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I RETROSCENA DELL’ARMISTIZIO DELL’8 SETTEMBRE 1943.

ANALISI DI UNA TRAGEDIA all'italiana. 
 
di Augusto Lucchese


SCHEMA dell'argomento:

1- ANTEFATTO :
- il 25luglio
- la congiura di Villa Savoia
- arresto di Mussolini

2- i 45 giorni di Badoglio :
- il non governo
- violenze e repressioni
- le vendette private
- l’incapacità di ottenere l’aiuto alleato

3- le trattative per l’armistizio:
- Castellano 
- Cassibile
- L’armistizio corto - La firma del 3 settembre
- La confusione decisionale
- I tentativi di rinviare l’annuncio fissato per l’8 settembre

4- la fuga da Roma:
- accordi segreti con Kesserling ?
- la carovana dei fuggitivi 
- sosta nel castello dei Duchi di Bovino 
- l’imbarco sulla corvetta “Baionetta”
- arrivo a Brindisi
- Il Regno del Sud (settembre 43 – giugno 44)

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Antefatto - I tragici avvenimenti dell' 8 settembre 1943 non furono certo determinati da cause  inattese o fortuite. Erano, sotto molti aspetti,  quasi una logica e  irreversibile conseguenza di ciò che avvenne in quel pomeriggio del 25 luglio 1943 quando l'insipiente Maresciallo Pietro Badoglio fu riportato alla ribalta. I suoi sostenitori, autentici campioni di ottusità, non memori degli irreparabili errori che avevano costellato il lungo periodo del suo potere di Capo Supremo delle FF.AA.  (a prescindere dalla grave corresponsabilità per la sciagura di Caporetto) lo trassero dall'oscurantismo della sua villa di Via Bruxselles (regalatagli dal P.N.F. nel 1936) e, per volontà del Re Vittorio Emanuele III  ed a fronte del responsabile rifiuto di ben altri personaggi, lo insignirono dell'incarico di Capo del Governo, al posto del defenestrato Mussolini. L'esito della votazione del Gran Consiglio del Fascismo sull’ordine del giorno "Grandi"  che esprimeva la sfiducia al Capo riconosciuto del Fascismo, venne comunicato al Sovrano, di prima mattina, dallo stesso Grandi.  Tale comunicazione ufficiale diede il via alla fase conclusiva del complotto da tempo ordito dal Re e dai suoi accoliti (qualcuno sostiene sin dall’aprile '43) e del quale era a conoscenza solo il Duca Acquarone, Ministro della Real Casa.


25 luglio 1943.  E’ risaputo che Vittorio Emanuele, per ottenere lo scopo, s'era avvalso dell’opera di alcuni influenti esponenti militari fra cui il Gen. Ambrosio, Capo di Stato Maggiore delle FF.AA., il Gen. Carboni (capo del S.I.M. - servizio informazioni militari - e poi comandante del Corpo d'Armata cui era affidata la difesa di Roma), il Gen. Cerica Comandante dell’Arma dei Carabinieri. Al Gen. Castellano (aiutante maggiore del Gen. Ambrosio) era toccato il compito d'approntare il piano dettagliato della trappola da approntare nei riguardi di Mussolini. Già al 19 luglio (6 giorni prima della prevista riunione del Gran Consiglio) tutto era stato accuratamente predisposto in tal senso. 

Sorgono spontanee alcune riflessioni:

- come definire tale “complotto” se non con l’appellativo di “tradimento” ? 

- come definire la sotterranea attività dei citati generali se non come “attentato ai poteri costituzionali dello Stato”? 

- come giudicare l'operato del Capitano dei Carabinieri Vigneri che, all’uscita da Villa Savoia, sbarra la strada a Mussolini e con la forza lo costringe a seguirlo ?

- come considerare un tale atto se non come “una grave insubordinazione", per non parlare di “ammutinamento” nei riguardi del Capo delle FF.AA. (oltre che Capo del Governo) tuttora nel pieno godimento delle sue funzioni, reato peraltro palesemente più grave se commesso da un militare legato al giuramento di fedeltà alle Autorità costituite? 


Solamente la preventiva rinuncia alle funzioni istituzionali ricoperte, avrebbe potuto attenuare l'intenzionale colpevolezza dei militari che parteciparono al complotto. Sembra che solo il Gen. Cerica abbia avanzato qualche riserva, chiedendo: - “… stiamo agendo nel rispetto delle norme costituzionali ?” . Gli fu risposto che era il Re - Capo dello Stato - ad avere impartito le direttive. Sta di fatto, in ogni caso, che il Monarca, nel rispetto dello Statuto, era sì in diritto di togliere la fiducia a Mussolini ma non poteva disporre il suo arresto in assenza di un provvedimento restrittivo formulato dalla competente Magistratura.

