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				Quando eravamo “sicchi”
 
 Diario di un ragazzo nei 
				primi anni 40”
 di
 Pino Ferrante
 
 Pietro aveva preso sonno in tarda ora. Lo scaldino sotto le 
				coperte s’era spento anzitempo perché gli mancava la giusta 
				quantità di carbonella. Fu, invece, il suo corpo da fanciullo 
				durante la notte a riscaldare il suo letto. Ma erano già le 
				sette del mattino e occorreva prepararsi per la scuola. Si fece 
				coraggio e alzò la “frazzata” sfidando il gelo della cameretta 
				esposta a nord e con la neve che imbiancava abbondante i tetti 
				di quelle case di gesso addossate l’una sull’altra. Raccolse i 
				suoi panni freddi e turgidi come le mammelle di un’orsa polare e 
				velocemente li indossò, sperando che le sue membra ancor calde 
				facessero il loro lavoro. La mamma era in piedi sin dalle cinque 
				e aveva acceso i fornelli della cucina imprecando contro il 
				carbonaio che, insieme al carbone, le aveva venduto dei sassi. 
				Il capraio era in cortile a mungere le sue creature il cui latte 
				spumeggiante e caldo aiutava Pietro giorno dopo giorno a 
				iniziare al meglio la sua giornata di alunno della terza 
				elementare nell’anno XVIII dell’era fascista. Ingoiò velocemente 
				quel cibo arricchito da due fette di pane e scese sulla strada. 
				Risentì il quotidiano dolore ai piedi per i geloni costretti a 
				sopravvivere dentro modeste scarpe comprate un anno prima e 
				riparate alla meglio con frequenza mensile da don Pietro Murgano, 
				calzolaio e non ciabattino, come desiderava essere conosciuto 
				dai suoi clienti.
 Immerse i suoi piedi nella brodaglia gelida della neve e si 
				avviò verso la scuola situata dentro le mura trecentesche del 
				monastero francescano. In piazza Balata entrò nella cartoleria 
				di Gianbattista Buscemi e chiese se fosse “arrivato”, come fosse 
				un treno, il sussidiario. Gli fu detto dal commesso dietro il 
				bancone: ”qui ancora non lo abbiamo. Vedi se lo trovi da 
				Carota.” In piazza san Francesco dentro la cartoleria del signor 
				Carota stazionavano i farmacisti don Zaccaria Librizzi e Tanteri 
				e l’avvocato Arduino Marchese. Dialogavano col cartolaio a bassa 
				voce e con circospezione, come se volessero custodire entro 
				quelle quattro mura da orecchie indiscrete la loro appartenenza 
				alla “massoneria”. Cosa che tutti, invece, sapevano. Del 
				sussidiario anche lì non ci fu traccia. Sconsolato attraversò la 
				piazza ove trovò un gruppo di uomini in abito scuro delle feste 
				e donne in scialle nero venuti dalla provincia. Due di essi 
				esponevano un grande ritratto d’epoca di un giovane. Al ragazzo 
				fu difficile comprendere cosa facessero lì e a quell’ora. Giunto 
				davanti alla sede del tribunale, ubicato insieme alla biblioteca 
				comunale dentro l’antico monastero, gli fu spiegato dall’usciere 
				che la persona del ritratto era stato ucciso dal suo rivale in 
				amore e quel giorno si celebrava il relativo processo contro 
				l’assassino in corte d’assise. Gli disse anche che quella 
				fotografia ostentata dai congiunti della vittima serviva, 
				insieme alle lacrime e alle imprecazioni contro l’imputato, a 
				commuovere i giudici popolari e ad aiutare l’avvocato di parte 
				civile nella sua opera. Pietro evocò gli spettacoli 
				melodrammatici al castello di Lombardia, associandoli a quello 
				strano modo di illustrare gli eventi attraverso le immagini. Da 
				imberbe non aveva ancora compreso che l’apparire in effigie 
				vale, a volta, più della presenza in carne ed ossa.
 Prima di raggiungere le due anguste aule della scuola, sentì la 
				invocazione, con tono paterno, del bibliotecario avvocato 
				Fontanazza rivolta agli alunni vocianti: ”non fate “casino”. In 
				questa biblioteca occorre lo stesso silenzio usato in chiesa”. 
				Entrò a scuola e la maestra Melfa diede un veloce sguardo ai 
				presenti e disse: “Pare che ci siete tutti. Aprite i quaderni a 
				righe. Vi detto un brano del libro “Cuore” del grande scrittore 
				De Amicis”.
 
