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PARIGI  2015

TERRORISMO DILAGANTE

                                              PERCHE’ ?

     Non v’è alcun dubbio che i recentissimi fatti che hanno insanguinato Parigi rappresentino la palese dimostrazione di come e quanto la crudeltà dell’uomo possa surclassare qualsivoglia razionalità e qualsivoglia senso di rispetto per la vita di esseri indifesi, estranei agli scontri ideologici o ai fanatismi religiosi e pur se indenni da soggettive colpe. Non v’è religione che tenga, non v’è spirito di vendetta o di ritorsione che possa essere preso a discolpa per giustificare l’abbietto e sanguinario comportamento di taluni esaltati carnefici paludati da pseudo giustizieri. La storia tende a  ripetersi (già da molto tempo prima dell’epoca delle catacombe) ma non esiste alcun attenuante che possa sminuire la colpevolezza di siffatti criminali e dei loro spietati mandanti, malgrado il forviante tentativo di  far credere al’opinione pubblica di avere agito da “guerrieri della fede” e di essere, quindi, dei “martiri”.  

      Occorre, tuttavia, attenzionare obiettivamente l’altra faccia della medaglia.

      Se in molte zone del Pianeta una variegata moltitudine di uomini ha abbracciato la strategia del terrore, condividendone o magari semplicemente accettandone le folli regole portanti, nessuno può negare che esiste tutta una serie di ataviche motivazioni di fondo, di ricorrenti episodi scatenanti, di impulsive “provocazioni”, di incongrue reazioni, più o meno opportune e valide.  Tutte concause che vengono strumentalmente ribadite per rinfocolare odiosità e per esasperare l’odierno preoccupante fenomeno del terrorismo che, come abbondantemente posto in evidenza dalle cronache di ogni giorno, tende ad allargarsi a macchia d’olio.  E’ altresì evidente che le propaggini di tale criminoso fenomeno sono sempre più radicate in quelle zone del Pianeta ove vivono, molto spesso in un palese stato di sottosviluppo culturale e materiale, vasti strati di popolazioni a vocazione islamica.  Sono popolazioni solo di recente uscite (o che ritengono di esserne uscite) dalla secolare oppressione coloniale ed egemonica posta in atto, nel tempo, dai nefasti e ingordi potentati locali oltre che da ben note Nazioni, classificate civili, del cosiddetto mondo occidentale.  La bramosia di ricchezza dei gruppi di potere che nel tempo hanno imperato in tali zone, sfociata in obbrobriosi e oligarchici sistemi di governo,  ha prima impedito e poi ritardato (in parte lo ritarda tuttora) il civile affrancamento e l’evoluzione culturale e sociale delle popolazioni che credono in Allah quale unico loro Dio.

       Il fondamentalismo religioso, magari inteso come valvola di sfogo di atavici problemi di antropologia sociale, ha fatto e fa il resto. Senza dire della versione ideologica estrema portata avanti da non tanto misteriosi centri motori della “guerra santa dell’Islam (sharia) contro tutti gli infedeli, quali il movimento dei “Talebani” (studenti delle scuole coraniche) del Mullah Omar, “Al Qaeda” di Osama Bin Laden (operanti sin dai primi anni novanta) e l’ ISIS, il Califfato islamico di Abu Bakr al Baghdadi, recentemente stanziatosi nei territori siriano-iracheni dei quali è stato assunto, cruentamente, il controllo militare.

       E’ basilare, in ogni caso, asserire con forza che qualsivoglia forma di aberrazione, di inumana crudeltà, di deviazione culturale e ideologica, di esasperazione del fanatismo religioso, di criminalità pura e semplice, spesso adottata come arma mortale e distruttiva, non è ammissibile o giustificabile neppure a fronte delle concause prima indicate.  E’ altrettanto necessario, però, sottolineare che la politica interventista armata (Iraq, ex Jugoslavia, Afganistan, Somalia, Libia, Palestina, Ciad, ecc.) adottata con molta disinvoltura da taluni Paesi (Stati Uniti, Inghilterra, Francia, Israele, in primo piano) magari col beneplacito dell’ONU e sotto l’egida della NATO, quasi mai ha risolto i problemi di fondo mentre, in taluni casi, li ha viepiù radicalizzati innescando una sorta di generalizzata e profonda avversione della gran massa delle popolazioni locali (islamiche o non)  nei confronti del Mondo occidentale, presentato come invasore, oppressore e sfruttatore.   

