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Prima che sia troppo tardi.
Alcuni rimedi alla crisi che affligge l'economia italiana.

 di Renato Sgroi Santagati

 

La crisi economico-finanziaria che stiamo vivendo è una sorta di tsunami di dimensioni impressionanti, che sta sconvolgendo il mondo intero. Quindi, anche l'Italia.

Invero, nonostante le tremende conseguenze che una catastrofe del genere ha fin qui generato e continua a generare, noi Italiani continuiamo a farla oggetto delle nostre lamentele pressoché quotidiane ma, al tempo stesso, sembriamo ormai rassegnati a subirne passivamente gli effetti fino a quando essa sarà cessata: la più gran parte degli Italiani, peraltro, non ha ancora individuato le vere cause della crisi che sta attraversando il Paese e, per di più, non riesce a capire quando e come si potrà uscire da questa sorta di incubo. Gli stessi media, dopo avere inneggiato a Mario Monti ed al suo governo tecnico (prima ancora di conoscerne il programma) e, successivamente, al “governo delle larghe intese” arrangiato da Enrico Letta ed ai suoi estremi tentativi di tirare a campare di rinvio in rinvio (mentre il debito pubblico continuava a crescere di diecine di miliardi di euro), oggi appoggiano (o, meglio, giustificano pur non nascondendo delle inevitabili perplessità) il governo Renzi,. D’altra parte i giornalisti, essendo ormai apertamente politicizzati, e quindi inevitabilmente faziosi, si guardano bene dall’ammettere che nessuno dei governi che si sono succeduti negli ultimi decenni ha fin qui adottato uno solo dei provvedimenti necessari ad arginare o ad impedire la crisi occupazionale ed economica che ha lentamente - ma inesorabilmente - messo in ginocchio il Paese portandolo alla recessione epocale e senza precedenti che lo affligge.

Di fronte a questo tsunami internazionale, dal canto loro, i nostri politici si sono preoccupati - ed ancora oggi essenzialmente si preoccupano - soltanto di ribaltare sugli avversari la responsabilità della crisi, anche se probabilmente capiscono che stavolta non servirà a nulla addossare ad alcuni piuttosto che ad altri avversari le responsabilità di quanto sta accadendo (o di quanto accadrà). In ogni caso, tuttavia, anziché comprendere che litigare mentre la nave affonda non porta ad alcun risultato (anzi, la fa affondare più velocemente), tutti questi signori - e sottolineo “tutti” - continuano a prendere in giro gli Italiani ed a portare acqua al proprio mulino, senza nemmeno cercare delle soluzioni concrete per uscire dalla crisi … forse dando per scontato che, di soluzioni, non ce ne sono!

Ancora oggi, quindi, pur avendo preso atto della terribile emergenza che gli Italiani si trovano a dovere fronteggiare, i nostri politici continuano a litigare ed a speculare su qualsiasi errore della avversa fazione (o addirittura corrente del proprio partito) nel tentativo di demolirla a qualsiasi costo … anche a costo di mandare il Paese nel caos! Laddove, invece, sarebbe preciso dovere di tutti - tanto di coloro che governano il Paese quanto di coloro che, opponendosi ai primi, si  candidano a governarlo successivamente - mettere da parte le beghe dell’appartenenza a questo od a quello schieramento, rinunciare alle faide (interne od esterne al proprio partito) e/o a pretestuose questioni di principio (di natura ideologica o pseudo-tale) e mettersi invece immediatamente intorno ad un tavolo per discutere, progetti alla mano, dei rimedi ipotizzabili come idonei a fare uscire l’Italia dalla conclamata crisi in questione.

Eppure, di provvedimenti da adottare per rilanciare l’economia e/o per creare nuovi posti di lavoro ce ne sarebbero stati, ed ancora oggi ce ne sarebbero, tanti: e, per di più, senza sforzarsi di inventare nulla…ma semplicemente copiando i rimedi ed i provvedimenti adottati nel passato (e/o anche nel presente) dai governi di altri paesi. Esaminiamo alcuni di quei rimedi.