 
 Il diario continua - personaggi e luoghi dell’infanzia
 
 
 Fileccie, rummuli e palle di pezza. Ottobre 1940
 
 Io abitavo in Piazza san Francesco di fronte al grande complesso 
				monastico. Il portone di ingresso era in via Roma 292, ove don 
				Pietro, un austero portiere con lunghi baffi attorcigliati e 
				pipa, controllava il traffico di persone dirette agli uffici 
				dell’Istituto Nazionale Fascista della previdenza sociale, posti 
				al secondo pano. Al terzo piano v’era casa mia, costruita nei 
				primi anni del novecento sulle mura del palazzo settecentesco 
				del barone Potenza. Disponeva di un’ampia terrazza. Da essa e 
				dalle finestre con moderne persiane guardavo tutto quello che di 
				pubblico e di privato accadeva in Piazza Vittorio Emanuele, 
				cuore pulsante di Enna. La musica in piazza, le festività 
				religiose, le adunate e le sfilate civili e militari del regio 
				esercito e della milizia di regime avevano come teatro la mia 
				piazza e tutto si svolgeva sotto i miei occhi. La storia di 
				quegli anni, piccola e grande, veniva vissuta da me e dagli 
				ennesi con la mediazione illustrata di quegli eventi ove il 
				sacro, il profano e il folclore si associavano e tra di loro si 
				intersecavano.
 A destra il nuovo palazzo Militello con il suo stile Liberty o 
				floreale della novella arte nobilitava il tessuto urbano. Nelle 
				sue eleganti botteghe s’erano insediati la farmacia Librizzi, il 
				caffè Marro, il negozio di dolciumi “Unica”e la calzoleria 
				Serra. Era, quello, un angolo di un’Enna città, non più paese, 
				anche se si continuava ad usare da parte dei contadini e degli 
				zolfatari la frase “acchianamo o paisi” quando, dopo una 
				settimana di lavoro sui campi e nelle zolfare, tornavano a casa 
				per la “muta”. D’altronde i nostri genitori erano nati a 
				Castrogiovanni, non ancora Enna, divenuta nel 1926, con gioia 
				unanime, capoluogo di provincia.
 Nello stesso palazzo, sul lato di via Roma, un moderno ufficio 
				di viaggi C.I.T. dispensava ai paesani il fantastico sogno di 
				esotici paesi lontani da raggiungere a bordo di un aereo lì 
				rappresentato da un vistoso modello appeso dietro le vetrine. 
				Anch’io frequentavo la scuola di Pietro e, da balilla, avevo 
				emotivamente partecipato, insieme agli altri alunni, alle 
				patriottiche vicende raccontate nel deamicisiano libro “Cuore”. 
				Fu inevitabile che quelle letture fossero di alimento al nostro 
				infantile “amor di Patria”. Quest’ultima, con la lettera 
				maiuscola come tassativamente preteso dalla maestra, era al 
				centro dei nostri interessi e dei nostri infantili impegni 
				civici. A giugno l’Italia era entrata in guerra e, insieme alla 
				Germania e al Giappone, aveva iniziato a far parte dei paesi 
				dell’Asse. Immersi in questo clima culturale, ci sentivamo 
				naturalmente bambini e insieme guerrieri e i nostri giochi e i 
				nostri tempi del vivere quotidiano riflettevano questo comune 
				sentire. Oggetto di particolare attenzione non erano le carte 
				geografiche fisiche ma quelle “politiche”. Esse rappresentavano 
				la “grandezza” dell’Italia con il suo impero coloniale dal 
				mediterraneo all’oceano indiano; quelle visioni erano fonte in 
				ciascuno di un esaltante sentimento di appartenenza ad una 
				“grande” e potente nazione alla pari di Francia e Inghilterra. 
				Tripoli, Bengasi, Derna, Asmara e Adis Abeba erano da noi 
				considerate, anche giuridicamente, città italiane. Cantavamo 
				“faccetta nera” e “Giovinezza”e gli altri inni del regime e al 
				pomeriggio, con la modica spesa di diciannove soldi, al Cinema 
				San Marco assistevamo fino a tarda ora a film di guerra e di 
				eroi e ai documentari di propaganda dell’Istituto “Luce”. Il 
				pensiero “unico” del fascismo era entrato in noi in modo 
				prepotente ed esclusivo; sconoscevamo e non ci erano proposti 
				altri alternativi modelli di organizzazione della società. Così 
				come avevamo indossato senza batter ciglio la divisa di “figli 
				della lupa e di balilla”con lo stesso spirito ambivamo di 
				indossare in futuro i panni di avanguardista, di giovane 
				fascista e di soldato del Regio esercito. D’altronde si 
				apparteneva ad un popolo nel cui seno dominavano le stellette, 
				le mostrine e il grigio-verde. Dentro vistose uniformi si 
				pavoneggiano graduati, ufficialetti e pubblici impiegati; questi 
				ultimi erano stati inquadrati dal regime, riconoscendo a 
				ciascuno il relativo ruolo e importanza. “U giummu”sulle loro 
				teste consentiva di stabilire per ciascuno l’appartenenza al 
				gruppo A dei laureati e a quello B dei diplomati, gli uni e gli 
				altri assimilati agli ufficiali. Nel gruppo C v’erano i 
				subalterni, i graduati. Esibirsi in queste vesti negli 
				innumerevoli eventi celebrativi della Patria era come recitare 
				su un palcoscenico. Gli spettatori erano i loro orgogliosi 
				congiunti e il popolo plaudente e felice; in particolare ci si 
				esaltava quando era dato di assistere alle sfilate di militi 
				marcianti “al passo romano” preceduti da gagliardetti, bandiere, 
				fanfare e dai balilla moschettieri con i loro tuonanti tamburi. 
				Erano questi gli spettacoli da me visti dal palco-terrazza di 
				casa mia dove, legata ad un balaustra, sventolava la bandiera 
				italiana con lo stemma sabaudo. La banda musicale diretta dal 
				maestro Assennato assecondava con le sue marce il progressivo 
				procedere dell’ubbriacamento di un popolo.
 