       Gli errori del passato si stanno pagando oggi a caro prezzo e certamente non possono essere fronteggiati solo con formali dichiarazioni o con sfilate e manifestazioni, come nel caso di Parigi, anche a fronte dell’encomiabile solidarietà di milioni di cittadini e dei Capi di Stato e di Governo di moltissime Nazioni.

       A questo punto, pur consci che sia inderogabile difendere ad oltranza i valori irrinunciabili della civiltà e della libertà, oltre che il diritto alla sicurezza e alla tutela della vita delle incolpevoli popolazioni civili, non si ritiene che possa essere ulteriormente differito un radicale cambiamento di metodi reattivi nei confronti del mondo islamico.  Occorre affrontare alla radice, alla luce delle variabili di natura storico-ambientale, dei risvolti economici legati all’utilizzo delle risorse naturali, delle diversità culturali e religiose, le motivazioni che inducono alle astiosità concettuali e ideologiche.  A tal fine, pur nel rispetto della libertà di stampa e di pensiero, appare indispensabile che i mass-media facciano del tutto per pervenire ad una adeguata forma di autocontrollo e di autocensura. Sarebbe salutare, infatti, limitare al massimo interferenze, critiche, giudizi, satire più o meno pungenti (che in taluni ambienti islamici assurgono al significato di “provocazioni blasfeme”) nei confronti di concezioni religiose, di vita e comportamentali che, quasi in esclusiva, appartengono ad un ambiente antropologico del tutto diverso da quello in cui opera la libera attività giornalistica ed editoriale di casa nostra che in ogni caso, salvo quando travalica i confini della serena obiettività per divenire satanico strumento di lucro o di potere, va protetta e rispettata.

        Piuttosto che il ricorso alle polemiche diatribe ideologiche o alla forza bruta dell’arte militare, occorre spingere al massimo il motore del civile e comprensivo dialogo, anche rinunciando a taluni privilegi egemonici o a vantaggi economici in passato acquisiti o imposti in quelle infuocate zone da cui promana il tragico fenomeno del cosiddetto “terrorismo ritorsivo”.  Occorre, da ambo le parti, più voglia di paritetica convivenza, più spirito di accettazione e d’integrazione culturale e religiosa a livello ecumenico, di equa giustizia interrazziale, di giusta e onesta distribuzione della ricchezza. E non andrebbe ulteriormente trascurato, per come oggi avviene, il responsabile  controllo della nefasta industria degli armamenti che, per esecrabile e spregiudicata sete di guadagno, talvolta diviene guerrafondaia.

       Sembra parecchio probabile, ove ciò non avvenga, che il Mondo, nella sua globalità, s’avvii a subire le dolorose conseguenze dell’acuirsi delle diffuse problematiche di convivenza fra etnie e popoli. Problematiche che potrebbero innescare una ulteriore “escalation” di guerre più o meno locali (con armi sempre più micidiali), di massacri, di violenze collettive, di tensioni ideologiche e, quindi, del conseguente micidiale fenomeno del “terrorismo”.  Va fatto rilevare, oltretutto, che i promotori e gli attuatori di quest’ultima crudele forma di lotta, nella misura in cui costringono le Nazioni ad investire stratosferiche risorse finanziarie per l’addestramento di sempre più consistenti organici di pronto intervento  (una sorta d’infinita “guerra preventiva”), avrebbero partita vinta.  Sono infatti rilevantissime e forse non sostenibili per lunghi periodi, le spese per l’approntamento di sofisticate dotazioni di mezzi e di impianti tecnologici, per la gestione di organismi di “intelligence” magari non sempre all’altezza del compito, per la dispendiosa e crescente “burocrazia” degli scambi informativi internazionali, per la necessaria protezione delle sedi diplomatiche all’intero e all’estero. Così continuando il gioco è fatto e il terrorismo, malauguratamente,  potrebbe riuscire nello scopo di minare alla base l’impalcatura dei deprecati Paesi nemici.

       Le Nazioni prese di mira sono oggi necessitate, in definitiva, ad operare un continuo dirottamento di rilevanti risorse pubbliche verso impegnative e variegate attività di protezione di luoghi pubblici e istituzionali, di infrastrutture e siti “sensibili”.  Risorse che vengono sottratte agli investimenti per lo sviluppo sociale, economico e produttivo dei singoli Stati, sviluppo da cui dipende il benessere collettivo di ogni popolo.  Ciò a prescindere dalla patogena diffusione del fattore “paura” che deprime e danneggia il sistema di vita quotidiano oltre ad ostacolare, accrescendone i costi di gestione, molte attività sociali e lucrative.

11 gennaio 2015                                                                     LUAU

Editoriale - www.ethosassociazione.com

 

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