prima della classe” bensì, ormai, quella di un discusso e meno
incisivo “partecipante” alla competizione egemonica (economica,
tecnica e militare) in corso fra il cosiddetto “Mondo
Occidentale” (USA - Regno Unito di Gran Bretagna/Commonwealth -
Unione Europea - NATO) e il vari Paesi dell'opposto
schieramento, fra cui il noto emergente polo denominato
“BIC” (Brasile-India-Cina),
cui fanno da sponda la euroasiatica Russia putiniana oltre che
parecchie nazioni satelliti. Paesi che, nel complesso,
rappresentano circa la metà della popolazione dell'intero
Pianeta e muovono circa il 30% del PIL mondiale.
Di recente il precipitoso ritiro dall’Afghanistan (agosto 1921)
- dopo una tormentata e dispendiosa guerra durata circa 20 anni
- ha rappresentato per gli Stati Uniti e per il suo indefinibile
Presidente in carica, l’evento più discreditante di quest’ultimo
periodo, sia sul piano geopolitico internazionale che sul piano
del consenso interno. E’ stato come avventurarsi in un insidioso
dedalo, già di per se stesso abbastanza infido, senza rendersi
conto che tale inconsulto modo di procedere, parecchio
irrazionale e imprevidente, ha determinato un risultato del
tutto contrastante con i canoni delle decantate ambizioni
statunitensi permettendo, oltretutto, il ritorno al potere, in
maniera quasi indisturbata e indolore, di un dispotico apparato
oscurantistico, negatore di ogni libertà civile, religiosa,
culturale.
Una figuraccia che s’assomma alla caduta di credibilità dovuta
ai rapporti tutt’altro che idilliaci venutisi a creare, di
recente, con parecchi Paesi mediorientali (ivi compresa
l’influente Arabia Saudita), con altri del Sud Est asiatico, non
dimenticando, infine, la Corea del Nord.
Sembrerebbe che il declino dell'influenza degli Stati Uniti
rispetto alla pregressa posizione di primaria “superpotenza
mondiale”, sia significativamente irreversibile, pur se la sua
consolidata potenzialità militare è tutt’altro che in fase
calante.
Quest’ultima, anzi, come da recenti sondaggi elaborati da
competenti organismi internazionali, risulta essere ancora la
più progredita in campo tecnologico, addestrativo e di pronto
impiego, senza dire della ben nota superiorità in campo
nucleare.
Dopo la dura e altalenante guerra di Corea del 1950, dopo le
pesanti sconfitte morali, tattiche e strategiche della Baia dei
Porci a Cuba (1961), dell'infausto, pluriennale e sanguinoso
conflitto in Vietnam, in Laos e in Cambogia (dal 1964 al 1973),
a parte le controverse avventure belliche in Iran (1980), Kuwait
(1991), Somalia (1992), Iraq (2003), Libia (2011), Siria (2017),
s’è assistito al progressivo ridimensionato del valore
dissuasore della citata potenzialità bellica americana pur se
basata sempre sulla possibilità di un pronto impiego della sua
potentissima USAF (United States Air Force) e delle sue
efficientissime “Flotte” presenti in tutti i mari e oceani ove
si svolge un continuo e impegnativo “braccio di ferro” con
apparati militari di altre Nazioni non certamente trascurabili o
amichevoli.
Nel 1979, a proposito della crisi insorta con gli Ayatollah
iraniani, Jimmy Carter ebbe ad affermare arrogantemente:
“qualsiasi tentativo di prendere il controllo del Golfo verrà
considerato un attacco agli “interessi vitali” degli USA”.
L’11 settembre 2001, l’inaspettato attacco alle Torri Gemelle di
New York rappresentò un gravoso scacco morale per gli Stati
Uniti, per la prima volta attaccati e colpiti sul proprio
territorio. Il tragico avvenimento terroristico segnò, di
riflesso, l’avvio di una dura fase di rivalsa e di “punizione”
verso i presunti mandanti stanziati nel teatro mediorientale.
L’amministrazione di George W. Bush dà il via a una “war on
terror” (“guerra del terrore”) che, anche in funzione del
diretto intervento in Afghanistan nel 2001 e dell’invasione
dell’Iraq nel 2003, coincide con l’apice dell’impegno militare
statunitense in Asia Centrale e in Medio Oriente. I due teatri
di operazione presentano ben presto agli occhi dell’opinione
pubblica americana un conto economico e di vite umane
difficilmente ammissibile o giustificabile.
Alla attuale difficile congiuntura, determinatasi come riflesso
della enigmatica diplomazia internazionale, oltre che per la
nebulosa credibilità dei propositi statunitensi circa il futuro
del Pianeta, s’associa, nell'ambito dello scenario interno
americano, una persistente fase di insicurezza democratica, di
palese scollegamento fra Amministrazione in carica e opinione
pubblica, di una sempre maggiore diserzione dalle più o meno
manipolate competizioni elettorali, vieppiù a fronte di una
sostanziale e profonda incrinatura di taluni pregressi valori
sociali, culturali ed etici.