Si trattò, quindi, di un autentico abuso d'autorità e di un “sequestro di persona”.
Quel triste pomeriggio di domenica 25 luglio, in esecuzione di un preciso piano eversivo, alle 17 e venti circa, Mussolini fu indecorosamente bloccato all'uscita di Villa Savoia, caricato su una traballante ambulanza e tradotto, come fosse un qualsiasi malvivente, per le Vie di Roma sino alla Caserma “Podgora” da dove, poi, fu trasferito all’isola di Ponza. Tutto era stato preparato a dovere circa le modalità del fermo di Mussolini al termine dell’udienza. Per la cronaca, il Capitano Vigneri,  oriundo catanese, alla fine della guerra tornò nel Capoluogo etneo ove esercitò, per parecchi anni, la professione di Notaio. 
L’ingenuità di Mussolini era stata anche preventivata?  Sta di fatto che, fidandosi del Sovrano, non intuì il pericolo (malgrado molte avvisaglie avrebbero dovuto allarmare sia lui che il suo “staff”) e andò all’udienza accompagnato solo dal suo segretario, De Cesare, e dall’autista. 

Asserendo che il Re aveva semplicemente “accettato le dimissioni di Mussolini”, fu divulgata, oltretutto, una spudorata menzogna volta a camuffare l'indecorosa vicenda. Mussolini non era andato dal Re per dimettersi (non era nelle sue intenzioni) mentre sta di fatto che il decreto di nomina del suo successore, Badoglio, era stato redatto e firmato sin dal mattino. Alle 18,30, come ultimo tassello del mosaico allestito dal Monarca e dal suo entourage militare, Badoglio (già preavvisato) giunge a Villa Savoia per ricevere dal Re l’incarico di “Capo del Governo e Primo Ministro Segretario di Stato”. Poco dopo il noto “speaker” dell’EIAR, Giambattista Arista, leggerà ripetutamente alla radio, con voce afona e anonima, il comunicato straordinario e i proclami del Re e di Badoglio alla Nazione, ambedue redatti, si dice, dal venerando “Presidente” V. E. Orlando. Quello a firma di Badoglio conteneva peraltro la ben nota quanto infelice frase “la guerra continua”. 

Il riesumato Maresciallo Badoglio, potrà così stappare, a sera inoltrata, la famosa bottiglia di “veuve Cliquot” che dietro suo esplicito ordine la moglie aveva tratto dalla fornitissima cantina di Villa Badoglio. Cominciano così “gli ambigui 45 giorni di Badoglio" che tante sofferenze porteranno sia ai militari in armi che alla popolazione”, come scrive Gianfranco Romanello, a pag. 1339 de “La seconda Guerra Mondiale” (Gruppo Editoriale Fabbri – II ristampa - 1986), aggiungendo: -“…il 25 luglio venne girata una pagina della storia d’Italia ma le nubi di un’altra tragedia si fecero ancora più scure e si addensarono ancora più…”.

Tutto accadde senza che alcun magistrato, militare o civile che fosse, abbia mai ritenuto doveroso aprire una circostanziata inchiesta a fronte dei palesi gravi reati penalmente perseguibili d’ufficio! 

“Dalla padella, nella brace”, come suole dirsi. Gli effetti e le conseguenze dell'irrazionale quanto sciagurata scelta del Re, non tardarono a manifestarsi. Nei 45 giorni di permanenza al Viminale da “primo ministro”, Badoglio si muove più da sprovveduto “gestore” di una annunciata sconfitta militare e morale che da “salvatore della Patria”. Forse non era in grado di comprendere che stava irresponsabilmente trascinando il Paese verso nuova Caporetto cui difficilmente avrebbe potuto seguire un nuovo Piave. Il Bertoldi, a pag. 46 del testo già citato, dice che Badoglio, in quel periodo, “non fece quasi nulla e quel poco che fece lo fece male”

Parole che proiettano una luce sinistra sui controversi aspetti del suo “non governo”, pur se lascia parecchio perplessi il fatto che un così deleterio operato seguitasse ad essere suffragato, nel tempo, dalla abulica accondiscendenza e dal colpevole silenzio del Monarca che lo aveva posto alla guida del Paese. E’ evidente che Casa Savoia, sua sponte, non seppe assumere alcuna responsabile posizione a fronte dell’incalzare degli avvenimenti. Tutti sanno, tuttavia, che Badoglio, come se i mille problemi militari e amministrativi del momento non esistessero, troverà comunque il tempo e la volontà per vendicarsi di alcun suoi pregressi dichiarati oppositori. 

E’ provato che diede il suo assenso (esiste in proposito un documento autografo) per la cruenta eliminazione del Maggiore Pilota Ettore Muti, medaglia d’oro al valore militare. Badoglio, inoltre, nel fuggire da Roma, il 9 settembre 1943, pare avesse “volutamente dimenticato” sulla scrivania del proprio studio una copia di un compromettente “memoriale”, stilato dal Maresciallo d’Italia Ugo Cavallero alcuni giorni dopo il 25 luglio, contenente considerazioni e suggerimenti circa la possibilità (dopo che Mussolini era stato posto fuori gioco) di sganciarsi dai tedeschi e per uscire autonomamente dal conflitto. I tedeschi vennero in possesso del memoriale, Cavallero fu condotto, seppure con tutto rispetto per il grado, a Frascati (sede dell'alto Comando Tedesco) ove alcuni giorni dopo fu misteriosamente trovato suicida.

