COSA SUCCEDE
IN CINA?
E' IN GRADO
DI ASPIRARE AD ESSERE LA FUTURA
DOMINATRICE DEL PIANETA?
La Cina è vicina, s’andava dicendo una volta, quasi con un po’
di rammarico per il fatto che effettivamente non lo fosse, sia
politicamente che geograficamente.
Chissà se nel momento attuale, viceversa, sia giusto prendere
coscienza di quanto sarebbe augurabile che essa, almeno
economicamente e politicamente, tornasse ad essere lontana,
parecchio lontana, e non influenzasse più di quanto già fa
l’essenza della comunità globale .
Da più parti, parecchio qualificate peraltro, si sbandiera lo
spauracchio che essa rappresenti in atto una sorta di
santabarbara socio-economico-finanziaria pronta ad esplodere,
magari all’impensata e in maniera disastrosa. Esplosione che,
con tutta probabilità, potrebbe arrecare seri danni alla fragile
economia italiana e a quella dei Paesi occidentali, Borse e
risparmiatori compresi. Le avvisaglie sono tante, l’allarmismo
dilaga, le prospettive non lasciano ben sperare.
I vanagloriosi soloni della finanza nostrana - “analisti” da
strapazzo - sono stati presi in contropiede e adesso piangono
lacrime di coccodrillo e cercano di giustificarsi magari
avanzando previsioni ottimistiche di lungo periodo. A loro volta
i poco scrupolosi gestori di parecchi “Fondi” -bancari o meno -
ingordamente attratti dall’iniziale facile e rilevante guadagno
- si sono comportati da imprudenti promotori (o interessati
speculatori ?) di una politica di massicci investimenti nelle
Borse di Shanghai e Shenzhen, oltre che di Hong Kong. Borse che,
adesso, sono in discesa libera e perdono oltre il 30% della
pregressa capitalizzazione. Solo che gli spregiudicati “gestori”
di che trattasi non hanno rischiato e non rischiano con il
proprio portafoglio bensì con il denaro loro affidato da ignari
e fiduciosi risparmiatori. Un fatto quantomeno indegno permesso
e irresponsabilmente avallato dal nostro sistema bancario e
quindi dalla Banca d’Italia e adesso anche dalla BCE. Il danno,
si dice, ammonta già a circa 3 mila miliardi di dollari
statunitensi e viaggia verso i 5 mila miliardi. Non è facile
ipotizzare, a breve, una inversione di tendenza.
L’attuale default cinese, dovuto ai seri timori (da tempo
prevedibili, tuttavia) di un rallentamento della produzione e di
una considerevole decrescita delle esportazioni e dei consumi
interni (e quindi del P.I.L.), sembra essere la dimostrazione del
pressapochismo con cui la compagine dirigenziale cinese ha
gestito e gestisce il “boom” della stratosferica “crescita”. Non
avrebbe dovuto essere difficile, specie per il pretenzioso
“sistema bancario italiano”, comprendere a tempo debito che tale
congiuntura non sarebbe potuta continuare all'infinito. Gli organi di controllo italiani ed europei
(a che valgono, adesso, le chiacchiere “tecniche” e le artefatte
e ingannevoli giustificazioni?) , oltretutto, non hanno saputo
(o non hanno voluto) bloccare a tempo debito la notoria e
massiccia speculazione di investitori a caccia di facili
rendimenti. Magari scaricando il “rischio” sui risparmiatori.
Sta di fatto, in ogni caso, che nel bel mezzo dell’attuale
bufera economico-valutaria “made in China”, non appaiono
bastevoli il ricorso alla svalutazione dello “yuan” o i deboli
interventi della Banca nazionale per rilanciare la crescita, i
consumi e l’esportazione, oltre che per correggere la rotta
economica del colosso cinese .
Dopo l’allettante ma spropositata fase di crescita che in un
breve lasso di tempo aveva portato i listini a guadagnare il
150%, è un brutto “sgambetto” (così è stato definito da un
editorialista del settore) quello oggi rifilato dal lontano
Paese del Dragone alle economie dei Paesi occidentali. Specie se
trattasi, come qualcuno pensa, di un architettato tiro mancino (
”misterioso” come il contesto poco trasparente da cui proviene)
volto a debilitare l’apparato economico-finanziario del resto
del Mondo per imporre, alla fine, il peso del “renminbi” (o yuan
che dir si voglia) in contrapposizione al dollaro o ad altre
“valute rifugio” di riferimento.