Lo sfarzoso, imbavagliato e alquanto macchinoso habitat della
“Casa Bianca”, del Dipartimento degli Esteri, del “Pentagono”, è
oggi calcato da personaggi non certo di spicco, posti lì da un
sistema elettorale ben poco democratico e partecipativo, fatto
di intrighi, di dispendiosi sistemi propagandistici, di giochi e
scontri di potere, di scarsa partecipazione al voto, di
interessi settoriali ed egemonici di gruppi affaristici.
La fiducia popolare verso i capi è un bene in esaurimento,
volatile e ben poco recuperabile.
Prova ne sia il fatto che il quoziente di gradimento per
l’attuale controverso, debole e ben poco rappresentativo
Presidente Joe Biden è in palese e irrefrenabile discesa.
E’ opinione diffusamente condivisa quella che “mentre gli Stati
Uniti del secolo scorso potevano essere considerati a ragione la
terra delle opportunità, del progresso sociale e civile, della
vittoria delle lotte per i diritti delle minoranze e dei più
deboli e potevano quindi rappresentare il sogno americano, a
distanza di tempo l’American Dream pare essersi eclissato per
sempre”.
Il sogno dei Padri fondatori è rimasto tale mentre la realtà
lascia perplessi e molto a desiderare.
La giornalista RAI Elisabetta Grande, in suo intervento datato
31 dicembre 2021, ha asserito che “il crollo americano non è
solo militare, bensì sociale, culturale e istituzionale.
L’errore più eclatante sembra risiedere nel fatto che, sotto la
spinta dell'eccessivo benessere di taluni ceti sociali, della
ingorda corsa al profitto dei magnati della industria, del
rilevante ammontare del giro d’affari in campo commerciale e
finanziario, dell'abuso del consumismo, la composita società
statunitense abbia smarrito la strada dei sani valori umani,
dell'idealismo, della responsabilità oggettiva.
Non basta atteggiarsi o ritenere di essere la più forte potenza
militare del Mondo per fregiarsi della nomea di “democrazia
esemplare” (più o meno dimostrabile o esportabile), di assennata
guida del Mondo libero, di artefice di ricchezza e di felicità.
Come è ben possibile arguire, gli elementi di spicco della
classe dirigente degli Stati Uniti - pur senza venire meno al
sacrosanto rispetto per la maggioritaria parte sana del proficuo
popolo americano - smaniosi di allargare il proprio campo
d’azione e di controllo, non sono esenti dalla accusa di
“provocazione” oltre che da quella di imbastire “trame
sotterranee”, magari innescando tensioni locali e
internazionali.
Senza dire delle ingerenze che, pur se più o meno camuffate da
interventi in difesa o in ripristino delle libertà fondamentali
e della democrazia dei popoli, hanno puntato nel passato a
favorire manovre di affermazione economica e politica
prettamente legate ad obiettivi di inserimento in zone
strategiche, specie quando si sono palesate importanti
motivazioni di predominio dei mercati o di sfruttamento di
essenziali risorse naturali.
Il tutto con l’arroganza di chi presume di essere all’apice
della potenzialità militare.
Non è con la forza delle armi, specie se ostentate a fronte di
edonistiche progettualità, che si può imporre una sorta di
predominio su altri popoli o su altre Nazioni.
La pace mondiale non si raggiunge mediante drastiche e
contrastanti prese di posizioni o mediante sorde lotte a base di
“veti”, “sanzioni”, “dazi doganali”.
Non si raggiunge neppure facendo prevalere gli anatemi per i
comportamenti delle parti avverse senza prima avere analizzato a
dovere i propri piccoli o grandi errori di fondo.
Una circostanza ancora più grave si concretizza nel momento in
cui si ricorre alla strumentalizzazione di organismi associativi
di liberi Stati (come ad esempio l’ONU e la NATO) nel tentativo
di tenere sotto scacco talune Nazioni teoricamente avverse o
riottose che, più o meno ragionevolmente, contrastano talune
iniziative USA ritenute esorbitanti, invadenti o addirittura
“minacciose”, anche se in effetti sono solo frutto di
irragionevolezza.
A parte, infine, il ripetersi di “dichiarazioni” inconsulte o di
atteggiamenti prevaricatori, del tutto assimilabili ad
autentiche gaffe diplomatiche, visti in chiave provocatoria
dall’altra parte della barricata.
Volendo essere, tuttavia, più obiettivi e imparziali possibili è
da sottolineare in grassetto che il discorso, parecchio
chiaramente, non concerne solo gli Stati Uniti e la fascia di
Paesi che per un verso o per l’altro gravitano nella loro
orbita, ma riguarda, allo stesso identico modo e con le medesime
colpevolezze, quelle Nazioni che dominano la parte avversa e
bloccano pregiudizialmente ogni teorica possibilità di dialogare
costruttivamente per cercare di salvare la stirpe umana, la
natura, l’esistenza stessa del Pianeta.