 
 Ma, nonostante questa unanime condivisione di quel clima 
				culturale, eravamo “sicchi” perché non vi erano alternative 
				all’uso delle gambe per andare a scuola, in campagna, al lavoro 
				e nelle interminabili passeggiate dalla Balata al Castello di 
				Lombardia o a Montesalvo. Si mangiava poco e male e ci si 
				muoveva molto in quel luogo di strade ripide e di trazzere 
				sconnesse; le diete erano, anche dal punto di vista semantico, 
				sconosciute nelle famiglie. Usare un mezzo di trasporto che non 
				fosse quello su asini, muli e carretti era un privilegio 
				riservato a poche famiglie facoltose e alla nobiltà di paese. Ad 
				essi appartenevano le poche automobili delle quali facevano uso 
				parsimonioso, preferendo “u carruzzino” trainato da un cavallo; 
				così si mostrava al popolo la nobiltà dell’animale e, 
				soprattutto, del padrone col suo frustino tra le mani prive di 
				calli. I ragazzi, per vedere o, meglio, per ammirare i treni si 
				recavano alla stazione ferroviaria ai piedi del monte 
				percorrendo anguste scorciatoie che da porta Palermo scendevano 
				sotto il castello fino alla meta. La discesa era facile e 
				veloce, ma tornare in paese con il medesimo mezzo di locomozione 
				costava sudore e fatica, cui si faceva fronte razziando durante 
				il percorso i pochi alberi di fichi e di prugne di sfortunati 
				agricoltori. Rappresentavano, allora, una fonte naturale di 
				energia oggi sostituita da bibite, da dolciumi e da prodotti 
				industriali utili ad alimentare obesità diffusa e malattie.
 Eravamo, per questo, “sicchi”. La vita era , come volgarmente si 
				diceva, movimentata per necessità e non per scelta. Ma eravamo, 
				pur immersi nel dominante pauperismo, felici e contenti perché 
				non conoscevamo altri mondi e altri modi di vivere e di usare il 
				nostro tempo fatto di giornate che non finivano mai specialmente 
				nelle stagioni umide, fredde e nebbiose dell’altipiano. I pochi 
				beni materiali e immateriali ubbidivano al criterio dell’utilità 
				marginale in base al quale la scarsità di un bene ha un elevata 
				utilità. I giochi dell’infanzia di fatto erano perimetrati dalla 
				modestia delle condizioni economiche e si risolvevano giocando 
				“a ciappedde,e nuciddri, cu rummulu” e con palle di pezza in 
				partite di calcio della durata di interi pomeriggi. Queste 
				ultime costringevano i ragazzi solo al gioco rasoterra nei vari 
				“chiani” dell’abitato. Le vere palle di gomma erano riservate a 
				pochi privilegiati che concedevano ad altri, muniti di scarpe di 
				scarsa fattura o a piedi nudi, di formare le squadre. In questo 
				caso tutto si svolgeva nelle piazze principali circondate da 
				edifici i cui vetri subivano la frequente rottura per quelle 
				rare palle che volavano in alto. Era quindi necessario porre 
				assoluta attenzione per evitare che “a guardia” intervenisse per 
				sospendere il gioco e, con generale apprensione, per sequestrare 
				il costoso e ambito oggetto del reato. D’altronde le guardie 
				ossia gli odierni vigili urbani erano impegnati principalmente a 
				reprimere illeciti di modesto spessore, come il mancato possesso 
				da parte dei conducenti di animali della “coffa” posta dietro il 
				loro deretano a raccogliere lo sterco, peraltro assai prezioso 
				quale ottimo concime. I meno fortunati giocavano invece in un 
				campetto ricavato accanto al muro sud del cimitero. Gli incontri 
				avevano termine al tramonto, motivo per il quale spesso si 
				chiudevano con goal a due cifre. Quando la squadra vittoriosa 
				intendeva perder tempo, faceva in modo che la palla di pezza 
				superasse il muro e finisse fra le tombe, di cui si nutriva 
				soggezione e paura, seppure contenessero le ossa dei nonni. Fra 
				i ragazzi v’era sempre un eroe pronto coraggiosamente a 
				recuperarla scavalcando quella recinzione che divideva il mondo 
				dei defunti e del mistero da quello degli esseri viventi. La 
				vita moderna , nell’immaginario collettivo,era rappresentata dal 
				luminoso negozio “Unica” di dolciumi allineati ordinatamente 
				dietro le vetrine , dall’agenzia di viaggi che distribuiva sogni 
				e desideri di girare il mondo tramite un aereo lì appeso e 
				biglietti ferroviari ad un popolo di emigranti e ai commercianti 
				per “scendere”, come fosse una scala, a Catania o Palermo, dal 
				negozio di radio e di grammofoni dei fratelli Macaluso, dai 
				grandi negozi di stoffe di Maddalena e Di Bella, dalla 
				“Provvida” una sorta di modestissimo supermercato di alimenti, 
				dal grande Hotel Belvedere con la sua porta girevole e il campo 
				da tennis.. In cima ai desideri v’era quello di accedere 
				nell’unico ascensore nel territorio provinciale collocato nel 
				palazzo del Governo ove Attilio Mingrino, figlio di un 
				dipendente della prefettura, ne consentiva l’uso ai suoi 
				compagni; era come imbarcarsi su un aereo senza pagare il 
				biglietto. Solo gli uffici pubblici erano muniti di 
				riscaldamento con termosifoni. Motivo, forse, che spingeva 
				allora gli impiegati a rispettare gli orari di lavoro e a 
				privare le famiglie della loro presenza in case umide e fredde.
 