1. Per quanto riguarda il debito pubblico.

E' ormai notorio che, a suo tempo, la Federal Reserve ha prestato alle banche in difficoltà, in gran segreto, la somma astronomica di mille e duecento miliardi di dollari al tasso incredibilmente favorevole dello 0,01%: quel denaro avrebbe dovuto servire a mettere le banche in condizione di rimettersi in sesto per riaprire il credito alle piccole e medie imprese ed ai privati e per ridare quindi ossigeno all’economia dei paesi che erano venuti a trovarsi in difficoltà a causa del notevole debito pubblico accumulato; invece, mentre ciò accadeva, i governi di molti paesi europei imponevano ai propri “sudditi” pesanti misure di austerità al preteso e dichiarato scopo di ridurre il debito pubblico lievitato a causa degli esosi interessi imposti dai mercati finanziari (che avevano prestato denaro, agli stessi paesi, a tassi pari al 6%, al 7% e persino all’11%). Così, in buona sostanza, quei governi, strangolati da quegli esosi tassi d’interesse, si sono visti costretti a tagliare gli investimenti e ad intervenire addirittura su pensioni, assegni familiari e stipendi dei dipendenti pubblici, facendo quindi aumentare a dismisura la disoccupazione e portando i propri amministrati ad una recessione di gravità tale da richiamare alla memoria la terribile crisi del 1929.

In proposito, vale la pena ricordare che, proprio con riferimento alla grande crisi americana del 1929, il Presidente Roosevelt era solito affermare apertamente: “è altrettanto pericoloso essere governati dal denaro organizzato quanto lo è essere governati dal crimine organizzato”. Per il grande statista, quindi, era di tutta evidenza che non si potevano privilegiare le banche a discapito dei cittadini!

Di ben altro avviso si sono mostrati invece gli economisti europei (compresi quelli italiani) dell’ultimo ventennio, i quali hanno infatti privilegiato le banche ed i cosiddetti mercati finanziari senza curarsi dei danni che, così facendo, essi arrecavano all’economia del Paese ed alle future generazioni. Vero è che la più gran parte del denaro che gli stati europei hanno preso a prestito dai mercati finanziari è servito a finanziare il rispettivo debito pubblico accumulatosi nel tempo; ma è altrettanto vero che i tassi d’interesse esorbitanti per debiti accumulati da decenni non ha aiutato affatto (e neppure oggi aiuterebbe) né i cittadini né i governi, ma ha condotto (ed anche oggi condurrebbe) solo a strangolare le economie dei vari paesi indebitati a tutto vantaggio di alcune banche private.

Non sarebbe stato meglio, allora, se la BCE (Banca Centrale Europea), anziché salvare il sistema finanziario e le banche, avesse finanziato il “debito pubblico pregresso” ad un tasso prossimo allo zero? Vero è che la BCE non era autorizzata a prestare denaro agli stati membri, ma è altrettanto vero che essa avrebbe potuto prestare denaro, senza limiti, agli istituti di credito pubblici (a norma dell’art. 21.3 dello Statuto del sistema europeo delle banche centrali) e alle organizzazioni internazionali: ben avrebbe potuto, infatti, fare prestiti allo 0,01% alla Banca Europea per gli Investimenti (BEI), alla Cassa Depositi e Prestiti o alle varie banche pubbliche nazionali a condizione che queste, a loro volta, finanziassero allo 0,02% gli stati che si erano indebitati o si stavano indebitando per rimborsare il debito preesistente.

Ebbene, se così è, cosa vieta oggi che si possano aprire linee di finanziamento di questo tipo a far tempo dal mese prossimo? Nulla.

Da tempo, invero, il bilancio dell’Italia si sarebbe chiuso in pareggio se l’Italia non fosse stata costretta ad affrontare annualmente una spesa per interessi sempre più elevata. Perché, allora, si lasciato che l’Italia venisse ridotta a mal partito, e quasi distrutta, da una recessione pressoché irreversibile, piuttosto che porre fine ai privilegi delle banche private e finanziare al tasso dello 0,02% la Cassa Depositi e Prestiti e la Banca pubblica nazionale? Non si può e non si deve lasciare che l’Europa precipiti nell’instabilità politica e in una recessione senza precedenti per tutelare le rendite delle banche! Non si può e non si deve lasciare che le nostre scuole, i nostri ospedali, i nostri centri di ricerca e l’insieme del nostro sistema sociale vadano in rovina solo per consentire alle banche di soddisfare la propria avidità e per favorire la speculazione dei mercati .

Eppure, paradossalmente, mentre già nel 2012 in Grecia, in Spagna e in Italia nessuno si arrischiava più a scommettere sulla durata dei nuovi governi di fronte al crescente sconforto sociale, all’aumento dilagante della disoccupazione e ad un sempre più preoccupante conflitto tra le classi sociali, la Germania continuava ad imporre, ai paesi più deboli ed indebitati, continui piani di rigore ed una sempre più intollerabile austerità: e ciò, con l’accondiscendente placet dei signori Draghi e Monti, Prodi e Berlusconi, Bersani e Tremonti, sempre pronti a giustificare tale placet con un comodo (quanto ipocrita) “lo vuole l’Europa”!!

