Magistratura, tra “ordine” e “potere”.

di Enzo Palumbo
pubblicato il 9 ago 2013 su © Rivoluzione Liberale
Le ultime vicende giudiziarie, di cui sono piene le cronache,
hanno fatto tornare di attualità una leggenda metropolitana che
periodicamente riaffiora sullo scenario politico, tutte le volte
in cui si registra uno scontro tra una parte della politica ed
una qualche decisione giudiziaria.
Ed ogni volta, c’è sempre qualcuno che, facendo un’affrettata
lettura della Costituzione, si premura di ricordarci che la
magistratura non è un “potere” dello Stato ma soltanto un
“ordine”, sia pure “autonomo e indipendente da ogni altro
potere”, come testualmente recita l’art. 104 della Costituzione.
Non credo di svelare alcun mistero, specie a chi di Costituzione
s’intende, se affermo che nei 139 articoli w nelle 18
disposizioni transitorie e finali della nostra Costituzione, la
parola “potere” risulta scritta soltanto due volte: la prima,
per l’appunto, all’art. 104, I comma, e la seconda all’art. 117,
4°comma, per come modificato dall’art. 3 della legge
costituzionale n. 3-2001, e, in quest’ultimo caso, in una
accezione assolutamente estranea al dibattito in corso,
riguardando solo il “potere sostitutivo” dello Stato rispetto al
mancato esercizio della potestà legislativa delle regioni e
delle provincie autonome.
Se ne può agevolmente dedurre che il testo licenziato
dall’Assemblea Costituente non ha definito come “potere” né
quello legislativo (la rubrica del titolo I della parte II, si
intitola “Il Parlamento”), né quello esecutivo (la rubrica del
titolo II si intitola “Il Governo”)n Per cui, se si seguisse la
leggenda metropolitana ricorrente, se ne dovrebbe assurdamente
ricavare che neppure il Parlamento sarebbe la sede del “potere”
legislativo, o il Governo la sede del “potere” esecutivo, w che
quindi nel disegno della nostra Costituzione non esisterebbe
alcun potere istituzionalmente definito come tale.
Chiaramente così non è, e nessuno osa affermarlo, onde si può
concludere che i nostri costituenti, pur avendo spesso
utilizzato, durante i lavori preparatori, il termine “potere”
con riferimento a tutte le tre fondamentali funzioni dello
Stato, avevano finito per ritenere quell’espressione come
assolutamente presupposta ed implicita nella capacità di ciascun
organo di esplicare la rispettiva potestà decisoria: il
Parlamento, quanto alla confezione delle leggi, il Governo,
quanto allo loro esecuzione, e la Magistratura (r meglio il
singolo magistrato), quanto alla loro interpretazione ed
applicazione al caso concreto.
E che le cose stiano effettivamente così risulta proprio da
quell’unica norma costituzionale che evoca p poteri dello Stato,
e cioè proprio l’art. 104, 1° comma, quando precisa che “la
magistratura costituisce un ordine autonomo ed indipendente da
ogni altro potere”, con un’espressione che non avrebbe alcun
senso se anche la Magistratura non fosse essa stessa un
“potere”, come il Parlamento ed il Governo.
Per i nostri costituenti era un dato culturale assolutamente
scontato che la Costituzione dell’Italia repubblicana dovesse
muoversi nel solco della classica tripartizione , che ha sempre
contraddistinto p fondamentali poteri dello Stato, anticamente
concentrati nella persona del sovrano e via via sempre più
differenziati quanto al loro esercizio e comunque mai più
assoluti: quello legislativo vincolato a monte dalla volontà
popolare ed a valle dal giudice delle leggi (la Corte
Costituzionale), quello esecutivo vincolato dal rapporto di
fiducia col Parlamento, e quello giudiziario vincolato
dall’osservanza della Legge e sorvegliato dall’iniziativa
disciplinare del ministro della giustizia e del procuratore
generale, e quindi in termini tali che nessuno dei poteri, mai,
potesse ritenersi, in via di principio, come decisore finale e
sovraordinato ad ogni altro.
Il che rappresenta la traduzione costituzionale del liberalismo,
che è per l’appunto la dottrina della limitazione del potere, di
ogni potere, sempre. Quanto all’utilizzo della parola “ordine”,
utilizzata dai Costituenti, basterà un piccolo excursus storico
per constatare che di null’altro si tratta che di una
trasmigrazione dallo Statuto Albertino, che i costituenti
preferirono mantenere nella nuova Carta, sia per ragioni
lessicali (così evitando la ripetizione dello stesso lemma nella
stessa frase), sia per l’elementare constatazione che la
magistratura, a differenza degli altri due poteri, non agisce
mai come un corpo organico ed unitario, ma è portatrice di un
“potere diffuso”, in cui ciascun giudice esercita nel caso
concreto la sua funzione di “jus dicere”, essendo soggetto
soltanto alla legge e con le specialissime guarentigie
costituzionalmente previste: pubblico concorso per l’accesso,
inamovibilità territoriale e funzionale, riserva di legge per
ogni provvedimento in materia, gestione delle carriere e
responsabilità disciplinare affidata al CSM, diretta
disponibilità della polizia giudiziaria.
Altra cosa, ovviamente, è l’esigenza di definire in termini di
maggiore bilanciamento ed efficienza i problemi che nel tempo
sono emersi e che, oggi come ieri, suggeriscono di affrontare
una profonda riforma dei codici di rito e dell’ordinamento
giudiziario, specie su temi fondamentali come la celerità dei
procedimenti, la conclamata terzietà di tutti i magistrati, la
separazione delle carriere di giudicanti ed inquirenti, i
meccanismo della loro responsabilità civile e disciplinare;
tutti temi che, se davvero si volesse, sarebbe possibile
affrontare qui ed oggi, anche a Costituzione invariata, invece
di inseguire futuribili ed improbabili riforma costituzionale
Ma questo è un altro discorso, tanto più necessario ed urgente
proprio perché quello dei giudici è un vero potere, e deve
quindi essere adeguatamente regolato e bilanciato cogli altri,
alla luce delle criticità che l’esperienza ha fatto emergere e
nell’ottica di una visione liberale che è, per l’appunto, quella
della limitazione di ogni potere.
Sen. Enzo Palumbo
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