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                  IGNAZIO BUTTITTA ED IO


Conobbi Ignazio Buttitta in circostanze particolari.
Mio cugino Gigi Fazzi aveva, negli anni settanta ad Enna, una bella ed assortita libreria con molte primizie letterarie.
Sapendomi cultore della poesia, anche di quella dialettale, mi regalò un libro di poesia di un suo caro amico, dichiarato comunista come lui, Ignazio Buttitta.
Passavo le vacanze natalizie ad Enna, a casa di mia madre. Quell’anno le trascorsi leggendo attentamente le poesie sociali di Buttitta.
In libreria mi procurai tutto ciò che mio cugino aveva di Buttitta.
Decisi di volerlo incontrare. Così appena, per ragioni di lavoro, fui a Palermo, gli telefonai e ci incontrammo nella sua villa all’Aspra di Bagheria, situata su una collinetta di fronte al mare.
Quell’incontro ci legò culturalmente per circa dieci anni. Ci facemmo reciprocamente degli “assist” culturali. Pubblicammo in antologie scolastiche e riviste, insieme facemmo recitals di poesie in tutte le parti dell’isola, compresa l’Università di Catania. Arrivammo sino a Milano. Fummo inseparabili.
Trascorrevamo lungo tempo in discussioni poetiche, culturali, politiche. Voleva, a tutti i costi, convincermi a iscrivermi al partito comunista, diceva ‘come Sciascia, Guttuso, Vittorini…’ suoi carissimi amici.
Lo voleva fortemente affinché il partito mi prendesse sotto le sue ali, per farmi crescere in quel mondo culturale ove “albergava” quasi tutta “l’intellighenzia nazionale”. Spianandomi la strada.
Non mi legai e non mi sono mai legato ad un partito, tranne un brevissimo periodo nel quale avrei voluto far prendere coscienza ai siciliani dei loro diritti di cittadini italiani “bistrattati”, senza il dovuto riconoscimento nei confronti di un popolo con quattromila anni di civiltà sulle spalle, tenuto legato ai bisogni primari.
Così decisi di stilare uno statuto per un partito sicilianista che, contrariamente alle mie indicazioni, civili ma incisive, volle fare di testa sua e si dissolse nell’inefficienza operativa. Un ramo del quale fu il movimento che assurse per breve tempo agli onori della cronaca “I Forconi”. *
Capii che un popolo, sino a quando non prende coscienza “unanime” dei propri diritti, è destinato ad essere emarginato da un sistema politico al cui vertice c’è chi pensa e provvede affinché gli interessi delle lobby finanziarie prevalgono sempre e comunque sui diritti fondamentali dell’uomo.
L’impegno culturale, per quanto giusto e sacrosanto, senza l’afflato di un popolo, non sortisce l’effetto sperato: smuovere le coscienze. Rimane la voce di un profeta che grida nel deserto, con la speranza in un futuro migliore; spingendo, il singolo, l’immane “carretto” del passo da lumaca dell’animo umano.
Quante cose sorgono alla mente, nel rimembrare i discorsi che facevamo io e Buttitta, in quelle lunghe serate che iniziavano dopo un frugale pranzo nella sua villa all’Aspra, o a casa mia a Catania, e proseguivano sino a notte fonda, ininterrottamente, con in sottofondo il brontolio di mamma Angela, la moglie di Ignazio.
La quale, stanca di ascoltare, a sera tarda andava a letto, dopo un ultimo vigoroso richiamo a darci pace,
Mi imbarazzava il malessere di mamma Angela, anche se Ignazio mi diceva: “Mi ama visceralmente, ma non si rende conto che ho bisogno dei nostri dialoghi di confronto, anche accesi e contrastanti”.
Aneddoti? Tanti! Come quando a fine pranzo mi chiedeva una sigaretta. La prendeva, la spezzava in due, accendeva la sua metà, esortandomi a fare altrettanto. La prima volta gli chiesi il perché. Mi spiegò che nel caso in cui sua moglie ci avesse sorpresi, attratta dall’odore del fumo, avrebbe candidamente dichiarato che non era lui, ma io il fumatore.
La moglie si preoccupava a causa dei suoi due o tre lievi infarti.
Finita la pantomima mi chiedeva di nascondere tre o quattro sigarette in posti impensabili per mamma Angela, come riserva.
La sua era veramente una porta aperta al mondo, accessibile a chiunque volesse conoscerlo, senza atteggiamenti di protagonismo. Eppure aveva girato molto, conosciuto tante persone influenti, blasonate. Era tradotto in tutto il mondo.
Con Montale si davano del tu. Con Sciascia erano come fratelli, altrettanto con Guttuso.
Di ogni suo amico mi raccontava aneddoti esilaranti, se e quando ne capitava l’occasione. Riscontrava ovunque consensi e subiva con rassegnazione critiche feroci e astiose, frutto essenzialmente di invidia.
Raramente sono ricorso a lui, anche se mi esortava a chiedere il suo aiuto. Ricordo che, a conoscenza di un mio lavoro teatrale sulla figura di Don Giovanni, il famigerato seduttore per antonomasia, che mi era costato tre viaggi in Spagna, alla ricerca storica del personaggio, definito di invenzione letteraria, volle a tutti i costi che partecipassi, con il mio lavoro al bando nazionale di un concorso letterario patrocinato dalla rivista “Gente”.
Aveva ragione, il lavoro innovativo nella forma e contenuto, precursore di un misto lingua italiana e siciliana, si aggiudicò il prestigioso primo premio.