Se è vero, come è vero, che il ruolo fondamentale che i trattati europei attribuiscono alla Banca Centrale Europea era (ed è) quello di vigilare sulla stabilità dei prezzi, è doveroso porsi almeno due interrogativi: come ha potuto la BCE rimanere indifferente quando in alcuni paesi europei si raddoppiava, in pochi mesi, il tasso d’interesse dei loro titoli di stato? Come ha potuto (e come può) rimanere inerte quando il costo del debito minacciava (e continua a minacciare) di fare cadere quei paesi in una sempre crescente recessione che già qualche anno fa il governatore della Banca d’Inghilterra affermava essere ancora “più grave di quella degli anni Trenta”?

Stando così le cose, diviene indispensabile che i leader europei, a cominciare dai tedeschi, ammettano che l’austerità ed il rigore fin qui imposti ai paesi più indebitati sono stati eccessivi e hanno generato effetti deflagranti non soltanto per l’economia di quei paesi ma anche per l’economia di tutta l’Europa e comprendano che l’intera Europa potrebbe rimanere coinvolta nella recessione. Ne consegue che tutti i leader europei, a cominciare dalla Merkel, devono mettere da canto il rigore ed alleggerire gli oneri finanziari che da decenni gravano sul debito pubblico dei paesi più deboli. Sarà poi compito della Banca Centrale Europea, assumendo una decisione politica lungimirante e coraggiosa (che peraltro non richiede alcuna revisione dei trattati), esercitare la propria facoltà di fornire alla BEI o alle banche pubbliche dei vari paesi, al tasso dello 0.01% (od anche inferiore), la liquidità necessaria a finanziare a loro volta, al tasso dello 0,02%, i paesi che si sono indebitati o si indebitano per rimborsare il debito preesistente od anche per contrarre un debito nuovo allo scopo di difendersi dalla eventuale speculazione dei mercati.

Solo così la BCE potrà interrompere, almeno per qualche tempo, la spirale del rialzo dello “spread”, cioè del differenziale tra il tasso d’interesse sul finanziamento imposto dai mercati a uno stato in difficoltà e quello pagato da uno stato ritenuto affidabile; in tale modo, impedendo che gli “spread” dei paesi membri salgano oltre una certa soglia, la BCE potrà impedire ai mercati di continuare ad imporre le loro esose condizioni e alle banche private di strozzare i paesi costretti ad indebitarsi per rimborsare il debito preesistente.

Una cosa, del resto, è oggi quanto mai certa. In tutti i paesi oggi oppressi dai continui piani di rigore e di austerità imposti dall’Europa dei paesi-leader, i cittadini sono profondamente indignati ed arrabbiati per via dei privilegi esorbitanti di cui godono la maggior parte delle banche private. Si avverte sempre più l’esigenza che la politica dei leaders europei, a cominciare da Matteo Renzi, faccia una scelta di campo chiara e definitiva: o si mette al servizio dei popoli o sta al servizio dei banchieri. Occorrono, dunque, provvedimenti coraggiosi ed urgenti per fare ripartire la crescita, come quello diretto ad allentare innanzitutto,la stretta creditizia delle banche nei confronti delle imprese; e, poi, come quello diretto a dare la massima accelerazione al già annunciato pagamento delle somme dovute dalla pubblica amministrazione alle imprese creditrici.

Ecco quindi due prime soluzioni. Sono soluzioni semplici ed immediatamente applicabili, che non necessitano di modifiche dei trattati europei ma solo del sopra auspicato aiuto della BCE. Si tratta di soluzioni che, se applicate, cambierebbero radicalmente la situazione della Grecia, dell’Italia, della Spagna, del Portogallo e, dunque, di gran parte dell’Europa. Ed è in questa direzione che deve muovere, dunque, i suoi primi passi il Governo Renzi se davvero vuole portare fuori dal tunnel il nostro Paese: anche a costo di fare la voce grossa e battere i pugni sul tavolo dei leaders francese e tedesco, il nostro premier deve pretendere di trattare con loro la rinegoziazione dei vincoli europei.