Nulla di nuovo sotto il sole e, a tal proposito si è costretti
ad assistere, pur se ormai assuefatti al clima da “guerra
fredda” del periodo staliniano, kruscioviano e kennediano, alla
sconsiderata escalation della tensione mondiale, in gran misura
alimentata da una parte dalla insidiosa e prepon derante politica
statunitense (anche attraverso l’incauto allargamento della
NATO
nei paesi dell'est europeo più o meno adiacenti alla Federazione
Russa - vedi cartina a fianco) e dall’altra accentuato dai
ricorrenti e più o meno velati anatemi di stampo putiniano circa
un possibile ricorso al tragico impiego delle super micidiali
armi nucleari. L’Europa dalle tante divergenti facce ha
sbagliato, facendo correre enormi rischi alla propria
popolazione, nell'assumere un atteggiamento di sfida a fronte
del quale non ha altro a disposizione che il ricorso al
boomerang delle “sanzioni”, peraltro facendosi chiamare in causa
a fronte delle provocatorie sostanziose forniture di materiale
bellico d’ogni specie e qualità ad una delle fazioni in lotta,
pur se quella aggredita.
La cruenta, sconsiderata e crudele guerra in Ucraina quasi
certamente avrebbe potuto essere evitata se non si fosse
spudoratamente soffiato sul fuoco già da tempo acceso e si fosse
esercitata, di contro, la massima pressione diplomatica (non
militare) affinché i contendenti si sedessero, come suole dirsi,
attorno ad un tavolo, magari chiusi in una sorta di clausura,
sino a che non avessero trovata la strada maestra della
convivenza, pur se solo a titolo di compromesso e pur accettando
la rinuncia alla forza per dirimere talune controversie sia di
natura territoriale che di principio.
Le superpotenze militari che oggi dominano lo scenario mondiale
dovrebbero finalmente rendersi conto che non esiste alcuna
valida alternativa alla pace se non il costruttivo dialogo.
Essendo ciò un incontrovertibile assioma perché stuzzicare in
mille maniere l’orso ex-sovietico, magari sino a farlo divenire
ancora più aggressivo e pericoloso?
L’adesione alla “NATO”, che vede l’Italia addirittura fra i
Paesi fondatori, riguarda in particolare l’opportuno impegno
della “solidarietà fra Nazioni” da far scattare solo in presenza
di aggressioni “nemiche”, solidarietà che in ogni caso non
dovrebbe mai derogare dalla sostanzialità “difensiva” degli
accordi sottoscritti.
Men che meno dovrebbe essere una forma di tacita approvazione e
condivisione dell'allargamento a tappeto delle “zone di
influenza NATO”, magari in contrasto con pregressi equilibri e
intese internazionali.
Ove una Nazione aderente alla NATO, specie se con preponderante
incisività in seno ad essa, decida di assumere, nei confronti di
un qualsivoglia Paese collocato in altri schieramenti o
ricadente in diverse aree di influenza, iniziative non
concordate, o agisce e opera in forza di esclusive
determinazioni o di propri interessi economici, magari
incentivando tensioni diplomatiche o atteggiamenti drastici, non
sembra ammissibile che le Nazioni consociate a soli fini
difensivi siano “obbligate” ad intervenire in suo favore.
Ne andrebbe di mezzo la sovranità dei singoli Stati aderenti.
La solidarietà non significa subordinazione e tanto meno
complicità.
Vedi, ad esempio, l’escalation del braccio di ferro fra Stati
Uniti e Cina (oggi impersonati, chissà se nel bene o nel male,
da Biden e Xi Jinping) circa l’inconsulta visita di Nancy Pelosi
- Speaker della Camera dei Rappresentati USA - a Formosa
(Taiwan) su cui la Cina non demorde dall’accampare sovrani
diritti. Una evitabile quanto inutile “provocazione”.
Per inciso dal 1949 l'isola di Formosa divenne sede nazionale
del governo cinese del Kuomintag (anticomunista o nazionalista
che dir si voglia), retto dal Generalissimo Chiang Kai-shek ,
che durante tutto il secondo conflitto mondiale aveva
partecipato alla guerra e rappresentava la Cina in seno alla
alleanza delle 4 Grandi Potenze (Stati Uniti,Inghilterra,
Russia, Cina).
Nel 1949 il Governo del Kuomintag di Chiang Kai-shek (confermato
sino al 1972), rifugiatosi nell'isola a seguito della sconfitta
subita ad opera dell'’emergente regime comunista di Mao Tse Tung,
proclamò l’indipendenza di Formosa (Taiwan) non rinunciando
altresì a rivendicare in sede costituzionale la sovranità su
tutta la Cina continentale e il diritto a mantenere, in virtù
della partecipazione alla guerra fra le citate 4 Grandi Potenze
vincitrici, il pieno diritto della rappresentanza cinese alle
Nazioni Unite (ONU) e in altre organizzazioni mondiali cui,
peraltro, aveva contribuito alla loro fondazione.
Tale posizione le fu riconosciuta, anche durante il periodo
della cosiddetta “guerra fredda”, da gran parte dai Paesi del
Mondo Occidentale, Stati Uniti in primo luogo, oggi impliciti
garanti della sua esistenza.
In base a tali considerazioni il “diritto di veto ONU”, statuito
in sede della sua fondazione, dovrebbe deduttivamente spettare
più alla Repubblica Cinese di Formosa (Taiwan) che alla Cina
maoista di Pechino.