Ma, come suole dirsi, oltre al danno la beffa: gli speculatori -
e sono tanti quelli annidati nelle incontrollate Borse di tutto
il mondo - seguitano a guadagnare anche in tempi di crisi
(talvolta innescate a bella posta) e seguitano a truffare
ricchezza agli investitori di buona fede che ancora credono nel
mercato onesto e trasparente.
A tal proposito risulta che il mercato azionario di Shanghai
(oggi la borsa di Shanghai è la quinta a livello mondiale per
capitalizzazione complessiva) è dominato da gruppi di avidi
capitalisti e da società finanziarie organizzate (per circa
l’80% del complessivo volume di scambio) che speculano sui
titoli quotati, specie quando si ritiene che essi possano
offrire, nel breve periodo, rilevanti guadagni. Quali le
conseguenza e quali i pericoli di tale inqualificabile
“attivismo” spacciato per “capacità operativa” ?
Una citazione per tutte: “Molti titoli hanno valutazioni alte,
soprattutto alla luce di talune diminuzioni degli utili e
dell’aumento dei rischi macro. Una crescita fasulla dei prezzi
delle azioni non agganciata alla crescita reale dei profitti
aziendali”, dice Michele Geraci, dell’Economic Policy Program of
China and Assistant Professor of Finance alla Nottingham
University .
A proposito di quanto sta accadendo in Cina è bene non
dimenticare che in quell’immenso Pese esistono, pur se all’ombra
dell’emblematico simbolo della falce e martello, abnormi
diseguaglianze sociali oltre a macrodisfunzioni di natura
strutturale e settoriale, di distribuzione della ricchezza, di
pianificazione della spesa pubblica, di controlli bancari e
borsistici, di lotta alla corruzione e ai fenomeni malavitosi.
Si sa che in Cina tutto è “macro” e anche lo scivolone
economico, valutario e borsistico potrebbe divenire altrettanto
macro. Talmente macro da provocare, a livello globale, un
tsunami valutario e finanziario di paurose proporzioni e dalle
imprevedibili conseguenze.
La situazione è ancora più grave ove si consideri che, come
ampiamente sottolineato dai mass-media e dal Web globali, gli attuali vertici della galassia politica e finanziaria
cinese non sembrano essere in grado di gestire energicamente una situazione
di crisi come quella che si palesa all’orizzonte, reggendo con
sicurezza il timone in un momento in cui la tempesta economica e
borsistica di casa propria minaccia di fare affondare il
vascello delle illusioni, carico di ambizioni, di premature
aspirazioni, di euforici annunci, di desideri non facilmente
perseguibili, quale la costante di un progressivo incremento del P.I.L..
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Diviene necessario, a questo punto, oltre che opportuno, dare
uno sguardo d’insieme al pur sempre misterioso e nebuloso
contesto sociale e politico, strutturale ed
economico-finanziario, dell’odierna Cina, territorialmente
immensa e prima al Mondo per popolosità.
Rispetto a quest’ultimo aspetto è da dire - pur se in tono
ironico - che in materia di controllo delle nascite (in aggiunta
ai contraccettivi distribuiti gratuitamente, alla
liberalizzazione dell’aborto, alla “ legge del figlio unico”,
con relative forti pene pecuniarie, voluta da Deng Xiao Ping nel
1979 e modificata nel 2013, consentendo due figli per coppia)
manca solo la castrazione obbligatoria. Il tasso d’incremento
della popolazione non è stato neppure scalfito dalle centinaia
di migliaia di cinesi morti nel corso delle guerre civili, del
decennale sanguinoso conflitto nippo-cinese, delle ripetute
“purghe” politico-ideologiche-religiose post rivoluzione
maoista.