2. Per quanto riguarda la lotta all’evasione fiscale.

- Anche su questo punto, potrebbe esserci molto utile prendere esempio dagli Stati Uniti d’America, i quali già da molti decenni hanno inferto un colpo letale all’evasione eliminando alla radice la piaga del cosiddetto pagamento in nero, cioè consentendo a tutti i contribuenti di detrarre dal proprio reddito imponibile ogni genere di spesa: solo mutuando dal sistema fiscale americano un siffatto éscamotage, nel nostro Paese si potrà portare alla luce il sommerso; è chiaro ed evidente, infatti, che chiunque effettuerà un pagamento, sapendo di poterne detrarre il relativo ammontare dal reddito imponibile, pretenderà la ricevuta (scontrino o fattura) dall’accipiens (cioè da colui che ha ricevuto il pagamento).

- Andando indietro nel tempo e così ricordando che, appena giunto alla presidenza, Roosevelt introdusse un’imposta federale sugli utili per rendere impossibile il dumping fiscale tra stati vicini, si potrebbe introdurre anche a livello europeo un’imposta sugli utili con aliquota nell’ordine del 15% a carico di ciascuno stato membro. In effetti, l’Europa non ha risorse proprie: sono i suoi stati membri che versano ogni anno quanto è necessario a finanziare il bilancio europeo. Ne consegue che, se il bilancio europeo fosse finanziato da un’imposta europea, una buona dose di miliardi di euro rimarrebbe nelle casse del nostro ministero dell’Economia e delle Finanze, con l’ovvia conseguenza che il nostro Paese verrebbe a godere di una corrispondente (e congrua) riduzione del deficit. All’uopo si potrebbe istituire, ad esempio, un’imposta sui dividendi od anche una sorta di ecotassa: così facendo, non solo si metterebbe l’Europa in grado di usufruire di mezzi propri, ma (istituendo una ecotassa) si stimolerebbero, al tempo stesso, le aziende a ridurre i consumi energetici.

- Ovviamente, però, andrebbe al tempo stesso riformato il sistema di tassazione del reddito. Ad esempio, si potrebbe sostituire il gran numero di imposte attualmente in vigore con un’unica nuova imposta sul reddito, ovviamente e rigorosamente progressiva (in modo da correggere, quantomeno, l’iniquità del sistema attuale), da prelevarsi alla fonte sui redditi da lavoro e da capitale. Una parte dei proventi da tale nuova imposta sul reddito, peraltro, potrebbe destinarsi alla spesa sociale.

- Sempre per combattere l’evasione, inoltre, lo Stato dovrebbe dichiarare guerra ai cosiddetti paradisi fiscali: 6 della Spagna, del Portogallo e, dunque, di gran parte dell’Europa. Ed è in questa direzione che deve muovere, dunque, i suoi primi passi il Governo Renzi se davvero vuole portare fuori dal tunnel il nostro Paese: anche a costo di fare la voce grossa e battere i pugni sul tavolo dei leaders francese e tedesco, il nostro premier deve pretendere di trattare con loro la rinegoziazione dei vincoli europei.

2. Per quanto riguarda la lotta all’evasione fiscale.

- Anche su questo punto, potrebbe esserci molto utile prendere esempio dagli Stati Uniti d’America, i quali già da molti decenni hanno inferto un colpo letale all’evasione eliminando alla radice la piaga del cosiddetto pagamento in nero, cioè consentendo a tutti i contribuenti di detrarre dal proprio reddito imponibile ogni genere di spesa: solo mutuando dal sistema fiscale americano un siffatto éscamotage, nel nostro Paese si potrà portare alla luce il sommerso; è chiaro ed evidente, infatti, che chiunque effettuerà un pagamento, sapendo di poterne detrarre il relativo ammontare dal reddito imponibile, pretenderà la ricevuta (scontrino o fattura) dall’accipiens (cioè da colui che ha ricevuto il pagamento).

- Andando indietro nel tempo e così ricordando che, appena giunto alla presidenza, Roosevelt introdusse un’imposta federale sugli utili per rendere impossibile il dumping fiscale tra stati vicini, si potrebbe introdurre anche a livello europeo un’imposta sugli utili con aliquota nell’ordine del 15% a carico di ciascuno stato membro. In effetti, l’Europa non ha risorse proprie: sono i suoi stati membri che versano ogni anno quanto è necessario a finanziare il bilancio europeo. Ne consegue che, se il bilancio europeo fosse finanziato da un’imposta europea, una buona dose di miliardi di euro rimarrebbe nelle casse del nostro ministero dell’Economia e delle Finanze, con l’ovvia conseguenza che il nostro Paese verrebbe a godere di una corrispondente (e congrua) riduzione del deficit. All’uopo si potrebbe istituire, ad esempio, un’imposta sui dividendi od anche una sorta di ecotassa: così facendo, non solo si metterebbe l’Europa in grado di usufruire di mezzi propri, ma (istituendo una ecotassa) si stimolerebbero, al tempo stesso, le aziende a ridurre i consumi energetici.