Non va dimenticato che nel calderone del farraginoso apparato
ONU, fra l’altro esageratamente dispendioso, sono appollaiati
ben 204 Stati del Mondo (di cui 193 “sovrani”e 11 non
riconosciuti) dai quali promanano diversificate situazioni
strutturali, politiche, culturali, religiose.
E’ emersa a più riprese la constatazione, particolarmente a
fronte della odierna crisi fra Russia e Ucraina, che l’ONU, in
pratica, non è in grado di assolvere la sua principale funzione,
quella di assicurare e mantenere la pace. Quindi, a tale scopo,
la citata Organizzazione è pressoché superflua per non dire
inutile.
E’ evidente che tale incapacità si ripercuote drasticamente
sulla vita delle popolazioni loro malgrado coinvolte nei
conflitti, in rivoluzioni più o meno popolari, in cruenti
scontri locali e tribali, in colpi di Stato più o meno indolori,
in attentati terroristici, in accese rivendicazioni
territoriali, e chi più ne ha più ne metta.
Per altro verso non è certo rassicurante il sapere che le sorti
del Pianeta sono racchiuse nelle “borse cifrate” che
custodiscono i dati di accesso e di procedura di lancio dei
micidiali ordigni nucleari sempre pronti all’uso nei “bunker”
sparsi in vari territori.
Sembra che i vari despoti delle Nazioni che dispongono di un più
o meno potente “arsenale nucleare” se le tengano sempre a
portata di mano, magari permettendosi, tracotantemente, di
minacciarne l’uso ove provocatoriamente e irreversibilmente
ostacolati nel perseguimento di eventuali obiettivi revanscisti
o egemonici.
Cosa succederebbe se qualcuno di costoro, improvvisamente,
uscisse fuori di senno o perdesse il controllo dei propri nervi
?
Dopo le già accennate dispendiose vicissitudini legate alla
guerra di Corea (1950/1953), all’insuccesso di Cuba (1961), alla
massacrante guerra del Vietnam (1960/1973), alle contestate due
Guerre del Golfo (1991 e 2003), alla negativa esperienza NATO in
Libia (2011) e, ultima ma forse la più grave, alla ingloriosa
fine della lunga, penosa e costosa avventura NATO-USA in
Afganistan (2021), l’opinione pubblica statunitense ha
accentuato la pressione contro la politica interventista,
sperando che le varie Amministrazioni decidano di adottare
politiche meno invasive e meno velleitarie.
Ciò non toglie però che nei piani alti degli apparati economici,
finanziari e militari che dominano le strutture portanti degli
Stati Uniti, pur a fronte della nomea di più grande democrazia
del Pianeta, si seguita ad agire senza eccessivi scrupoli, anche
tirando in ballo un possibile massiccio impiego del potenziale
militare offensivo di cui dispongono, ogni qual volta è in gioco
il proprio peso decisionale e la propria influenza nel continuo
evolversi degli scenari geopolitici dei vari Continenti, fra
cui, in primo luogo, l’Europa.
La crescente propensione della variegata e multiculturale
società statunitense (non certo quella dei generali e ammiragli
del Pentagono) verso una politica di “non intervento”, dovrebbe
indurre la Casa Bianca a più miti consigli, convalidando la tesi
che la NATO non è più rispondente alle originarie finalità
difensive. I mezzi d’informazione hanno diffuso, in merito, la
notizia che la Germania sembra avere avanzato la richiesta di
“ritiro delle truppe americane (e relative armi atomiche) dal
proprio territorio e da quelli degli altri Paesi europei”.
Papa Francesco, reiteratamente e instancabilmente, ammonisce i
“responsabili delle Nazioni dominanti” e quelli dei Paesi in cui
è di casa il terrore di sanguinosi conflitti locali, a smetterla
di impiegare la violenza delle armi per dirimere i problemi e le
discordie esistenti.
L’attuale indomito Pontefice seguita a percorrere, in merito, la
strada maestra degli illuminati concetti a suo tempo esposti da
Papa San Giovanni XXIII
nella sua impareggiabile enciclica
“Pacem in Terris”, promulgata l’11 aprile 1963 e sempre di
grande attualità, in cui con dovizia di argomenti e di
riflessioni, ebbe a trattare “il tema molto scottante del
disarmo” e in cui fu indicata l’importanza dei negoziati a
fronte della pericolosa divisione in blocchi di Nazioni e del
rischio di una guerra nucleare.
Da tale enciclica prese corpo, altresì, la lapalissiana verità
che è “impossibile pensare che nell’era atomica la guerra possa
essere utilizzata come strumento di potere o di giustizia”.
Vox clamans in deserto ?
luglio 2023 Luau
A convalida di quanto sin qui detto in merito alle velleità
egemoniche USA, non tanto facilmente giustificabili, non sembra
fuor di luogo rifarsi al testo di una riflessione datata 2003,
tratta dal mio libro “Enna 1943 - Ricordi di guerra” :
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U.S.A. - GENDARME DEL MONDO?