S'era fatto in modo di fare crollare (ma a quale prezzo?) l'ormai debole impalcatura della dittatura di Mussolini, reo d'avere smantellato ogni forma di vita democratica, ma s'era consentito che al suo posto subentrasse un governo ugualmente autoritario, di stampo militaristico e per molti versi, come si vedrà, avventuristico. La dittatura mussoliniana aveva sì imposto al Paese la cultura demagogica e assolutista del regime fascista, ma, indubbiamente, aveva dalla sua parecchi attenuanti per avere realizzato concrete provvidenze di natura sociale, oltre che sostanziali e positivi risultati nel campo dello sviluppo industriale ed economico.  Di contro, l'autoritarismo badogliano, essenzialmente basato sulle “minacce”, sulle ritorsioni, sulla repressione violenta e in alcuni casi sanguinosa, presto si dimostrerà deleterio e affatto rispondente ai contingenti bisogni della Nazione, già stremata da tre anni di angosciante e disastrosa guerra, da inenarrabili sofferenze, da privazioni, da infiniti lutti, dalla paura di altre incombenti calamità. 

Casa Savoia e Badoglio furono bravi nel complottare contro Mussolini, ma non seppero fare nulla per fare uscire il Paese dal pericoloso pantano in cui la Nazione era venuta a trovarsi dopo il 10 giugno 1940, da oltre 3 anni.  Peraltro, in relazione  clamorosa ma inefficace svolta istituzionale del 25 luglio 1943,  nessuno degli artefici della stessa, ammesso che avessero avuto la capacità di farlo, ebbe l’accortezza, ne prima ne dopo, di tracciare una qualsivoglia linea precauzionale nei confronti dei tedeschi che, prendendo atto della situazione, stavano di fatto occupando il Paese. 

La situazione, in quel momento, poteva essere  ancora salvata mediante valide trattative con gli Alleati, anche ricorrendo a drastici provvedimenti di controllo delle frontiere, se non di totale chiusura delle stesse. Occorreva essere coraggiosi (ma chi, Badoglio? - manco a pensarlo!) e tenere presente che la Germania, fortemente impegnata sul fronte russo, oltre che nei preparativi di difesa del “vallo atlantico”, difficilmente avrebbe potuto imbastire, nell’immediato, un’azione di forza nei confronti dell’Italia. L’abulia, la insulsa tendenza al vivere alla giornata, oltre che il sacro timore di un aperto conflitto con i tedeschi, regnavano nelle alte sfere istituzionali (militari e governative) e quindi, per paura, nulla si fece di significativo, pur se solo a livello precauzionale. 

REAZIONI TEDESCHE AI FATTI DEL 25 LUGLIO

Hitler apprese la notizia della defenestrazione di Mussolini (non era ancora a conoscenza di un vero e proprio arresto) mentre si trovava a Rastenburg – sede del suo Quartier Generale – ed esclama furiosamente: -“è un tradimento”. Convocati i suoi collaboratori, oltre al Capo di Stato Maggiore Gen.le Keitel ed al capo dell’O.K.W. Gen.le Jodl, prende subito in esame la situazione e, di getto, manifesta la volontà di ordinare alla 3° Divisione Granatieri Corazzati – di stanza nei pressi di Roma – di occupare i punti nevralgici della Capitale per arrestare i componenti di Casa Savoia, il Monarca stesso e l’intero staff di Badoglio, considerato “il più acerrimo nemico”. Addivenendo però a più miti consigli ordina, prima d’ogni altra cosa, di attingere precise notizie. Furono prese, però,  alcune contromisure e venne deciso, innanzi tutto, di “recuperare” prontamente i 75.000 uomini ancora in terra di Sicilia (Hitler dice ai suoi interlocutori :-“…anche a costo di distruggere i mezzi pesanti, …del resto contro gli italiani bastano solo le armi portatili”), mentre vengono impartite disposizioni per aviotrasportare dalla Francia una Divisione di Paracadutisti e per spostare al più presto in Italia almeno due Divisioni Corazzate (la 24° e la 34°) destinate ad integrare la già citata 3° Divisione Granatieri che a detta di Jodl (Comandante in capo della Wehrmacht tedesca) era  “solo parzialmente” efficiente, stante che poteva disporre di appena 42 carri armati. Viene deciso, infine, di prendere immediati contatti con la 4° Armata Italiana (il cui comando trovavasi a Mentone, in Provenza) per disporre liberamente, con le buone o con le cattive,  dei valichi alpini che dalla Francia portano in Piemonte. Si palesa, altresì, la necessità di ottenere, il libero transito anche attraverso tutti i passaggi alpini del versante austriaco. Il Feldmaresciallo Keitel fa presente, a tal proposito, che “…la peggiore cosa che ci potrebbe capitare sarebbe quella di non essere saldamente in possesso dei valichi…”. Hitler impartisce, ancora, precise disposizioni per sollecitare Von Mackensen – ambasciatore tedesco a Roma – affinché assuma precise informazioni circa la posizione di Mussolini e per accertare se esiste la possibilità che il Duce possa liberamente recarsi in Germania. 