- Ovviamente, però, andrebbe al tempo stesso riformato il sistema di tassazione del reddito. Ad esempio, si potrebbe sostituire il gran numero di imposte attualmente in vigore con un’unica nuova imposta sul reddito, ovviamente e rigorosamente progressiva (in modo da correggere, quantomeno, l’iniquità del sistema attuale), da prelevarsi alla fonte sui redditi da lavoro e da capitale. Una parte dei proventi da tale nuova imposta sul reddito, peraltro, potrebbe destinarsi alla spesa sociale.

- Sempre per combattere l’evasione, inoltre, lo Stato dovrebbe dichiarare guerra ai cosiddetti paradisi fiscali:

a) boicottando le imprese che hanno filiali nei paradisi fiscali: lo Stato e l’insieme delle comunità e degli enti locali, ad esempio, non dovrebbero più concedere alcun appalto pubblico a società (banche, imprese di costruzioni, aziende di informatica, …) che abbiano filiali nei paradisi fiscali e in tal modo eludano le imposte che, nel nostro Paese, finanziano la scuola, la sanità, la polizia e le pensioni italiane;

b) rendendo obbligatoria per legge la trasparenza dei conti delle imprese che investono o svolgono attività all'estero: tutte le imprese dovrebbero rendere conto delle proprie attività all’estero, paese per paese, e soprattutto dichiarare se hanno filiali in paradisi fiscali e centri offshore;

c) ponendo fine alla pratica dell’ottimizzazione fiscale delle multinazionali che sfruttano il transfer pricing (trasferimento di fondi da un paese all’altro, che avviene importando ed esportando i propri prodotti a prezzi differenti): occorrerebbe riprodurre a livello europeo l’apportionment, il criterio dell’imputazione vigente negli Stati Uniti, che obbliga qualsiasi società transnazionale a dichiarare la propria massa salariale, il giro d’affari e gli investimenti in ogni stato estero. Il livello di tassazione viene quindi calcolato in funzione di questi tre parametri e non più solamente in base al profitto dichiarato.

3. Per quanto riguarda la lotta alla disoccupazione e, quindi, la creazione di nuovi posti di lavoro.

Non vi è dubbio che evitare il crollo dell’economia del Paese è la priorità assoluta. Ma occorre al tempo stesso assumere iniziative politiche finalizzate ad adottare provvedimenti idonei a fare crescere l'economia del Paese, a cominciare da quelli che consentano di ridurre velocemente e congruamente la disoccupazione di massa.

- In tale prospettiva, vista la gravità della crisi ed attese le poche speranze di un rapido ritorno alla piena occupazione, è urgente innanzitutto migliorare l’accompagnamento e l’assistenza dei lavoratori dipendenti nella fase del passaggio dalla occupazione alla disoccupazione, prolungando il più presto possibile la durata del sussidio per i disoccupati e favorendone l’accesso alla formazione. E' assurdo ed inutile erogare poche decine di euro al mese in più rispetto allo stipendio dei lavoratori dipendenti: occorre impegnare tutte le proprie forze per dare lavoro a chi non ha lavoro, non fare l'elemosina a chi, bene o male, un lavoro (anche se mal retribuito) lo ha già!

- Per evitare che disoccupazione diventi un sinonimo di precarietà, povertà e dequalificazione, si potrebbero mutuare dal sistema danese alcune iniziative in materia di sicurezza dell’impiego e di accompagnamento dei disoccupati e dei salariati che stanno per perdere o hanno già perduto il lavoro: in Danimarca, ad esempio, la maggior parte dei salariati che perdono il lavoro può mantenere il novanta per cento del reddito per quattro anni, se ed in quanto il lavoratore disoccupato  sia alla ricerca di un posto di lavoro o stia seguendo corsi di formazione. Anche con riferimento a questo argomento, la storia può essere un'ottima maestra: basterebbe infatti trarre spunto dalle misure adottate da Roosevelt nel 1933 per rilevare che la più immediata fu quella di prolungare la durata dei sussidi di disoccupazione.