 
 Ci sentivamo i padroni del mondo
 
 Ogni evento era occasione per nutrirci di concetti, motti e 
				parole che ci facevano sentire forti, potenti e portatori di 
				civiltà nei paesi dell’impero. Al cinema, nei libri di scuola, 
				sui muri delle case, nei giornali e giornaletti dedicati ai 
				ragazzi non c’era argomento che non fosse destinato ad un 
				martellante indottrinamento fascista. Questa strategia del 
				regime era esplicita e non veniva mascherata, come oggi accade, 
				attraverso i messaggi manipolatori dei “media”. Il podestà, il 
				federale, le camice nere erano ovunque presenti e per noi 
				rappresentavano i sacerdoti del regime e dei suoi riti; noi 
				imberbi assorbivamo il verbo del duce come fosse il latte di 
				nostra madre e, insieme alla maggior parte degli adulti, non 
				avevamo dubbi sul destino glorioso della Patria sotto la guida 
				del duce Benito Mussolini, la cui divinizzazione somigliava a 
				quella degli imperatori romani. Non a caso cantavamo “l’inno a 
				Roma” e “giovinezza” col medesimo trasporto dell’Ave Maria di 
				Scubert in chiesa, dove non pochi preti benedivano gagliardetti 
				e fasci littori. Convincere un popolo a condividere con voluttà 
				il pensiero unico era come bere acqua quando si ha sete. Nel 
				caso nostro era sete e desiderio di un futuro migliore, anche se 
				fatto dei sogni di chi da povero si illude di poter diventar 
				ricco. Il sabato lo trascorrevo come balilla e la domenica 
				servivo a messa il celebrante nella chiesa dell’immacolata a 
				pochi passi di casa mia. Il sacerdote era felice tutte le volte 
				gli portavo una bottiglia di olio utilizzato, a suo dire, quale 
				combustibile della “lampa”. Mia padre ironizzava su questa 
				abitudine di mia madre dispensatrice di quel prezioso alimento e 
				non mancava di fare giusta ironia: “U parrino, che non è 
				stupido, ci “consa a pasta” e poi si scarica l’anima con le sue 
				litani. E fa bene perché non spreca questo ben di Dio 
				inutilmente. A me invece tocca pagare il conto “salato” ai 
				fratelli Milazzo.” Nelle innumerevoli festività civili religiose 
				e militari caratterizzate da una massiccia presenza nelle strade 
				e nelle piazze di gente venuta anche dalla provincia, era 
				inevitabile che questa umanità priva di “coffa” o di altre 
				alternative in assenza di gabinetti pubblici rilasciasse nei 
				vicoli meno esposti e bui il profumato contenuto del loro 
				stomaco. Gli utenti principali di queste strette e ripide strade 
				eravamo noi ragazzi costretti agli “slalom” fra gli escrementi 
				che, contrariamente allo sterco degli animali, non erano oggetto 
				di attenzione da parte degli spazzini e delle guardie tanto da 
				ritenerli un normale “arredo” di quei luoghi. A tale proposito 
				ricordo una grottesca disavventura a me capitata. Un giorno di 
				maggio due o tre di noi ragazzi ci eravamo “appesi”, in assenza 
				del tranvai, alla parte posteriore di un autocarro per lasciarci 
