Il ricordo di un tempo lontano,
nella seconda metà degli anni 40’, quando “scoprii” Giuseppina
Grillo
Non so se avessi 11,12 o 13 anni quando, nella seconda metà
degli anni 40’, la mia famiglia fu invitata per una
“scampagnata” nei pressi di Enna, in una zona conosciuta come
“casina bianca”, sita dentro o al limite della contrada Kamut.
Era un giorno di inizio primavera, succeduta ad un inverno
freddo e nebbioso, inevitabilmente ennese. Dalla mia casa di
Piazza San Francesco, di buon mattino, ci incamminammo lungo via
Sant’Agata. Raggiunto fuori città lo stradone, di solito
afflitto dalla tramontana, ci venne invece incontro un
consolante tepore, inusuale e inaspettato, che ci accompagnò
lungo i tornanti fino al luogo della festa campestre. Era in
prossimità della “casina bianca” che, seppure fosse ed ancora è
una modesta dimora di pietra e gesso, rappresenta per gli
ennesi un punto di costante e diffuso riferimento;
probabilmente, posta all’incrocio fra la strada statale e quella
provinciale, è soltanto un punto topografico, perché nessuno ha
mai scoperto in essa apprezzabili caratteristiche
architettoniche.
Attraverso un vialetto già affollato di amici e parenti,
raggiungemmo una villetta di campagna dalla struttura
architettonica d’inizio secolo, semplice, funzionale e pregna di
quel “decoro” col quale la borghesia di paese allora amava
mostrare i segni dei suoi primi successi economici del primo
dopo-guerra.
Eravamo della famiglia in sei. I miei genitori, due sorelle tra
i sedici e i venti anni, io e mio fratello Francesco di cinque o
sei anni. Ci accolse calorosamente avanti casa la signora
Giuseppina; la sincerità dei suoi saluti sgorgava palese dal
sorriso con cui accompagnava ogni parola o gesto. Forse per
questo, o per la particolare luminosità di quel giorno e per la
bellezza dei luoghi inondati dal tripudio di una primavera piena
di colori, di odori e di profumi, sentii la gioia di chi avverta
la felice saldatura tra l’ambiente umano con quello naturale,
evento assai raro nella vita degli uomini e, credo, uno dei
momenti di armonia più profondi e desiderabili.
Fui felice di incontrare Carmelino, che fece da esperto Cicerone
nel guidare me e gli altri coetanei nella visita della tenuta.
Un fatto importante per noi adolescenti fu il recarci a valle
della contrada nella zona della ferrovia per assistere al
passaggio dei treni e delle “littorine”, evento esaltante per
dei montanari che conoscevano come principali mezzi di trasporto
il carretto, i primi camion dei fratelli della signora
Giuseppina, i pochi taxi e autobus stazionanti in Piazza Scelfo,
allora detta del “rilievo”, utilizzata fino agli anni 20’ quale
fermata della vettura a cavalli per il trasporto delle persone e
per il servizio postale.
I miei ricordi di oggi sono legati, soprattutto, al momento del
pranzo. Ogni famiglia, in gara con le altre per fare “buona
figura”, aveva portato per l’occasione dei cibi prelibati. Il
piatto “principe” fu la minestra di piselli raccolti sui campi e
subito cucinati dalla signora Giuseppina, conditi con
finocchietti e un profumato olio di oliva. Un insieme di
prodotti che la natura offre agli uomini quale segno,
apparentemente umile, della sua grandezza.
Il pomeriggio fu dedicato dai miei genitori, dalla signora
Giuseppina e dal marito Francesco ai loro ricordi; fra essi
primeggiava quello favoloso del loro viaggio negli anni trenta
sul treno “popolare” che, partito dalla stazione di Enna, li
portò in Lombardia, alla scoperta di un mondo ricco e
progredito. Con la guerra erano svanite le illusioni seminate a
piene mani dal regime. Dai discorsi da dopoguerra emergevano
prepotenti il desiderio e la speranza di una rinascita, come se
questo loro sentire trovasse ispirazione dalle piante di
primavera pronte a donare, fra l’altro, i dolci piselli della
signora Giuseppina.
Sul finire del giorno di festa vissuta da tutti con gioia,
avvenne, secondo la versione ormai accreditata fra le storielle
paesane, una strana “disgrazia”. Nel raccogliere dentro un
paniere le stoviglie portate da casa, un anziano partecipante,
famoso per la sua parsimonia, si era accorto che mancava una
forchetta. Si mise invano subito alla ricerca di quel prezioso
utensile, ma sopravvenne il tramonto e il buio della sera. Tornò
mestamente a casa , dicendo ai congiunti: il divertimento non
poteva durare. Lo prevedevo che sarebbe successa una
“disgrazia”.
Qualche mese prima della sua dipartita, telefonai alla signora
Giuseppina per congratularmi con Lei per avere ricevuto un
ambito premio quale riconoscimento della sua brillante attività
imprenditoriale.
Mi ringraziò, pressappoco, con le parole, con la delicatezza e
con l’affabilità degli anni 40’. Ricordai a Lei quel lontano
evento, rivivendo insieme a Lei sentimenti ed emozioni, come se
il tempo non fosse mai passato e i “piselli” della signora
Giuseppina fossero ancor teneri e dolci.
Giuseppe Ferrante |