- E’ ovvio, peraltro, che occorrerebbe al tempo stesso migliorare anche gli indennizzi spettanti agli artigiani o ai titolari delle PMI che falliscono: ciò, in quanto, non di rado gli uni e gli altri si vengono a trovare in difficoltà ancora più gravi di quelle dei salariati che hanno perduto il lavoro. Sarebbe quindi necessario aprire un dibattito sull’unificazione e sulla semplificazione dell’insieme dei sistemi di protezione sociale, nell’ottica di creare un autentico scudo sociale per tutti coloro che perdono, per cause indipendenti dalla loro volontà, il lavoro: occorre, all’uopo, creare un pool di tecnici esperti in materia, veri esperti, assegnando loro un termine preciso per presentare una concreta proposta di legge al Parlamento.

- Ma occorre, soprattutto, creare nuovi posti di lavoro. Come?

Sarebbe tempo che i nostri governanti capiscano che uno dei settori più maltrattati dalla politica è certamente l’edilizia e che, essendo il settore che, in tempo di crisi, produce maggiore disoccupazione e finisce per offrire una buona dose di manovalanza alla criminalità organizzata, esso non può e non deve essere trascurato. Una classe politica intelligente e responsabile non può non dedicare grande attenzione a questo settore: per un verso, promuovendo nel più breve tempo possibile la costruzione di grandi opere pubbliche e di alloggi sociali e, per altro verso, incentivando l’edilizia privata con una serie di provvedimenti attuativi di una vera e propria politica della casa al fine di ridare alle giovani coppie la possibilità di accedere ai mutui bancari.

Del resto, con riferimento alle grandi opere pubbliche, non v’è chi non veda quale enorme contributo possa dare alla creazione di nuovi posti di lavoro la costruzione di opere importanti, quali, a titolo meramente esemplificativo, il tanto osteggiato Ponte sullo Stretto di Messina e la tanto discussa Salerno-Reggio Calabria. Anche con riferimento alle grandi opere pubbliche, è opportuno rileggere la Storia: basterà allora richiamare la strategia ideata dal Presidente Roosvelt, il quale, proprio quando imperversava nel suo paese la tremenda crisi dei primi anni trenta, allo scopo di rincuorare i propri connazionali e di infondere loro fiducia nel futuro, promosse la progettazione e la realizzazione di tutta una serie di grandi opere, tra le quali la costruzione del famosissimo Golden Gate (The Bridge) a San Francisco. Al riguardo, di contro, va qui rilevata e aspramente criticata la sconfortante ed ottusa presa di posizione dei nostri politici in questi ultimi anni: basti ricordare che, qualche anno addietro, l’allora premier Mario Monti, supportato dal consenso di tutta la sinistra italiana, nel presupposto che la realizzazione del Ponte sullo Stretto costituisse una ambizione tutta berlusconiana o potesse comunque essere ascritta a merito del Cavaliere, l’ha dichiarata non prioritaria e, per di più, ha preferito fare perdere al Paese oltre un milione di Euro (di cui ottocentomila circa solo per pagare alla società appaltatrice Impregilo una penale a fronte dell’ingiustificato recesso dal contratto di appalto a suo tempo stipulato con la stessa) piuttosto che realizzare la grande opera. Eppure, non vi era dubbio (ed ancora oggi non vi è dubbio) che l’apertura dei cantieri necessari alla realizzazione di grandi opere pubbliche avrebbe costituito allora e costituirebbe ancora oggi, in Italia, una grande fonte di lavoro.

- Al giovane premier Matteo Renzi ed ai suoi ambiziosi progetti, invero, si rimprovera da più parti la mancanza di una puntuale descrizione della copertura finanziaria necessaria perché quei progetti possano concretamente essere realizzati: come e dove trovare i finanziamenti necessari per avviare una vera politica della casa? In altre nazioni (ad esempio, nei Paesi Bassi), gran parte del fondo di riserva delle pensioni è stato investito nella costruzione di alloggi sociali; da noi, invece, il grosso di questo fondo è attualmente investito in azioni e ha perso gran parte del suo valore fin da quando è cominciata la crisi dei subprime. Ne consegue che, nei Paesi Bassi, più della metà del parco abitazioni è di proprietà di cooperative collegate ai sindacati e che in quelle case vivono persone di ogni ceto e provenienza (anche perché i canoni di affitto sono più bassi): non è infatti il mercato a determinare i canoni locatizi, ma la volontà congiunta di sindacati e cooperative. E’ ovvio che, se nel nostro Paese si seguisse questo esempio, impiegando miliardi di euro del fondo nell’edilizia (invece di lasciarli ai mercati finanziari), si potrebbe dare uno stimolo al mercato delle abitazioni e creare dai 250.000 ai 300.000 posti di lavoro in tre anni, senza dire che: a) l’investimento nell’edilizia abitativa è redditizio anche perché si percepiscono mensilmente i canoni locatizi; b) è meno rischioso dell’investimento nei mercati finanziari (che possono crollare da un giorno all’altro); c) dal punto di vista sociale, una seria politica degli alloggi riesce, nel tempo, a riequilibrare il mercato, facendo pagare canoni di affitto più bassi a milioni di inquilini e riassegnando un buon potere d’acquisto ad altrettante famiglie. Al riguardo, è opportuno rilevare che, stando ai dati forniti da Eurostat, l’affitto medio che si paga in Germania è pari ad Euro 8,50 circa al metro quadrato e che, se nel nostro Paese gli affitti scendessero allo stesso livello di quelli tedeschi, il risparmio sarebbe pari ad Euro 280,00 mensili per un appartamento di settanta metri quadrati.