È a conoscenza di un po’ tutti che al verificarsi di
qualsivoglia tensione internazionale o nella misura in cui venga
posta in discussione la propria posizione egemonica (militare o
economica), gli Stati Uniti, magari di riflesso rispetto a
situazioni di crisi riguardanti Nazioni “consociate” o
annoverate come “amiche”, ricorrono spesso all’avvertimento di
un possibile eventuale impiego del loro superpotente apparato
militare. E’ ampiamente dimostrato, tuttavia, come e quanto tale
atteggiamento si sia rivelato, nel tempo, parecchio
controproducente rispetto alla primaria esigenza del
mantenimento della pace mondiale. Buona parte delle ricorrenti
crisi - con relativi conflitti armati e conseguenti rigurgiti di
natura terroristica, non solo di matrice islamica - derivano dal
permanere di tale rischiosa politica, peraltro contagiosamente
adottata, non tanto giustificatamente, anche da contrapposte
potenti nazioni emergenti, in primo luogo la Cina ex maoista.
Senza dire, in aggiunta, dell’inasprirsi delle tensioni a sfondo
ideologico e di fanatismo religioso, specie per la crescente
intraprendenza di una gran parte del mondo islamico.
Tenuto conto del delicato e variegato scenario mondiale venutosi
a creare, è evidente che la diplomazia basata sulla forza
militare, da chiunque adottata, nuoce all’instaurazione di
stabili e pacifici rapporti fra gli Stati, sia essi appartenenti
al vecchio mondo cosiddetto “occidentale” e ai suoi “satelliti”,
che a quello medio orientale, asiatico continentale, sud -
americano e sud - africano, peraltro in piena fase di sviluppo
socio economico e militare. Gli interessi di parte, gli
obiettivi contrastanti, le insanabili divergenze di natura
politica, le creano e acuiscono un incontrollabile circuito di
costante competizione a livello globale. E non va sottaciuto il
potenziale pericolo nucleare che tiene il Mondo in perenne stato
di rischio autodistruttivo. Cosa accadrebbe all’umanità e al
pianeta Terra se, Dio non voglia, dovesse verificarsi una terza
guerra mondiale?
Non è sicuramente questa la sede per evidenziare quanto abbiano
influito e ancora influiscano i misfatti nei secoli perpetrati
dal colonialismo europeo sugli odierni comportamenti degli Stati
a prevalenza mussulmana o di parecchi dei Paesi intesi come
“sottosviluppati”, in genere ex possedimenti abbandonati al loro
miserevole destino e spesso in mano a despoti locali,
sfruttatori multinazionali, sette crudeli e inumane. Così come
non è questo il contesto adatto per valutare, rispetto ai
rivolgimenti socio politici e bellici verificatisi a livello
globale dopo la seconda guerra mondiale, quale sia stata e quale
sia tuttora il peso che su di essi ha avuto il periodo storico
che va dalla proclamazione dell’indipendenza U.S.A. (1776) ai
nostri giorni.
Non è facile, in generale, e forse non lo è nei particolari,
formulare apprezzamenti o biasimi, esprimere commenti o trarre
conclusioni. I dubbi sono tanti e lasciano perplessi.
Solo l’imparziale “tribunale della storia”, negli anni a venire
e per chi ci sarà, potrà essere in grado d’emettere esaustivi
verdetti circa taluni arroganti e ricorrenti comportamenti delle
citate “superpotenze” talvolta addirittura in contrasto,
relativamente ai metodi e alla forma, con i principi della
civile convivenza e con le decisioni adottate dall’ O.N.U.
Che senso ha, a tal proposito, constatare che l’operato di
quest’ultimo organismo supernazionale è spesso condizionato o
bloccato dall’anacronistico “diritto di veto”?
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Guerra o pace? Questo è il dilemma.
Il Medio Oriente e i Paesi Arabi in generale - risaputamente
smembrati in una precaria varietà di frontiere, di stati e
staterelli, nell’ambito dei quali si contrappongono le due
principali ramificazioni monoteiste dell’Islam, Sunniti e Sciiti
- sono divenuti il cratere principale di un pericoloso vulcano
guerrafondaio che preoccupa sempre più e danneggia pesantemente
l’aspirazione alla pace mondiale. La millenaria rivalità tra le
varie fazioni islamiche, talvolta straripata in aperti conflitti
armati, ma prevalentemente affidata alla criminale prassi del
terrorismo e degli attentati, ha indirettamente coinvolto, per
svariate motivazioni di interesse economico, prevalentemente
legato al petrolio, o di egemonia politica e strategica, anche
talune Nazioni del cosiddetto Mondo Occidentale.
Sono abbastanza note le cause che, dalla fine del periodo
colonialista in poi e dopo la creazione dello Stato di Israele,
hanno innescato in quella particolare zona del Mondo tutta una
serie di conflitti locali. Implacabili e spietati conflitti che
ancora oggi seguitano ad interessare e ad insanguinare parecchi
territori facenti capo a Israele, Egitto, Gaza, Siria, Libano,
Giordania, Iraq, Iran, Kuwait, Stato Islamico (ISIS),Yemen,
Libia. Senza dire delle violente lotte fratricide e dei genocidi
che tuttora sconvolgono parecchie zone dell’Africa. Gli
insanabili contrasti, anche per effetto della interessata e
talvolta pesante interferenza, diretta e indiretta, delle
cosiddette Superpotenze mondiali, non sembra che si possano
facilmente dirimere o eliminare. Oggi il Medio Oriente è
divenuto una sorta di Santabarbara che potrebbe maggiormente
esplodere, in un crescendo incontrollabile, finendo con
l’innescare, di fatto, varie concause e conseguenze che
potrebbero degenerare in un pericolosissimo “terzo conflitto
mondiale”.