I cinesi censiti hanno superato il miliardo e
trecentocinquantamilioni ma chissà se in tale cifra sono già
conteggiati gli oltre 300/milioni sparsi per i cinque
continenti. In quest’ultimo caso non è azzardato pensare che il
primato della popolosità “made in China” si sposterà presto
dalla vetta di un quarto a quella di un terzo della complessiva
popolazione mondiale.
Non va sottovalutato, a tal proposito, che nell’ambito di vasti
strati della popolazione cinese, la povertà seguita a regnare
sovrana, specie nei quartieri ghetto dei formicai di Shanghai,
Pechino, Hong Kong, Tientsin, Hubei, Canton, Guangdong, Nanchino
e delle altre 13 megalopoli dell’ex “Celeste Impero”. Impero
alla fine divenuto, dopo lunghe e sanguinose lotte intestine e
guerre civili, il calderone socio politico del periodo post
rivoluzionario dominato da Mao Zedong (o Mao Tse-tung) e da Lin
Biao, prima, e da Deng Xiao Ping, poi. Quest’ultimo nelle vesti
di riformatore dell’apparato socio-economico del proprio Paese,
pur senza avere mai dismesso, malgrado qualche cruenta fronda di
palazzo, quelle di despota assoluto e inamovibile.
Il contrasto fra miseria, povertà e ricchezza è un insanabile e
assillante fenomeno che continua a fare da sfondo al vivacissimo
scenario brulicante delle sfarzose luci dei quartieri super
moderni di recente realizzazione che ostentano grattacieli,
imponenti costruzioni, palazzoni per abitazioni “IN”. E’ un
mondo strutturalmente avanzato e in continua espansione ove sono
insediati i luoghi in cui operano le autoritarie strutture
governative e in cui vivono e prosperano, i magnati del
commercio e dell’industria, l’emergente classe (o casta)
dirigente, i burocrati d’alto lignaggio, gli esponenti di
vertice delle Forze Armate, della Polizia ecc. ecc. Tutta gente
attorniata da consistenti codazzi di clan familiari, da
“portaborse”, da “gorilla”, da utili “delatori”. Un variegato
mondo ex proletario che oggi sta magnificamente alla pari con
quello delle metropoli del tanto deprecato emisfero capitalista
e che è anche ben dotato, alla bisogna, di fantasmagoriche
infrastrutture ludiche, di teatri, di lussuosi Hotel e
ristoranti, di sontuosi “night” ove, dulcis in fundo,
costosissime “cocotte” d’alto bordo offrono i propri servizi.
Tale è l’elite che domina la scena e manovra le leve del
controverso e nebuloso potere politico-militare, industriale e
commerciale, economico e finanziario, dell’immensa Cina.
Il lavoro di massa, tuttavia, seguita tuttora a svolgersi - a
livello popolare - con criteri di palese sfruttamento sociale e,
di massima, a fronte di retribuzioni molto modeste.
Niente sindacati, ovviamente. Niente libertà di pensiero e di
stampa. Niente organizzazioni non conformi alla linea guida del
Partito Comunista Cinese che, per molti versi, di comunista ha
conservato solo il nome.
La gran parte della società contadina e del bracciantato
agricolo che faticosamente lavora nelle lontane campagne, spesso
sperdute e isolate, vive ancora in uno stato di palese
arretratezza e, di fatto, gli appartenenti ad essa sono
considerati cittadini di seconda o terza categoria.
Lo spirito socialista marxista della “lunga marcia” è stato
perso per strada o è stato strumentalmente forzato per adattarlo
alla politica del “doppio sistema.
La Cina, di fatto, è governata da un “monocrate” espresso dal
Congresso del Partito, una sorta di Assemblea popolare - niente
affatto democratica - che periodicamente si riunisce su
convocazione del Comitato di Direzione del Partito unico e che,
in gran parte, è formata dagli esponenti politici delle Province
e delle grandi metropoli.
Il potere d’indirizzo è concentrato nelle mani del Segretario
Generale del Partito e, in subordine, in quelle dei titolari dei
vari dicasteri. Gli Organi pseudo giurisdizionali e di controllo
hanno funzioni del tutto marginali e formali. Le autorità
periferiche (spesso copia conforme dei “mandarini” imperiali)
sono di esclusiva nomina del “Politburo del Comitato Centrale
del Partito” il cui Segretario Generale (in atto Xi Jinping,
affiancato dal Primo ministro Li Keqiang) ricopre anche la
carica di Presidente della Cina e di comandante supremo delle
Forze Armate.
