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LA TRISTE VICENDA DEI MARO’ IN INDIA
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La vicenda dei marò inizia con il protagonismo militaresco di La Russa.
di Gim Cassano
(gim.cassano@tiscali.it)



L’Italia esce a pezzi da una faccenda nata male e gestita ancor peggio.
Nata male, non il 15 febbraio 2012, quando è scoppiato il caso della Enrica Lexie, ma l’11 Ottobre 2011, quando tra l’allora Ministro della Difesa, Ignazio La Russa ed il Presidente di Confitarma D’Amico è stata firmata la Convenzione relativa all’imbarco sui mercantili italiani in navigazione nelle zone “calde” dell’Oceano Indiano dei NMP (nuclei militari di protezione), in funzione antipirateria. 
Questa Convenzione ha fatto seguito alla Legge n° 130 del 02-08-2011 di conversione del Decreto-Legge n° 107 del 12/07/2011 che, appunto, prevedeva l’istituzione dei NMP. Al riguardo, vi era stata l’audizione dell’ammiraglio Branciforte (Capo di Stato Maggiore della Marina) al Senato (15-06-2011), che spiegava ruolo, caratteri e subordinazione dei NMP.
(vedi la NOTA in calce).

Caratteri che, sin dall’inizio, hanno mostrato aspetti contradditori, che sono all’origine di quanto avvenuto il 15 febbraio 2012, e che derivano dalla sin troppo facile propensione al protagonismo militare da parte di un Ministro della Difesa che, col suo staff, ha concepito il proprio ruolo come quello di portavoce dei punti di vista e degli interessi dell’establishment militare ed industriale facente capo alla Difesa, e non come quello, nell’interesse generale del Paese, di guida politica della Difesa. 
In effetti, la Convenzione mostra una grande confusione di idee circa il ruolo, la funzione, e la catena di comando delle scorte armate (i NMP). Infatti, questi risultavano, seguendo le parole dell’Ammiraglio Branciforte:


a- subordinati alla Difesa, in quanto militari la cui “presenza a bordo sarà quindi  funzionale a completare (assicurando protezione diretta) ed integrare (contribuendo all’acquisizione/condivisione di informazioni operative) le operazioni militari marittime multinazionali di contrasto della pirateria condotte in area dalle Navi militari”, ed incaricati di proteggere, usando le armi se necessario (secondo Regole d’ingaggio ancora non chiarite) navi mercantili nazionali i cui Armatori lo avessero richiesto.
Ma la condotta di queste navi, non solo dal punto di vista della tecnica marinara in senso stretto, sarebbe rimasta, anche in eventuali fasi critiche, sempre affidata al Comandante della nave e, in definitiva, all’Armatore. 
Ed è proprio nell’eventualità del verificarsi di eventuali fasi critiche, che sarebbe occorso che fosse ben definita la catena di comando e che fosse chiaro se chi era sul posto potesse o dovesse, o meno, agire d’iniziativa o in base ad ordini o autorizzazioni; e, nel caso, chi dovesse assumersi la responsabilità di un insieme di azioni di difesa che potevano contemplare sia azioni a fuoco (affidate ai NMP), che manovre da parte della nave (responsabilità del Comandante).

b- incaricati di svolgere una funzione pubblica (il comandante di ogni NMP, avente il grado di “Capo”, corrispondente a quello di maresciallo nell’Esercito riveste la qualifica di Ufficiale di Polizia Giudiziaria, mentre i suoi subordinati, quella di Agenti di Polizia Giudiziaria), ma a pagamento, come un qualsiasi contractor privato assoldato dall’Armatore. Difatti, lo stesso ammiraglio Branciforte, nella sua audizione al Senato, definisce il compito dei NMP come un “servizio” che i singoli armatori, qualora interessati, devono richiedere (a pagamento).