L’attentato, motivato o meno, che ha portato alla morte il
generale iraniano Quassem Soleimani, condotto a termine da
“droni” USA, su specifico ordine dell’imprevedibile e cinico
Presidente Trump, ha fornito al Mondo una ulteriore
dimostrazione che certi ambienti guerrafondai (dell’una e
dell’altra parte in causa) sono vocati più all’esercizio della
violenza che a quello della diplomazia e del dialogo. In alto
loco si è però scientemente (o solo incoscientemente) trascurato
il fatto che l’omicidio a sangue freddo, per motivazioni di
rivalsa o di vendetta, è pur sempre un omicidio e non può essere
equiparato alla ragionevole “punizione” di un presunto
colpevole, pur se presentato e chiamato in causa come
responsabile ed organizzatore di attentati, di azioni
terroristiche o solo perché a capo di unità speciali per
operazioni segrete all’estero. Non siamo più nell’epoca dei
giudizi sommari parecchio in uso, a suo tempo, nel Far West o
dei criminali metodi alla Al Capone. Può darsi che l’impulsivo
inquilino della Casa Bianca, esprimendo in pieno la mentalità
prepotente di chi detiene il potere, non abbia valutato le
possibili conseguenze e non si sia reso conto a quale pericolosa
“escalation” abbia dato il via. Nella misura in cui sostiene che
è suo dovere difendere gli americani (purtroppo intrufolati
dappertutto), ha sicuramente creato condizioni di grave rischio
per milioni di altri cittadini del Mondo. Non basta avere alle
spalle un potenziale militare di assoluta superiorità per fare
la faccia feroce contro chiunque. Decantata quanto costosissima
superiorità militare che si estrinseca, purtroppo, oltre che
parallelamente alla continua ricattatoria minaccia di “sanzioni
economiche”, anche mediante l’eventuale automatico
coinvolgimento dei Paesi in atto aderenti alla NATO, fra cui in
prima fila l’Italia. Secondo le regole, neppure al pur potente
Presidente degli Stati Uniti dovrebbe essere consentito di
decidere “da solo” di varcare il Rubicone, come se la cosa
riguardasse esclusivamente la Nazione da lui temporaneamente
rappresentata.
La storia si ripete, anche se oggi la fonte della forza bruta
dei guerrafondai non scaturisce più dalla vecchia e passiva
Europa, bensì da Paesi d’altri continenti che hanno fatto
proprio il credo della “superiorità” e della “invincibilità”. In
mano a codesti nuovi promotori e artefici di sciagure
planetarie, quale sarà il futuro dei popoli della Terra, tutti
inclusi e nessuno escluso?
Papa Francesco, in occasione del suo recente viaggio in Giappone
ove ha visitato i luoghi dell’esecrando misfatto di Hiroscima e
Nagasachi (città in cui l’arma atomica fu senza alcuno scrupolo
impiegata dagli americani, nell’agosto 1945, provocando, a parte
gli incommensurabili danni ambientali, l’ecatombe di diverse
centinaia di migliaia di morti), ha detto che il Mondo deve
mantenere viva la memoria storica dei nefasti avvenimenti del
passato se vuole evitare che possano ripetersi, in danno della
Pace globale. A prescindere dalla autorevolezza o meno del suo
messaggio, è pienamente condivisibile la convinzione che
conservare e trasmettere, particolarmente alle giovani
generazioni, la “memoria” di tante passate tragiche e criminali
sciagure, può stimolare efficacemente la coscienza delle masse.
E’ augurabile che tale convinzione possa anche indurre ad
approntare una valida invalicabile barriera contro quella lercia
minoranza di personaggi senza scrupoli che, magari in forza di
pilotati sistemi pseudo democratici, detengono e manovrano le
leve del potere economico e militare. Le cosiddette
“SUPERPOTENZE” mondiali (USA, Russia, Cina, e satelliti vari),
dovrebbero comprendere che non si può ottenere una duratura PACE
mondiale condizionando, per proprie motivazioni egemoniche o
economiche, le strutture portanti (ideologiche, religiose e
antropologiche) dei Paesi interessati, oltre che le stesse basi
esistenziali della compagine mondiale delle altre Nazioni. A
furia di scherzare col fuoco si potrebbe generare un
apocalittico incendio, un irreversibile disastro planetario. La
strada che conduce alla guerra viene costruita da costoro, passo
dopo passo, sino a giungere ad un presumibile punto di non
ritorno.
E, a proposito della “memoria del passato”, vale la pena
ribadire l’occorrenza che essa debba essere sempre fondata su
imparziali giudizi (non certo quelli unilaterali dei potenti di
turno o precostituiti ad arte da taluni ambienti interessati a
non far conoscere la verità) che mettano il più possibile in
luce i lati oscuri o taciuti degli avvenimenti, i comportamenti
dei personaggi politici e militari che su di essi hanno
influito, gli interessi egemonici ed economici dei vari centri
di potere mondiale che li hanno incentivati. Il tutto nel
quadro, più o meno rispettoso, delle convenute normative
internazionali.