Le condizioni igienico sanitarie e di tutela della gran massa
della popolazione (specie nelle immense distese delle campagne)
sono tuttora parecchio deficitarie mentre il relativo standard
di vita - anche per gran parte dei lavoratori di bassa forza
dell’industria, del commercio e dei servizi - è pressoché
miserevole.
Da questo stato di cose deriva, prevalentemente, la tendenza
migratoria verso altri Paesi, migrazione che ha raggiunto cifre
da capogiro e che ha portato compatti gruppi di cinesi ad
inserirsi nel tessuto sociale e produttivo di molti Stati.
Talvolta, però, con effetti degenerativi e illecitamente
concorrenziali, quando non addirittura con criminali metodi
marca “triade”.
Ciò a prescindere, fra l’altro, dalla massiccia e inarrestabile
invasione di merce scarsamente qualitativa, pur se di largo
consumo, prodotta a basso costo in Cina - a fronte di salari di
fame - ed esportati in tutto il Mondo senza alcun serio e
specifico controllo.
Tale spregiudicato e invadente commercio, quantomeno poco
rispettoso delle leggi dell’onesta concorrenza, ha determinato e
determina, in danno dei Paesi in cui esso ha preso campo, un
incontrollato e copioso flusso valutario e di ricchezza verso la
Cina. alimentando la crescita esponenziale del PDA di talune
categorie sociali.
Prova ne sia che dietro il paravento dell’ufficialità vetero
comunista che dirige la Grande Cina (i cui esponenti imperano
alla stregua delle dinastie Xia, Schang, Qin, ecc.ecc.,
succedutesi nei millenni e nei secoli, sin quasi alla metà
dell’ultimo secolo), proliferano gruppi capitalistici,
finanziari e speculativi che nulla hanno da invidiare ai boss di
Wall Street. Oggi i magnati cinesi acquistano dappertutto e
qualsiasi cosa, dalle aziende industriali e commerciali a
consistenti partecipazioni azionarie in multinazionali e in
comparti bancari di rilievo, financo squadre di calcio. In
taluni casi sono divenuti predominanti nei relativi C.d.A. Il
tutto con il beneplacito della tornacontista quanto permissiva e
indefinibile “nomenklatura” del Partito Comunista Cinese.
Permissivismo che, invece, non trova conferma nella libertà di
espressione, nella libertà di stampa, nel diritto a un giusto
processo, nella libertà di religione, nel suffragio universale e
nei diritti di proprietà. Tutti aspetti basilari di una società
libera e civile che, palesemente, non sono garantiti dallo Stato
pseudo comunista cinese. Sono, anzi, settori in cui quest’ultimo
esercita una drastica azione di censura e di repressione, anche
con provvedimenti di natura penale.
Qualche anno fa “Reporter senza frontiere”, nel suo annuale
Freedom Index World Press, ha classificato la Cina al 159º
posto, su 167 stati presi in considerazione, indicando un
livello molto basso di libertà soggettiva e di stampa. Nel 2014,
è stato assegnato alla Cina il 175º posto su 180 paesi
analizzati.
Non va altresì dimenticato che la Cina è stata responsabile di
repressioni su vasta scala e di diffusa negazione dei diritti
umani (come avvenuto ad esempio nello Xinjiang), anche mediante
duri interventi della polizia e dell’esercito. La sua politica
egemonica, peraltro, s’è evidenziata con l’autoritaria e
ricattatoria annessione di stati e zone confinati fra cui il
Tibet, Hong Konk e Macao. Il governo comunista cinese, pur dopo
tre infruttuosi tentativi di forzare la mano, non demorde,
tuttora, dall’avanzare ataviche pretese su Taiwan (Isola di
Formosa) e accampa diritti anche su altre isole più o meno
viciniori, oggi sotto sovranità vietnamita, giapponese e russa.
Nessun rispetto, quindi, per i principi sanciti dalla Carta
delle Nazioni Unite (ONU) in materia di “autodeterminazione dei
popoli” e di “sovranità popolare”.