Ne è seguita, come ovvia conseguenza, confermata purtroppo dai fatti, l’aver buttato allo sbaraglio nuclei di militari italiani, sicuramente all’altezza del compito in quanto ad addestramento e capacità militari, ma probabilmente non preparati a districarsi in situazioni di incertezza di responsabilità, e sottoposti da un lato ad un’autorità gerarchica lontanissima, ma dall’altro, di fatto, all’autorità del Comandante che aveva la responsabilità della condotta della nave. 
Delle due, infatti, l’una: o la loro andava considerata come una funzione di “servizio” (vedi l’audizione di Branciforte al Senato) ed allora, avrebbe dovuto esser posta sotto la totale responsabilità del Comandante della nave; ma, in questo caso, non si vede per quale ragione questa dovesse essere affidata a militari, se non a seguito delle velleità protagonistiche La Russa. 
Oppure, il compito dei NMP andava considerato come una funzione di contrasto alla pirateria della quale lo Stato Italiano si era fatta carico in conformità al Diritto Internazionale (vedi, anche per questo, l’audizione di Branciforte), ed allora, almeno a partire dal verificarsi di un’eventuale emergenza, ogni responsabilità doveva passare alla Difesa (ma un “capo” del San Marco avrebbe avuto la necessaria preparazione ed autorità?).
E, in questo caso, non si sarebbe dovuto autorizzare per alcuna ragione il dirottamento della “Enrica Lexie” in acque indiane, e poi nella rada di Kochi.
In sostanza, la non chiara definizione del ruolo dei NMP è all’origine dell’aggrovigliarsi della vicenda, ed ha offerto agli indiani la possibilità di arrestare i due militari italiani, facendo arrivare la Lexie a Kochi. 
Oggi 23 marzo, l’ammiraglio Binelli Mantelli (oggi Capo di Stato Maggiore della Difesa), critica quella decisione e critica, giustamente, l’equivocità della Convenzione; dimentica però il fatto che la stessa altro non è che l’applicazione di una Legge, redatta (sempre parole dell’Amm. Branciforte nell’audizione al Senato) sulla base di uno studio tecnico-operativo redatto proprio dallo Stato Maggiore della Marina in una prima fase, e dallo Stato Maggiore della Difesa in una seconda fase.
Ma ciò è poco rilevante: in definitiva, la responsabilità ultima è politica. Cioè di quel Ministro che lo ha sostenuto, che ne ha fatto oggetto di dichiarazioni e comunicati, che lo ha utilizzato come penne di pavone per mostrare il proprio piglio militaresco (vedi, ad esempio, l’intervista di La Russa a “Il Giornale” del 12-08-2011, titolata: “La Russa dichiara guerra ai pirati: siamo pronti a tutto per salvare i marinai”, nella quale si cala in testa una feluca da ammiraglio e mostra nostalgia per la Somalia coloniale).

Tornando al dirottamento, chi lo ha autorizzato? Di sicuro, l’armatore, in conformità alla Convenzione tra la Difesa e Confitarma; ma è inimmaginabile che i vertici della Marina e del Ministero non ne fossero al corrente. Ed è anche inimmaginabile che, se vi fosse stata un’azione decisa da parte della Marina Militare, ed a prescindere dalla Convenzione, la nave sarebbe stata dirottata; e tantomeno è immaginabile che l’armatore (lo stesso D’Amico che aveva firmato la Convenzione con la Difesa) abbia deciso di dirottare la Enrica Lexie a Kochi senza informarne i vertici della Marina Militare ed il Ministero della Difesa. 
Il che dimostra quantomeno una gravissima superficialità da parte della Difesa, ed è del tutto inutile parlare di “inganno” da parte indiana: i vertici militari, con tutte le loro unità di crisi, sono lì per questo: e, se sono caduti nell’inganno, sono stati del tutto inadeguati.