- Un altro rimedio idoneo a combattere la disoccupazione ed a creare nuovi posti di lavoro potrebbe essere la redazione ed il finanziamento di un piano europeo di risparmio energetico. I mutamenti climatici, com’è noto, hanno avuto conseguenze più gravi di quanto si prevedesse, di guisa che, se si vuole davvero salvare il nostro pianeta, non è sufficiente parlare di “sviluppo sostenibile” né organizzare sterili convegni o convenzioni internazionali: occorre, invece, combattere l’effetto-serra riducendo drasticamente le emissioni di gas nocivi anche con l’obbligatorietà dei controlli sull’efficienza termica e dei relativi lavori di messa a norma, prima di vendere o affittare un immobile. Nel suo rapporto “L’economia del cambiamento climatico”, pubblicato nel 2006, Nicholas Stern dimostrava che per lottare contro i mutamenti climatici e per ridurre le bollette del gas e della luce era necessario investire ogni anno, in ogni nazione, l’uno per cento del PIL in lavori idonei a fare risparmiare energia, isolando termicamente le case, gli appartamenti, le fabbriche e gli uffici. E’ qui il caso di fare rilevare che una simile politica potrebbe creare, entro il 2020, sei milioni di posti di lavoro a livello europeo consentendo di assumere personale in ogni regione ed in ogni area abitata dopo averlo formato a svolgere questo tipo di lavoro. Senza dire che, stando alle previsioni della commissione europea, una politica di risparmio energetico permetterebbe di economizzare mille euro a famiglia ogni anno. In verità, fino ad oggi, poco o nulla si è fatto in Italia in questa direzione: è mancata - e continua a mancare - la volontà politica di contrastare l’aumento dei prezzi dell’energia, per un verso, rafforzando la lotta contro l’effetto-serra e, per altro verso, vigilando concretamente “sulla stabilità dei prezzi” e facendo tutto il possibile per diminuire il costo del debito pubblico. Un’altra verità - altrettanto indiscutibile, ma più o meno volutamente ignorata dalla nostra classe politica - è che l’inflazione deriva essenzialmente dall’aumento del prezzo del petrolio, prezzo che è salito in pochi anni da venticinque a cento dollari al barile. Peraltro, anche a livello europeo, poco o nulla si è fatto per contrastare l’aumento dei prezzi energetici. Sarebbe stato sufficiente, ad esempio, che la Banca Centrale Europea (BCE) mettesse a disposizione della Banca Europea per gli Investimenti (BEI) - a tasso zero, o comunque a tasso molto basso - i fondi necessari per finanziare un efficace piano europeo di risparmio energetico: un intervento politico di questo genere avrebbe certamente provocato un notevole abbassamento dei prezzi dell’energia ed avrebbe contribuito, al tempo stesso, a creare un gran numero di nuovi posti di lavoro, a sottrarre i Paesi della U. E. alla dipendenza dal petrolio ed a limitare la produzione di gas a effetto-serra. A riprova della fondatezza di tale tesi, basti qui ricordare che lo sviluppo di energie rinnovabili ha già permesso, in un lasso limitato di tempo, la creazione di 350.000 posti di lavoro in Germania: segno evidente che l’economia sociale e solidale può produrre e distribuire più equamente la ricchezza e stimolare la creazione e la realizzazione di un progetto economico che sia, al tempo stesso, rispettoso delle persone, dell’ambiente e del territorio.