La Cina, facendo parte dei membri effettivi del Consiglio di
Sicurezza di tale Organizzazione, dovrebbe essere paladina della
Pace, della giustizia internazionale, della tutela della vita
umana, della salvaguardia dell’ecosistema planetario ma,
viceversa, la si può annoverare (come del resto un po’ tutte le
altre Nazioni che compongono il citato Consiglio di Sicurezza (
Stati Uniti - Regno Unito - Russia e Francia) fra le Nazioni che
infrangono a convenienza le regole e che, quindi, dovrebbero
essere imparzialmente sanzionate e costrette a rispettare i
trattati e la civile convivenza fra i popoli.
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L’INCOGNITA CINESE
FORZE ARMATE.
Con 2,3 milioni di soldati in servizio, le Forze Armate cinesi
costituiscono la più grande forza militare del Mondo. Essa è
composta da Esercito, Marina e Aviazione oltre che da una “
Forza Nucleare Strategica”.
In base ai dati forniti dal governo cinese, il bilancio militare
per il 2015 ammonta a 145 miliardi di dollari statunitensi, il
secondo più grande capitolo di spesa militare del mondo. Si
presume, tuttavia, che la Cina tenga segreto il reale livello
della stessa che, presumibilmente, è parecchio più elevata.
Secondo un rapporto del Dipartimento della Difesa statunitense
(2013) la Cina possiede 240 testate nucleari e 75 missili
nucleari intercontinentali, insieme a un numero elevato di
missili SRBM a corto raggio.
A decorrere dai primi anni 2000 la Cina ha anche sviluppato la
potenzialità della propria Marina. La sua prima portaerei è
entrata in servizio qualche anno addietro ed è stata accresciuta
notevolmente la consistente della flotta sottomarina, tra cui
otto battelli a propulsione nucleare dotati di missili balistici
nucleari di ultima generazione e a lungo raggio (ICBN).
INDUSTRIA BELLICA.
Secondo i dati dell'Istituto Internazionale di Ricerche sulla
Pace di Stoccolma, tra il 2010 e il 2014, la Cina è diventata il
terzo più grande esportatore al mondo di armi, con un incremento
del 143% rispetto al periodo 2005-2009. E’ risaputo, in
proposito, che le armi impiegate nei teatri di guerra ormai
sparsi in tutto il mondo sono in gran parte di produzione
cinese. A parte la gran varietà di armi leggere trattasi anche
di sofisticati sistemi d’arma, carri armati, lanciarazzi,
artiglierie pesanti ecc. ecc. Di tale sconcio commercio
s’avvalgono in gran misura anche i gruppi rivoluzionari e
terroristici che pagano profumatamente in contanti (denaro
risaputamente frutto di crimini vari, di sequestri e di ricatti)
o mediante forniture di petroli e materie prime.
La Cina “comunista”, in definitiva, pur di accrescere la propria
potenzialità industriale ed economica, non disdegna di fornire a
dismisura armi di ogni tipo a chi dispensa barbarie, distruzioni
e morte. Analogo discorso, ovviamente, va imparzialmente
indirizzato a tutte quelle altre Nazioni - fra cui primeggiano
Stati Uniti e Russia - che permettono ed esercitano tale immondo
commercio. Risulta che anche l’Italia ricopre un buon posticino
in graduatoria. Gli affari sono affari. I genocidi, le
carneficine, i delitti, le distruzioni, sono trascurabili cose.
I MERCATI, LA FINANZA E LE BORSE
Deng Xiao Ping, come già accennato, è stato il principale
fautore dell'apertura della Cina all'economia mondiale e della
parziale liberalizzazione degli scambi.
L'economia cinese è la seconda al mondo per P.I.L. complessivo,
appena dopo gli Stati Uniti d'America, pur se se il P.I.L. pro
capite la vede all’ottantanovesimo posto.