E’iniziata così una vicenda poco edificante, da parte indiana per un verso, ed italiana per l’altro.
I primi hanno avviato una campagna finalizzata più a questioni politiche interne, ed a dare soddisfazione alla loro opinione pubblica, che a fare indagini serie, trasparenti, aperte ad ambo le parti. Molti sono i dubbi sulle autopsie frettolose, sulle prove balistiche, sullo svolgersi dei fatti prima dell’arrivo a Kochi della Enrica Lexie e del peschereccio. Si è avuta l’impressione che si volesse ad ogni costo il mostro in prima pagina.
Ma, da parte nostra, l’errore di aver autorizzato il dirottamento, è stato seguito da una lunga serie di errori e superficialità, sino ad arrivare a quelli, clamorosi, degli ultimi giorni, nei quali, dopo aver mandato allo sbaraglio i due marò, si è riusciti a mandare allo sbaraglio anche l’ambasciatore italiano in India.
Confidando forse nello stellone che avrebbe alla fine aggiustato tutto, inizialmente, c’è stata la più completa sottovalutazione del caso, e non è stata intrapresa alcuna azione decisa. 
Successivamente, al rientro in Italia dei due militari per le vacanze di Natale, si è presentato questo fatto come un successo da sbandierare alla nostra opinione pubblica come prova dell’impegno e delle capacità della nostra diplomazia. Lo si è poi condito con un po’ di retorica sul fatto che “L’Italia e gli italiani hanno una parola sola”. 
Presi dal buonismo natalizio e dalla volontà di mostrare un segnale di attivismo, non si è però considerato che le condizioni poste dagli indiani per il rientro natalizio in Italia (la cauzione) facessero a pugni con la sbandierata dichiarazione di non riconoscere la legittimità della giurisdizione indiana e della conseguente privazione della libertà dei due italiani. 
Nel frattempo, il solito La Russa pensava bene di tirar fuori la roboante idiozia di far eleggere i due marinai nelle proprie liste, non facendoli tornare in India (poi, forse, ha fatto un po’ di conti sul proprio potenziale elettorale, ed ha lasciato cadere la cosa).
Dopodichè, si è inventata la storia del ritorno per votare (ma, se era per questo, non potevano votare in Ambasciata?), non più garantito da cauzione (avevamo dato buona prova a Natale), ma da un affidavit avente per “deponent” l’ambasciatore italiano in India. 
Che, in termini ancora più espliciti del primo caso, impegnando in prima persona il nostro ambasciatore, non esplicitamente, ma di fatto, riconosceva la situazione venutasi a creare.
Dopodichè il Ministro degli Esteri dichiarava unilateralmente ed ufficialmente che Girone e Latorre non sarebbero rientrati, buttando allo sbaraglio il nostro Ambasciatore, ed innescando una grave crisi diplomatica.
Il resto è cronaca: alle più che prevedibili reazioni dure e, a questo punto, non immotivate in termini strettamente formali, da parte indiana, ai timori sull’interscambio commerciale, ed alla tiepidezza della comunità internazionale -ad iniziare dall’Europa- nei nostri confronti, si rispondeva con l’indietro tutta e col balbettare che non si fosse trattato del rifiuto al ritorno, ma di una sua sospensione in attesa di chiarimenti da parte indiana, anche in merito alla falsa questione di una pena di morte che, ritengo, non sia affatto in discussione; e che, avendoli ottenuti come se si fosse trattato della vittoria italiana in una complessa trattativa diplomatica, i due potevano far ritorno in India. 
Hanno poi provveduto gli indiani a chiarire che nessun chiarimento c’era stato, se non la generica affermazione che, pur essendo in India prevista la pena di morte, questa non è quasi mai applicata, ed è prevedibile che non lo sia neanche in questo caso. Affermazione che non aggiunge nulla a quanto già previsto dalla legislazione indiana. 
Ma non ci si poteva pensare prima? 

Conclusione:
Non è dato di sapere come finirà questa vicenda. Certo è che adesso, il clima in India è gravemente peggiorato nei confronti del nostro Paese, ritenuto da un lato inaffidabile e mancatore di parola, alienandoci le simpatie di quei (pochi) indiani che avevano cercato di tenere un atteggiamento più freddo su questa vicenda, ad iniziare dal nostro difensore, e dall’altro come debole ed indeciso. E, purtroppo, è peggiorato anche nei confronti di Girone e Latorre, i quali, in tutta questa vicenda, sono gli unici a venirne fuori con dignità.
E non sarebbe inopportuna una presa di posizione da parte del Parlamento sulla Legge 130, sui fatti che la hanno preceduta, e su quelli che la hanno seguita. 

Gim Cassano, 23-03-2013 (gim.cassano@tiscali.it)

 

 

 

 

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