Da parte italiana, di contro, piuttosto che adottare immediati provvedimenti per controllare e limitare l’afflusso di rilevanti forze tedesche,  si giunse addirittura a facilitarne i movimenti, sia concedendo il passaggio attraverso i valichi alpini che permettendo l’uso di ferrovie, porti e aeroporti. Non venne assunta, altresì, alcuna decisa iniziativa per riportare in Italia, almeno in parte, le venti divisioni dislocate in Francia, in Dalmazia e Croazia, in Grecia (in buona parte dotate di un discreto parco di mezzi motorizzati e blindati). Si cedette, anzi, alle reiterate pressioni dell’ O.K.W. (Alto Comando Tedesco) tendenti a spostare verso  Sud alcune delle Unità divisionali presenti in Lazio e Toscana, “assicurando” che sarebbero state sostituite (ciò era il loro vero scopo) dai reparti tedeschi in arrivo. 

Si diede ai tedeschi, in definitiva, tutto il tempo loro occorrente e si vennero a creare, ineluttabilmente, le premesse per il disastro che da lì a poco si sarebbe abbattuto sulle Forze Armate italiane e sulla Nazione intera. 

Incapacità e lassismo, superficialità e pressapochismo nelle decisioni, palese timore per una eventuale reazione tedesca, dominavano lo scenario del “non governo” badogliano. Una vera e propria sindrome autolesionista. Anche Hitler ebbe ad esprimere la sua incredulità circa il fatto che gli italiani si fossero fatti sfuggire l’unica concreta occasione, in quel frangente fortuitamente esistente, per sganciarsi con successo dall’alleanza con i tedeschi.

Gli errori di Badoglio, paradossalmente, furono invece molto utili ai sovietici stante che Hitler, per fronteggiare la situazione italiana, dovette prendere la decisione di dirottare in Italia  importanti forze, riserve e risorse destinate al fronte russo, peraltro già in crisi per il concatenarsi delle diverse offensive frattanto sferrate dall’Armata rossa.

Senza dire, poi, degli oscuri intrighi riguardanti la indegna vicenda dell’Armistizio di Cassibile, la cui trama venne imbastita da Badoglio e dal suo “entourage” all’insegna della più incredibile superficialità, ai limiti della inettitudine. Le trattative con gli alleati, affrettatamente portate avanti da un plenipotenziario inesperto e arrendevole (il Gen. Giuseppe Castellano, “portaborse” e collaboratore del Capo di S.M. Gen. Vittorio Ambrosio), sfociò nel teatrale annuncio dell’ 8 settembre 1943. 

8 settembre 1943 – Armistizio o resa senza condizioni?


“L’otto settembre è una data fatale per il nostro Paese, fatale come il 25 luglio 1943, come il 10 giugno1940. Sono, questi, i punti fermi della disastrosa avventura italiana nella 2° guerra mondiale. Sono fra loro collegati e interdipendenti poiché non è difficile tessere su di essi una trama fine, dalle linee certe e inconfondibili, la trama della disfatta. Trama che serve, come un filo conduttore, a chi volesse rendersi conto dell’attuale crisi “. Così scrive Carlo Bozzi a pag. 23 nel suo articolato e brillante testo “Oltre la disfatta” (Edizioni Delfino – Milano – 1952), introducendo una dotta disamina dei rivolgimenti istituzionali che seguirono agli oscuri avvenimenti di quel periodo. Avvenimenti che decretarono la fine della Monarchia e l’avvento della zoppa democrazia repubblicana la quale, malgrado fondata su una Carta Costituzionale di buona fattura, stenta tuttora ad esprimere personalità politiche capaci di elevarsi al di sopra delle parti e che sappiano manifestare, a livello morale e tecnico, l’indispensabile idoneità a pilotare la complessa macchina dello Stato democratico, non in funzione dei settari centri del potere partitico, economico e speculativo, bensì nel superiore interesse della collettività. E non è fuor di luogo, traendo spunto proprio dagli avvenimenti in trattazione, fare rilevare che non s'è persa l’abitudine, prettamente italiana, di prediligere le vacue ciance ai fatti. Ancor oggi, gli ampollosi discorsi dei politicanti di professione, le impostazioni dialettiche dei vari capi partito, i cattedratici sermoni profusi dalle Alte cariche dello Stato in occasione di varie ricorrenze (talvolta elevate agli altari della memoria nazionale per specifica pressione di quella parte politica che ne ha tratto vantaggio ai fini della propria legittimazione), quasi sempre sono fondati su demagogici “luoghi comuni” che non rispecchiano per intero la verità storica di taluni avvenimenti, oltre a non tenere conto dell’esistenza dell’altra non cancellabile faccia della medaglia. 

Gli avvenimenti che precedettero e seguirono la dichiarazione ufficiale dell’armistizio (19,45 dell’8 settembre 1943), stravolsero ogni razionale aspettativa e fu il caos. Oggi, alla luce dei fatti, sembra possibile affermare che l’Italia avrebbe sofferto meno conseguenze, meno lutti e meno danni se quell’Armistizio non fosse stato “chiesto” piuttosto che subirlo passivamente e poco dignitosamente. 