Le svariate tendenze ideologiche o di fanatismo religioso, pur
se talvolta impiegate come paravento o come strumento
propagandistico, non dovrebbero mai divenire altrettante spinte
revansciste o assolutiste e non dovrebbero seguitare ad
innescare motivazioni strumentali per deleteri scontri armati
fra Nazioni. E’ dovere di chi ancora non ha perso di vista la
realtà dell’oggi, manifestare solidarietà e condivisione a chi
lotta, nel Mondo già parecchio danneggiato ecologicamente, per
affermare l’aspirazione a vivere in PACE, senza la costante
paura di avere sul collo una sorta di spada di Damocle.
C’è solo da augurarsi che i nefasti dispensatori di morte che
sperimentano, costruiscono e vendono armi sempre più sofisticate
e micidiali anche a gente impreparata ad usarle e che le adopera
per spargere disastri, i vertici politici delle Nazioni
turbolente che pretendono di dominare con la forza tutto e
tutti, gli esecutori che formano i quadri militari di comando, i
mercenari o i fanatici che vivono e agiscono all’insegna del
terrore, comprendano, alla fine, che se il Pianeta Terra, mercé
la loro deprecabile opera, dovesse essere avviato verso la
catastrofe finale della autodistruzione, neppure loro potranno
godere di un lasciapassare verso la salvezza.
6 gennaio 2020 Luau
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LA PACE MONDIALE e LA METASTASI DEL POTERE
EGEMONICO E MILITARISTICO DEGLI STATI UNITI.
Nell’ambito di vastissimi territori asiatici e africani,
risaputamente smembrati in una numerosa varietà di stati e
staterelli, a parte la miserrima vita e la indigenza delle
popolazioni, si susseguono cruenti conflitti locali, scontri
tribali, attentati terroristici. Rappresentano oggi un
pericoloso vulcano che preoccupa parecchio e compromette ogni
aspirazione alla pace mondiale.
Nel settore mediorientale, in particolare, si contrappongono le
due principali ramificazioni monoteiste dell’Islam, Sunniti e
Sciiti, affiancati e solidali solo nella pregiudiziale e
irriducibile odiosità verso Israele.
La millenaria rivalità tra le varie fazioni che compongono il
mosaico islamico, talvolta tracimata in aperti conflitti armati
o prevalentemente affidata alla criminale prassi del terrorismo
e degli attentati, ha indirettamente coinvolto, per svariate
motivazioni di interesse economico prevalentemente legate al
petrolio e al gas naturale, oltre che talune Nazioni
appartenenti al cosiddetto Mondo Occidentale, le due
superpotenze ex marxiste, Russia e Cina.
Sono abbastanza note le cause che, dalla fine del periodo
colonialista in poi e dopo la creazione dello Stato di Israele,
hanno innescato in una particolare zona del Mondo tutta una
serie di conflitti locali. Implacabili e spietati conflitti che
ancora oggi seguitano ad interessare e ad insanguinare parecchi
territori facenti capo a Israele, Egitto, Gaza, Siria, Libano,
Giordania, Iraq, Iran, Kuwait, Stato Islamico (ISIS),Yemen,
Libia. Senza dire delle violente lotte fratricide e dei genocidi
che tuttora sconvolgono parecchie zone dell’Africa.
Gli insanabili contrasti, anche per effetto della interessata e
talvolta pesante interferenza, diretta e indiretta, delle
cosiddette Superpotenze mondiali, non sembra che si possano
facilmente dirimere o eliminare. Oggi il Medio Oriente è
divenuto una sorta di Santabarbara che potrebbe esplodere, in un
crescendo incontrollabile, finendo con l’innescare, di fatto,
varie concause e conseguenze che potrebbero degenerare in un
pericolosissimo “terzo conflitto mondiale”.
L’attentato, motivato o meno, che ha portato alla morte il
generale iraniano Quassem Soleimani, condotto a termine da
“droni” USA, su specifico ordine dell’imprevedibile e cinico
Presidente Trump, ha fornito al Mondo una ulteriore
dimostrazione che certi ambienti guerrafondai (dell’una e
dell’altra parte in causa) sono vocati più all’esercizio della
violenza che a quello della diplomazia e del dialogo.
In alto loco si è però scientemente (o solo incoscientemente)
trascurato il fatto che l’omicidio a sangue freddo, per
motivazioni di rivalsa o di vendetta, è pur sempre un omicidio e
non può essere equiparato alla ragionevole “punizione” di un
presunto colpevole, pur se presentato e chiamato in causa come
responsabile ed organizzatore di attentati, di azioni
terroristiche o solo perché a capo di unità speciali per
operazioni segrete all’estero.
Non siamo più nell’epoca dei giudizi sommari parecchio in uso, a
suo tempo, nel Far West o dei criminali metodi alla Al Capone.
Può darsi che l’impulsivo inquilino della Casa Bianca,
esprimendo in pieno la mentalità prepotente di chi detiene il
potere, non abbia valutato le possibili conseguenze e non si sia
reso conto a quale pericolosa “escalation” abbia dato il via.