- Altri provvedimenti opportuni, anzi necessari, per combattere la dilagante disoccupazione sono certamente una diversa ripartizione del tempo di lavoro e una diversa ripartizione dei redditi. Con riferimento alla ripartizione del tempo di lavoro, è opportuno ricordare che già nel 1933 Albert Einstein, affermava che la crisi doveva combattersi con una “riduzione della durata legale dell'orario di lavoro”. Il passaggio a quattro giornate lavorative (la settimana corta di quattro giorni), ad esempio, potrebbe creare oltre un milione e cinquecentomila posti di lavoro, ma per giungere a questi risultati occorrerà mettere intorno ad un tavolo sindacati ed imprenditori con l'intervento attivo dello Stato: snellendo il diritto del lavoro e, al tempo stesso, tutelando veramente i lavoratori dipendenti, si può giungere ad una drastica riduzione della disoccupazione e della precarietà. Ad un risultato del genere si può giungere senza mettere mano a decreti e senza partorire leggi volute in realtà da ristretti gruppi di interesse: basterà raggiungere un buon patto sociale attraverso un serio ed approfondito dibattito ed un conseguente negoziato (patto sociale che, ad abundantiam, si potrà poi sottoporre ad un referendum).

- Per quanto riguarda infine la lotta contro la disparità di reddito, è assolutamente necessario aprire un dibattito parlamentare. E' infatti di fondamentale importanza che sia la politica a dimostrare ripugnanza per la disuguaglianza che per molto tempo ha caratterizzato il nostro sistema economico accettando che un numero sempre più alto di uomini e di donne guadagnasse meno del minimo salariale stabilito per legge, mentre una élite ristretta (della quale facevano parte anche, e soprattutto, i parlamentari) percepisse redditi decine, o addirittura centinaia, di volte più elevati.

4. Conclusione

Mettendo insieme i rimedi sopra individuati e suggeriti si potrebbero creare almeno due milioni di posti di lavoro in cinque anni: è questo il modo migliore per combattere la recessione e per favorire la crescita tanto auspicata (almeno a parole) in questi ultimi tempi. In ogni caso, credo sia inconfutabile che, se due milioni di famiglie vedessero arrivare un nuovo reddito e le altre potessero preoccuparsi meno del proprio futuro, l'economia del Paese ne trarrebbe beneficio.

D'altra parte, non si può fare uscire il Paese dallo tsunami che lo ha investito mettendo in busta paga mille euro in più a chi ha una busta paga di per sé povera: occorre ben altro. Per salvare l'Italia, a questo punto, è assolutamente necessario fare ritornare a crescere l'economia e sconfiggere la disoccupazione, rendendosi conto del fatto che i veri nodi da sciogliere sono i problemi strutturali che affliggono da molti anni la nostra economia: la burocrazia elefantiaca, l'altissimo costo della manodopera, la produttività stagnante, l'insufficienza degli investimenti nella ricerca, la schizofrenica produzione di leggi, la lentezza della giustizia, l'arretratezza infrastrutturale di una parte importante del Paese (che ha determinato un inaccettabile divario tra il Sud ed il Nord della nazione), la dilagante corruzione e una spropositata (quanto insostenibile) spesa pubblica.

Stando alle notizie fornite dalla stampa, anche se a costo di enormi sacrifici (che hanno di fatto distrutto la classe più produttiva del Paese, cioè la media borghesia), l'Italia ha già raggiunto la meta del contenimento della spesa corrente entro i limiti imposti dall'Europa; ma, se ciò è vero, è altrettanto vero che quei sacrifici non hanno risolto - ma anzi aggravato - il problema del debito pubblico accumulatosi negli ultimi quarant'anni.

 

Adesso, però, l'Italia ha assoluto bisogno di fare partire la crescita al meglio e quanto prima possibile. Chi la governa deve quindi adottare, con la massima urgenza, provvedimenti molto coraggiosi: a cominciare da un repentino e drastico taglio alle imposte in misura non inferiore a cinquanta miliardi di euro (cioè un taglio di entità cinque volte superiore a quello annunciato dal premier Renzi), provvedimento che, però, dovrà essere necessariamente accompagnato dalla altrettanto immediata programmazione triennale di una riduzione strutturale della spesa per un importo corrispondente.

Dovranno seguire, poi, tutti gli altri provvedimenti sopra descritti: con urgenza. E speriamo che non sia troppo tardi.

 

Renato Sgroi Santagati

Catania-Milano 14 aprile 2014

 

Ass. Socio-Cult. «ETHOS - VIAGRANDE»  Via Lavina, 368 – 95025 Aci Sant’Antonio
Presidente Augusto Lucchese
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