Chiamarlo “armistizio”, oltretutto, appare quanto meno improprio poiché, in effetti, non si trattò di una “tregua” delle operazioni militari, bensì di una vera e propria “resa senza condizioni”, imposta dagli Alleati con l’arroganza dei vincitori e col ricatto di ritorsioni e di nuovi e sempre più pesanti bombardamenti sulle città e sulla popolazione civile. 

A prescindere dall’assodata incompetenza e incapacità di chi condusse i giochi, non si può non esprimere un negativo giudizio sulle frettolose e insicure trattative che portarono alla firma (alle ore 17,15 del 3 settembre 1943) del famoso “armistizio corto”, tra il delegato italiano, Gen. Giuseppe Castellano e l’incaricato di Eisenhower, Gen. Bedell Smith. 

Pressappochismo e faciloneria non rappresentarono, però, solo un demerito italiano. Anche gli Alleati, in quella delicata e cruciale fase evolutiva del conflitto, non dimostrarono di avere una chiara e concreta visione della situazione che stava maturando. L’infelice frase, “la guerra continua”, inserita nel messaggio del 25 luglio alla Nazione (diramato dopo il menzognero comunicato circa “le dimissioni di S.E. il Cav. Benito Mussolini”), li aveva resi, forse, eccessivamente diffidenti e meno attenti al quadro strategico generale del Mediterraneo. Molto più verosimilmente, coloro i quali avrebbero dovuto valutare responsabilmente ciò che stava accadendo in Italia, erano presuntuosamente convinti che sarebbe bastata la semplice firma su un foglio di carta per ottenere che il problema Italia fosse superato. Per loro era sicuramente più importante, ai fini della propaganda, che la notizia della resa senza condizioni rimbalzasse da un Continente all’altro, piuttosto che creare le condizioni per accelerare la fine del conflitto mondiale. Poco importava ai “capoccia” anglo russo americani che sulla gente (fra cui donne, bambini e vecchi, ormai allo stremo), per effetto di quell’armistizio sbagliato, amaro frutto dell’opera di incompetenti, si abbattessero nuove sofferenze, pericoli, lutti e tragedie. Le “trattative” (se così eufemisticamente vogliamo chiamarle) furono portate avanti con durezza e spregiudicato cinismo, senza rendersi conto che anche loro, per la fretta di chiudere formalmente (pur se in malo modo e, in ogni caso, non sul piano militare) la partita con l’Italia, ben presto avrebbero subito pesanti conseguenze. 

Eisenhower, in particolare, non seppe valutare (come definire una tale “defaillance” ?) il grave ed incombente pericolo di una conseguente pressoché totale occupazione militare tedesca del territorio italiano, oltre che delle zone strategiche di cui gli italiani avevano il quasi assoluto controllo (parte dei Balcani e della Grecia, della Francia mediterranea dalle Alpi alla Provenza, sino a Tolone, della Corsica, delle Isole dell’Egeo). Il Capo delle forze Alleate in Mediterraneo, più per fini politici che strategici, assunse, con arrogante caparbietà, una posizione intransigente (per rendersene conto basterebbe leggere il testo dei fonogrammi indirizzati a Badoglio) relativamente alle drastiche modalità ed alla scadenza dell’annuncio ufficiale, perentoriamente fissati. 

La deleteria conseguenza di tale disattenta valutazione fu quella di precludere ogni reale possibilità di accorciare, di almeno un anno e mezzo, la guerra in Italia (e forse anche in Europa) mentre, con incredibile noncuranza, si mandarono allo sbaraglio milioni di persone e si condannarono a morte diverse decine di migliaia di militari e di incolpevoli e indifesi civili. 


Gli Alleati, oltretutto, non seppero imporre all’inetto governo badogliano una ferma linea d’azione che prevedesse, quale condizione basilare per l’avvio e la prosecuzione delle trattative, l’approntamento dei piani necessari per prendere possesso, al momento dell’armistizio, dei vasti territori presidiati dalle FF.AA. italiane. Nell’agosto del 1943 ciò era ancora strategicamente e tecnicamente possibile ed è confermato da quanto Hitler dirà a Mussolini in occasione del loro incontro dopo la liberazione di quest’ultimo da Campo Imperatore: - “…il tradimento italiano, se gli Alleati avessero saputo sfruttarlo, avrebbe potuto provocare il subitaneo crollo della Germania …”. 

Parole pesanti che, ove i “super strateghi” anglo americani avessero avuto l’intuizione, oltre che il buon senso, di puntare ad un tale risultato, dimostrarono come non solo sarebbe stato possibile scacciare rapidamente i tedeschi dalla penisola italiana, ma, molto probabilmente non sarebbe stato necessario, successivamente, l’immane sforzo militare per invadere l’Europa attraverso la Normandia. 

Gli Alleati avevano a portata di mano la Francia meridionale, quasi sguarnita di forze tedesche in quanto affidata al controllo degli italiani, ma non seppero approfittarne. Essi, tuttavia, hanno vinto la guerra e i loro errori, le loro colpe, i loro “crimini”, non hanno formato oggetto di alcuna inchiesta e non sono stati mai sottoposti ad alcun giudizio, alla stregua di ciò che si fece a Norimberga contro i nazisti di Hitler! 