				condurre senza fatica al castello di Lombardia. Dopo la manovra 
				di inversione di marcia del veicolo per ridiscendere la via 
				Roma, mi ero di nuovo appeso senza pensare che vi sono, come di 
				regola, “tante salite e tante discese”. Sta di fatto che ebbi 
				paura e in prossimità della piazza matrice staccai la presa. Per 
				l’inerzia dovuta alla velocità del veicolo il mio corpo scivolò 
				in orizzontale sulla strada colma di sterco. Ripulii quel tratto 
				acciottolato di via come fossi stato uno straccio. Per mia 
				fortuna non avevo subito ferite o lesioni. Ma ero inzuppato di 
				letame dalla testa ai piedi. Mi rialzai, fuggii velocemente a 
				casa e, in quel primo pomeriggio assolato di fine maggio feci, 
				affidamento sull’assenza di persone. Sperai con tutta l’anima di 
				non esser visto e annusato lungo il percorso. Mia madre, nel 
				vedermi in quello stato palesemente indecente e maleodorante, mi 
				disse: “Per caso sei caduto nel pozzo nero o nella fogna? 
				Conoscendoti bene, tutto potevo immaginare, tranne una porcata 
				del genere! ” Solo ora, alla mia tarda età, ho ritenuto di 
				confessare ad “omnes” questa mia disavventura. Ho così evitato 
				che i miei amici su essa speculassero affibbiandomi un adeguato 
				soprannome; avrei dovuto sopportare, stante la veridicità 
				dell’accaduto, il loro continuo sarcasmo. Probabilmente 
				avrebbero profittato per prendermi in giro come uomo di “merda” 
				per oltre ottanta anni. Cosa che anch’io avrei fatto, a parti 
				invertite, nei loro confronti. Quanta satira e lazzi mi sono 
				lasciato alle spalle! Spero che i miei vegliardi coetanei 
				leggendomi sorridano e ricordino, nei loro frequenti viaggi 
				della memoria, quella parte gioiosa del lontano passato della 
				nostra verde età. Quando sognavamo di essere padroni del mondo.
 Asini, muli e carretti
 Il furgone del pane trainato da un cavallo
 I carretti da munnizza
 La bicicletta e don Pippino Di Stefano, u immirutu.
 La balata
 La strada di scarpari, don Vannuzzo Lodato, Enrico Manna ed 
				altri
 U chiano di prucini e gli altri chiani
 Funnurisi
 La via principale
 La modista
 La villarosana e l’americano
 Il moderno negozio di dolciumi nel palazzo Militello
 Le agenzie di viaggio e l’emigrazione
 Il treno e la stazione. “pigliamo l’accurzo”
 Le scampagnate, gli abbeveratoi, la sete e gli alberi di frutta
 U Sgnuruzzu u laco.
 I caffè
 La banda musicale e il maestro Assennato
 U rilivu
 A guardia
 U cummannanti delle guardie Fontanazza e Fazzi
 U chiano di San Cataldo, il falegname Peppe Greca, il barbiere 
				Bevanda
 I ristoranti
 Il Belvedere e il grande Hotel
 La festa dell’uva
 Milizia e regio esercito
 Il distretto militare
 Il campo sportivo, saggi ginnici, sfilate, il passo romano
 La prova della sirena
 L’oscuramento
 Taci, il nemico ti ascolta
 I bollettini di guerra
 Tessere annonarie
 La borsanera
 U stazzuni
 Le feste principali e le sartorie
 
 
 
 
 
                  
                
 
                 
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