Nei recitals voleva che fossi per primo ad aprire la serata, per rompere il ghiaccio, acquisire esperienza, evitare da parte mia la ressa che si verificava ogni volta, alla fine del suo intervento, per la rincorsa all’acquisto di un libro e chiedergli la dedica, che non lesinava a nessuno.
Noi, amici cari, ci beavamo del bagno di folla che la sua presenza suscitava, ovunque andassimo. Non si erano e non si sarebbero più viste le folle accalcate per assistere ad un recital di poesie, ovunque: nei teatri, come nelle piazze.
Successivamente ho avuto personalmente le folle ad un lavoro teatrale o a un recital di poesie, ma non erano né saranno mai la stessa cosa.
Un aneddoto per tutti. Francofonte, periodo della raccolta del tarocco, specialità da esportare, festa del paese.
Serata organizzata per un recital da effettuare nella piazza gremita come l’uovo, stima di presenze, fra anziani, adulti, ragazzini e neonati, circa quindicimila anime. Un chiasso assordante. La piazza e le vie adiacenti brulicanti.
Alla prova degli altoparlanti e la richiesta di silenzio, non si sortisce niente di positivo. Ignazio mi dice: “Fernandu, acchiana nno palcu e attacca. Mi pari ca stasira recital non si nni po’ fari, c’è troppu baccanu”.
Salgo sul palcoscenico e arringo la folla con la poesia “Ficudinnia”, un pugno nello stomaco verso le ingiustizie sociali di cui la Sicilia ed i siciliani siamo vittime.
Con enorme sorpresa, me compreso, nel corso della poesia gridata, attraverso gli altoparlanti, con voce roboante ed incisiva, si istituisce un silenzio assoluto, coronato alla fine da scroscianti applausi.
Incoraggiato, passo alla seconda poesia “Cumpagni, arrivigghiativi!”. Una vera ovazione. Quel popolo, e quella folla, quella sera erano pronti alla rivoluzione. Ne ebbi quasi paura.
Salì Ignazio sul palco, fece un lungo discorso sociale, il recital, ed ebbe l’afflato che meritava.
Ultimo aneddoto. A Villabate, grossa frazione di Palermo, il Comune organizza un recital di poesie dentro il cineteatro del paese. Noi ospiti. Ignazio mi presenta Giovanni Falcone e un suo collega magistrato di cui non ricordo il nome.
Rammento a Falcone che ci eravamo conosciuti da giovani collegiali, lui del “Nazionale”, io del “Guglielmo Marconi”, presentati, molti anni prima, ad una manifestazione culturale dentro la Cattedrale di Palermo, famosa per la sepoltura di Federico II di Svevia, adiacente al Nazionale.
Falcone mi disse di non ricordarsi di me. Allora gli rammentai che in quella occasione mi aveva raccontato un fatto che mi sorprese non poco. Alla mia domanda come si trovasse al Nazionale, prestigioso collegio, mi rispose sorridendo che aveva dovuto imparare a difendersi dalla presenza di figli di padri “non integerrimi”, dediti a “ignoti proventi”.
Già allora Falcone meditava la caccia agli oscuri, torbidi guadagni di losca provenienza.
A sua volta, l’amico ritrovato, mi presentò il collega che era con lui, il quale, mi disse, era venuto per conoscermi. Seppi che Buttitta gli aveva regalato una copia della mia prima sillage di poesie siciliane, dal titolo “Cumpagni arrivigghiativi”, che conteneva la poesia “Occhi di matri”, in cui descrivo i tormentosi sonni di un mafioso al quale la madre, ogni notte, pressantemente gli chiede, con gli occhi pieni di lacrime e di rabbia (… arraggiati, addumati nno scuro. Dice la poesia), perché le ha ucciso il figlio innocente.
Chiesi al magistrato come mai quella poesia lo aveva tanto scosso. Mi disse che la mafia gli aveva da poco ucciso il padre per ritorsione nei suoi confronti, e piangeva come agnello al macello. La cosa mi fece ghiacciare il sangue.
Buttitta quella sera fu particolarmente duro e feroce contro la mafia, in un paese di stampo rinomatamente mafioso.
Rientrando all’Aspra, gli chiesi se non avesse paura della mafia. Mi rispose in modo lapidario: “A mafia ammazza sulu pi sordi. Vasinnò isa i spaddi e si nni futti. Ma nuatri avemu a siminari nni li cori di l’omini”. Questo era Ignazio Buttitta, grande uomo, grande poeta, maestro di vita.
A me ha insegnato che la rivoluzione sociale passa attraverso una presa di coscienza culturale profonda ed indignata del popolo.
Ho espresso questi concetti nella mia poesia “La penna”, scritta il 2 Aprile 1977, alle prime luci dell’alba, nella terrazza della villa dell’Aspra, in solitudine. Con i marosi che sferzavano gli scogli, aldilà dello stradone, fra la villa e il mare. La brezza che mi rinfrescava il viso, e gli uccelli che salutavano il nuovo giorno.
Al risveglio Ignazio “battezzò” la poesia nel mutismo più assoluto, dopo averla ascoltata più volte, sorridendo. Dimostrando così il suo consenso.
Il mio amico Ignazio era “un giusto”, uomo e poeta ‘senza macchia e senza paura’.
Questo era!

fernando luigi fazzi

22 ottobre 2021

* A chi dovesse sentirne la necessità, potrò fornire copia del “documento programmatico”, stilato insieme a Renato Sgroi Santagati, con i caratteri della casa editrice “I Garufi” di Catania, Gennaio 2013.

 

 

 

 

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