L’incredibile e strana vicenda delle trattative, così come condotte dall’inetto “staff” badogliano e dai superficiali plenipotenziari interalleati e così come, poco assennatamente, ratificate da Eisenhower, apportò di tutto (sofferenze, morte, eccidi, disastri) fuorché l’atteso “rovesciamento di fronte” dell’Italia, militarmente parlando. Il cosiddetto Armistizio di Cassibile prese il nome da una località a poca distanza da Siracusa (appena fuori Avola) ed è passato alla storia quale simbolo della disfatta italiana. Non corrisponde al vero, per inciso, che la stesura e la firma avvennero nel “casale rustico” di cui alla lapide successivamente apposta. Tutto si svolse all’interno di una modestissima tenda da campo.

Dall’una e dall’altra parte, nessuno curò, con razionalità ed a tempo debito, la pianificazione dei necessari passaggi e adempimenti precauzionali e preventivi. Il Re, a sua volta, non fece alcunché per spingere il Governo in carica, che da lui aveva avuto il crisma di una apparente legittimazione, ad un incisivo comportamento responsabile e determinante. 

Alla fine, preso atto dell’annullamento dell’aviosbarco alleato attorno a Roma (a seguito della codarda rinuncia di Badoglio e dei suoi collaboratori, i Gen.li Roatta e Carboni, primi fra tutti) e una volta abbandonati i piani per una grossa operazione anfibia nell’alto Lazio (quella di Salerno si rivelerà ben presto quasi del tutto controproducente, oltre che dispendiosa), la guerra si impantanò in difficili ed incerti sbarchi (Salerno ed Anzio), nelle aspre battaglie del Volturno o del Garigliano, nelle alterne vicende dei violenti scontri di Battipaglia, Cisterna e Aprilia (contrattacchi tedeschi), nella massacrante lotta sulla “Linea Gustav” e poi sulla “Linea Gotica”. 

Il momento più oscuro per la coscienza degli Alleati fu certamente la esecrabile, spregiudicata e tracotante decisione di distruggere l'Abazia di Montecassino, imperdonabile decisione che innescò danni incalcolabili, una tragica carneficina e il ritardo di qualche mese nella prosecuzione dell'azione offensiva. Fu una brutale azione (ben assimilabile ai "crimini di guerra") che rappresentò una indelebile macchia nera nella condotta bellica degli Alleati. Ad imperitura memoria di quell'inutile catastrofe sarebbe molto utile una esauriente disamina.


I madornali errori politici, strategici e tattici degli Alleati (sommati a quelli spropositati del Governo di Badoglio) fecero dell’Italia un sanguinoso campo di battaglia, allungarono di oltre un anno e mezzo il corso di cruenti combattimenti (lo “scandaloso ristagno delle operazioni”, come Churchill definì quel triste periodo) e tennero bloccate ingenti forze anglo - americane, francesi e polacche che avrebbero potuto essere impiegate altrove. 

Sarebbe superfluo approfondire ulteriormente le cause di tali errori. Basta solo ricordare che, a detta di parecchi valenti storiografi, essi furono talmente grossolani che non vale la pena di riesumarli, analizzarli e collegarli fra loro, anche perché si correrebbe il rischio di dovere rivisitare e reimpostare un intero periodo di storia. 

E’ senz’altro utile, invece, tornare a ribadire (non come discorso ripetitivo o fine a se stesso, bensì come esternazione di un profondo senso di indignazione verso coloro che erano alla guida degli apparati) che il protrarsi della guerra in Italia causò agli Alleati (così come ai Tedeschi) ingenti perdite in uomini, mezzi e materiali, oltre a provocare decine di migliaia di vittime civili italiane. 

E’ chiaro che sarebbe stato doveroso, da ambedue le parti e principalmente in sede conclusiva delle trattative per l’armistizio (o “resa incondizionata”, che dir si voglia), cercare di evitare un simile tragico scenario. Viceversa, il pavido Badoglio e la sua ciurma d'incompetenti e impreparati, con incredibile sciatteria, con assoluta mancanza di responsabilità e con palese cinismo, s'affidarono al caso, vivendo alla giornata e sciupando il tempo in vacui atti formali. 

Negli ultimi giorni, oltretutto, il pensiero era esclusivamente concentrato sul come mettere in salvo se stessi ed i componenti la Casa Reale, anche se il prezzo da pagare era quello di mandare allo sbaraglio sia le FF.AA. che la Nazione. 

In un contesto di disfattismo e d’irresponsabilità dei Capi, l’Esercito Italiano, rimasto privo di ordini chiari e di piani coordinati con gli Alleati, non poteva che sfaldarsi e dissolversi, pur se molte “grandi unità” erano ancora idonee al combattimento, per come dimostrato dai numerosi, ma slegati, episodi di valorosa resistenza o, addirittura, di vittoriosi scontri, per come avvenne in Corsica, in Epiro e in Egeo. 