Nella misura in cui sostiene che è suo dovere difendere gli
americani (purtroppo intrufolati dappertutto), ha sicuramente
creato condizioni di grave rischio per milioni di altri
cittadini del Mondo. Non basta avere alle spalle un potenziale
militare di assoluta superiorità per fare la faccia feroce
contro chiunque.
Decantata quanto costosissima superiorità militare che si
estrinseca, purtroppo, oltre che parallelamente alla continua
ricattatoria minaccia di “sanzioni economiche”, anche mediante
l’eventuale automatico coinvolgimento dei Paesi in atto aderenti
alla NATO, fra cui in prima fila l’Italia.
Secondo le regole, neppure al pur potente Presidente degli Stati
Uniti dovrebbe essere consentito di decidere “da solo” di
varcare il Rubicone, come se la cosa riguardasse esclusivamente
la Nazione da lui temporaneamente rappresentata.
La storia si ripete, anche se oggi la fonte della forza bruta
dei guerrafondai non scaturisce più dalla vecchia e passiva
Europa, bensì da Paesi d’altri continenti che hanno fatto
proprio il credo della “superiorità” e della “invincibilità”. In
mano a codesti nuovi promotori e artefici di sciagure
planetarie, quale sarà il futuro dei popoli della Terra, tutti
inclusi e nessuno escluso?
Papa Francesco, in occasione del suo recente viaggio in Giappone
ove ha visitato i luoghi dell’esecrando misfatto di Hiroscima e
Nagasachi (città in cui l’arma atomica fu senza alcuno scrupolo
impiegata dagli americani, nell’agosto 1945, provocando, a parte
gli incommensurabili danni ambientali, l’ecatombe di diverse
centinaia di migliaia di morti), ha detto che il Mondo deve
mantenere viva la memoria storica dei nefasti avvenimenti del
passato se vuole evitare che possano ripetersi, in danno della
Pace globale.
A prescindere dalla autorevolezza o meno del suo messaggio, è
pienamente condivisibile la convinzione che conservare e
trasmettere, particolarmente alle giovani generazioni, la
“memoria” di tante passate tragiche e criminali sciagure, può
stimolare efficacemente la coscienza delle masse.
E’ augurabile che tale convinzione possa anche indurre ad
approntare una valida invalicabile barriera contro quella lercia
minoranza di personaggi senza scrupoli che, magari in forza di
pilotati sistemi pseudo democratici, detengono e manovrano le
leve del potere economico e militare.
Le cosiddette “SUPERPOTENZE” mondiali (USA, Russia, Cina, e
satelliti vari), dovrebbero comprendere che non si può ottenere
una duratura PACE mondiale condizionando, per proprie
motivazioni egemoniche o economiche, le strutture portanti
(ideologiche, religiose e antropologiche) dei Paesi interessati,
oltre che le stesse basi esistenziali della compagine mondiale
delle altre Nazioni.
A furia di scherzare col fuoco si potrebbe generare un
apocalittico incendio, un irreversibile disastro planetario. La
strada che conduce alla guerra viene costruita, passo dopo
passo, sino a giungere ad un presumibile punto di non ritorno.
E, a proposito della “memoria del passato”, vale la pena
ribadire l’occorrenza che essa debba essere sempre fondata su
imparziali giudizi (non certo quelli unilaterali dei potenti di
turno o precostituiti ad arte da taluni ambienti interessati a
non far conoscere la verità) che mettano il più possibile in
luce i lati oscuri o taciuti degli avvenimenti, i comportamenti
dei personaggi politici e militari che su di essi hanno
influito, gli interessi egemonici ed economici dei vari centri
di potere mondiale che li hanno incentivati.
Il tutto nel quadro, più o meno rispettoso, delle convenute
normative internazionali.
Le svariate tendenze ideologiche o di fanatismo religioso, pur
se talvolta impiegate come paravento o come strumento
propagandistico, non dovrebbero mai divenire altrettante spinte
revansciste o assolutiste e non dovrebbero seguitare ad
innescare motivazioni strumentali per deleteri scontri armati
fra Nazioni.
E’ dovere di chi ancora non ha perso di vista la realtà
dell’oggi, manifestare solidarietà e condivisione a chi lotta,
nel Mondo già parecchio danneggiato ecologicamente, per
affermare l’aspirazione a vivere in PACE, senza la costante
paura di avere sul collo una sorta di spada di Damocle.
C’è solo da augurarsi che i nefasti dispensatori di morte che
sperimentano, costruiscono e vendono armi sempre più sofisticate
e micidiali anche a gente impreparata ad usarle e che le adopera
per spargere disastri, i vertici politici delle Nazioni
turbolente che pretendono di dominare con la forza tutto e
tutti, gli esecutori che formano i quadri militari di comando, i
mercenari o i fanatici che vivono e agiscono all’insegna del
terrore, comprendano, alla fine, che se il Pianeta Terra, mercé
la loro deprecabile opera, dovesse essere avviato verso la
catastrofe finale della autodistruzione, neppure loro potranno
godere di un lasciapassare verso la salvezza.
6 gennaio 2020 Luau
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