Nel 1949, il governo comunista ricorse ad un modello di economia
pianificata di stile sovietico. L'agricoltura venne
collettivizzata e la programmazione avveniva attraverso “piani
quinquennali”. Fino al 2004 la Costituzione cinese non
riconosceva la proprietà privata. Le terre, tuttavia, non furono
riprivatizzate ma affidate ai contadini con contratti di
usufrutto pluridecennale. Dopo la morte di Mao (1976), ebbe
inizio la cosiddetta “apertura” della Cina al mondo economico
esterno avviando il progetto di “economia socialista di
mercato”, un sistema economico che di fatto integra la Cina al
modello capitalista e aspira a sostituire la pianificazione
centralizzata con un'economia di mercato. Furono avviate, nel
contempo, le "Quattro modernizzazioni" (agricoltura, industria,
scienza e tecnologia, apparato militare).
Il controllo centralizzato sui prezzi fu allentato e venne
incoraggiata la creazione di nuove imprese, anche mediante
l'apertura agli investimenti esteri. Il forte sviluppo economico
cinese degli ultimi decenni s’è basato in larga parte sulla
reperibilità in loco di una grande quantità di manodopera
laboriosa e a basso costo che ha incentivato la delocalizzazione
produttiva di molte grandi aziende occidentali e giapponesi.
Delocalizzazione incoraggiata anche dal crescente livello delle
infrastrutture e dei trasporti, da una politica governativa
permissiva e, a detta di molti, dal frequente ricorso alla
svalutazione dello “yuan”. Di pari passo s’e accresciuto il
fenomeno della “corruzione” stile nazioni occidentali.
Secondo recenti stime OCSE, le imprese cinesi nel giro di meno
di due lustri hanno prodotto un P.I.L. addirittura superiore al
50%, rispetto all'1% del 1978. La crescita è continuata sino al
2014 anno in cui s’è iniziato ad intravedere una sensibile
battuta d’arresto e forse l’inizio di una imprevista curva
discendente.
Da poco tempo la Cina ha statisticamente superato gli U.S.A.
come paese più industrializzato del mondo in virtù della
delocalizzazione nel suo territorio, per effetto del basso costo
della manodopera, della produzione di parecchie grandi e medie
aziende estere.
Tuttavia, ancora nel 2009 circa il 15% della popolazione cinese
(pur se trattasi di un tasso parecchio inferiore al 64% del
1978) viveva con meno di 1 dollaro al giorno. Nello stesso anno
la disoccupazione nelle grandi città segnava solo un 4%, mentre
quella nazionale s’ attestava attorno al 10%. Nel contempo, per
come già accennato, risultava notevolmente accresciuto sia il
ceto medio impiegatizio e artigianale che i “super ricchi”
(titolari di consistenti patrimoni e di enormi disponibilità
finanziarie). La crescita economica, tuttavia, risultava
prevalentemente concentrata nelle regioni industrializzate del
sud-est, allargando maggiormente la forbice dello sviluppo e la
disparità del tenore di vita tra le diverse regioni della Cina.
Il sistema energetico è tuttora insufficiente sebbene negli
ultimi decenni la Cina sia divenuto il paese con maggiore
consumo di elettricità. Circa il 70% della produzione proviene
dalle centrali a carbone, il combustibile fossile di cui la Cina
è ricca e del quale i più rilevanti giacimenti si trovano nello
Xinjang. Dalla Cina, quindi, proviene una elevatissima quota
dell’inquinamento atmosferico globale, principalmente derivante
dalla pericolosissima anidrite carbonica (CO2)
Solo di recente si sta promuovendo la produzione di energia da
fonti pulite, particolarmente da quella eolica, cercando,
altresì, di sfruttare al massimo il grande potenziale
idroelettrico. Sono attive, inoltre, 4 centrali nucleari, per un
totale di 11 reattori.
CINESI IN ITALIA
La comunità cinese in Italia è cresciuta rapidamente nel primo
decennio del secolo. Secondo i dati ISTAT al 31 dicembre 2010 i
cinesi residenti in Italia erano 209.934. Oggi si presume che
ammontino ad oltre 320.000
L’ammontare complessivo delle rimesse in uscita dal nostro Paese
nel 2013 supera i 5 miliardi di
euro. La Cina rappresenta la prima destinazione delle rimesse
partite dall’Italia nel 2013, con
complessivamente 1.098 milioni di euro, pari al 25% del totale
delle rimesse in uscita.
23 agosto 2015
A. Lucchese
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