Tale tesi è convalidata da quanto si può leggere in un rapporto successivamente redatto dall’Alto Comando Alleato: - “…mancando di chiare direttive, le Forze Armate Italiane non seppero reagire, ....i vaghi ordini di prima dell’Armistizio risentivano dell’indecisione di Badoglio che non fece nulla per predisporre piani e misure per una reale reazione antitedesca, ...pensava solo a guadagnare tempo sperando che gli Alleati frattanto occupassero Roma per proteggerlo, ...è chiaro che temeva un confronto militare con i Tedeschi”. 

Anche gli Alleati, come già detto, commisero eclatanti errori. Avvenne quindi l’irreparabile e già nel pomeriggio e nella serata dell’8 settembre avvenne il completo collasso delle istituzioni e dei centri decisionali, sia militari che civili. 

Nessuno era più in grado di fronteggiare gli eventi che stavano maturando mentre Badoglio, in perfetta sintonia con il Monarca e con i generali dello S. M., era ormai convinto che non rimanesse altra soluzione se non quella di tagliare la corda, principalmente per non andare incontro al rischio di finire in mano tedesca. 

Il Paese venne avviato, quasi con cinismo, verso la perigliosa china di una immane catastrofe che, come già detto, si sarebbe rivelata, alla fine, di gran lunga più grave di quella di Caporetto. 

Ma come venne architettata e organizzata la fuga ? Quelle fatidiche ore sono state ricostruite, minuto per minuto, per affidarle alla memoria di chi legge. Il tempo ha giudicato i responsabili ed ha emesso nei loro confronti la più gravosa delle sentenze: quella dell’ignominia e del tradimento. 

Scendere nei dettagli di ciò che avvenne in quelle frenetiche ore porterebbe ad addentrarsi in penosi risvolti. Una contenuta sintesi, viceversa, può essere utile per fornire un realistico quadro d’insieme, evidenziando solo i passaggi cruciali.

8 SETTEMBRE

ore 18: viene convocata al Quirinale una riunione alla quale partecipano, oltre al Re e Badoglio, Acquarone, Ambrosio, Sorice, De Courten e i Capi di S.M. dell’Esercito, Marina e Aviazione. Il Gen.le De Stefanis sostituisce Roatta che non è stato possibile rintracciare. La riunione si svolge in una atmosfera di palese tensione e d'apprensione. Il Duca Acquarone (Ministro della Real Casa) narra che Badoglio appariva “molto prostrato” e che il Re ascoltava “muto”. Non viene presa alcuna confacente decisione circa l’emergenza delineatasi dopo l’ultimatum inviato da Eisenhower. Badoglio rassegna la situazione e, alla fine, dopo essersi intrattenuto riservatamente con il Re, fa sapere che si recherà immediatamente alla sede della radio per annunciare "l’armistizio". La sua più grande preoccupazione, all'insegna del più desolante formalismo, era quella che Eisenhower, da Algeri, avesse potuto farlo prima di lui. Neppure per caso gli passò per la mente che, invece, avrebbe dovuto porsi, come fatto primario, l’evenienza della difesa della Capitale. Si esime dal prendere qualsivoglia decisione asserendo che : -“…i servizi d’informazione sono assolutamente all’oscuro dei movimenti dei reparti tedeschi”. Sembra assurdo, in ogni caso, che il Governo e lo Stato Maggiore non fossero a conoscenza dello schieramento attorno a Roma delle forze potenzialmente avverse. Attraverso gli interventi dei presenti, apparirà subito evidente che nessun collegamento funzionalmente operativo esisteva fra il Comando Supremo ed il Corpo d’Armata del Gen. Carboni, cui era affidata la difesa della Capitale. Nessuna notizia trapela, altresì, in merito all’intenso bombardamento notturno su Frascati, sede del Quartiere Generale del Feldmaresciallo Kesserling. Si apprenderà dopo che le bombe, pur avendo provocato migliaia di morti fra la popolazione civile, non hanno colpito la villa e l’albergo ove erano insediati i centri operativi del Comando tedesco. Ricorrente prerogativa dell’aviazione americana!

ore 20 : ultimati i frenetici preparativi, la famiglia reale e il suo seguito lasciano frettolosamente il Quirinale per trasferirsi in Via XX Settembre, presso il Ministero della Guerra, ritenuto un luogo più sicuro ove, alla meno peggio, trascorrono la notte;

ore 21,30: nessuno ancora sembra rendersi conto della gravità della situazione, anche perché Badoglio, dopo essersi recato all’ EIAR per leggere il saputo messaggio alla Nazione, che fra l’altro perentoriamente dispone l’immediata cessazione di “ogni atto di guerra contro gli Alleati…”, non rinuncia all’inveterata abitudine di andare a dormire presto, quasi che solo nel sonno riuscisse ad avere ragione delle pressanti angosce e forse della consapevolezza della sua insufficienza rispetto alle occorrenze del momento. Riesce a prendere sonno come se nulla d'irreparabile stesse accadendo.

9 SETTEMBRE

ore 4 : Badoglio viene svegliato dal suo aiutante maggiore per sottoporgli le novità allarmanti che giungono da varie parti. Tuttavia, nessuna specifica iniziativa viene presa al fine di accertare che cosa stessero facendo allo Stato Maggiore o che cosa stesse avvenendo presso il Comando del “Corpo d’Armata Corazzato” del Gen.le Carboni il quale, beato lui, risulta essere assente da Roma. 
Nel corso del processo celebrato a suo carico (1949) “per la mancata difesa di Roma”, si verrà a sapere che quella notte, tra l’8 ed il 9 settembre, si trovava ad Arsoli, sulla Tiburtina, in compagnia del figlio, capitano in servizio presso un reparto della zona, e di una attricetta impegnata nelle riprese del film “La Freccia nel fianco”;

ore 5 : Badoglio è in preda al suo unico pensiero che è quello di “porre in salvo il Re e la famiglia reale” e, ovviamente, se stesso; la Regina si dichiara d’accordo e chiede di affrettare i tempi della partenza; dopo circa un’ora, infatti, un lungo corteo di macchine lascia il Ministero e, attraversando Roma ancora immersa nel sonno, prende la via per Tivoli. Su una vettura “FIAT 2800” avevano preso posto il Re e la Regina. Appena prima, Badoglio aveva “ordinato” ad Ambrosio di seguirlo con tutto lo Stato Maggiore, senza riflettere che, in tal modo, avrebbe radicalmente reciso ogni collegamento con i reparti dipendenti (non è fuor di luogo ricordare che analoga cosa aveva fatto a Caporetto). Ambrosio fa notare a Badoglio che ci sarebbero “molte cose urgenti da fare” come quella, ad esempio, di impartire chiare disposizioni ai Comandi delle Grandi Unità sparse in mezza Europa, oltre che in Italia. Badoglio in un primo momento annuisce e sembra che si decida a tornare sui suoi passi. Poi, improvvisamente, cambia idea e dice: “è meglio che parta anch’io”. Sale sulla macchina di Acquarone (un’altra “FIAT 2800”) e, confermando ad Ambrosio l’ordine di seguirlo, ordina all’autista di precedere la macchina del Re. Il Principe Umberto è su un’ “Alfa Romeo 2500” mentre il codazzo di attendenti, camerieri e addetti, si distribuisce su due “FIAT 1500” e due “FIAT 1100”. In un furgone sono ammassati alla rinfusa i bagagli. Il “convoglio” attraversa via Napoli, via Nazionale, piazza Esedra, via Gaeta, Via Castro Pretorio, San Lorenzo, e si immette sulla “Tiburtina Valeria”. Niente e nessuno ostacola la marcia delle otto vetture. Vedi caso, tutte le vie consolari sono controllate da posti di blocco tedeschi, tranne appunto la“Tiburtina”. Lo storico Ruggero Zangrandi, a tal proposito, sostiene che Badoglio e Casa Savoia, prima di allontanarsi da Roma erano riusciti a “barattare” con Kesserling, oltre al tacito assenso a non difendere ad oltranza la Capitale, alcune importanti notizie che consentiranno la liberazione di Mussolini (avvenuta, infatti, il 12 settembre a Campo Imperatore, sul Gran Sasso), l'assicurazione di non essere “disturbati” lungo l'itinerario dalla Capitale a Pescara; 

ore 7 : il Ministero della Guerra rimane silenzioso e vuoto. I capi sono andati via tutti. Sembra che solo il Principe Umberto si fosse dichiarato contrario alla partenza. La frase, “...mio Dio che figura, …mio Dio che figura !”, da lui pronunciata in quel frangente, esprime il suo stato d’animo. Non ebbe però “ne la forza ne l’autorità” per contrastare Badoglio il quale, invece, testardamente ribadisce: -“..è necessario che di fronte agli Alleati la famiglia reale dimostri di essere unita..” Con tale dichiarazione giustificativa, che ovviamente coinvolgeva parecchi autorevoli personaggi, probabilmente voleva solo coprire la “sua” fuga ! 

Il Maresciallo d’Italia Enrico Caviglia che quel mattino casualmente si trovava a Roma, saputo della fuga del Re, commentò: -“non mi sorprendo di nulla, ...Badoglio (da lui a suo tempo definito “un cane da pagliaio che corre dove c'è il boccone più grosso”) avrà indotto il Re a tagliare la corda, ... così la responsabilità della propria fuga verrà diminuita, se non annullata, da quella del Re e della sua Famiglia”. Giunto a Pescara, prima di imbarcarsi, Umberto tentò ancora di ottenere l’autorizzazione per rientrare a Roma, ma il Re e Badoglio furono irremovibili; 

ore 13 : la radio, quasi avulsa da ciò che stava accadendo e ignorando il contenuto del “proclama” del giorno 8, trasmette l’ultimo “bollettino di guerra” dell’Alto Comando delle FF.AA, per l’esattezza il n°1201, il quale “comunica” che “sul fronte calabro reparti italo tedeschi con strenui combattimenti ritardano l’avanzata delle truppe britanniche…”. Si trattò solo uno scherzo di cattivo gusto della malfida burocrazia militare o era il mirato tentativo di mettere alla gogna l'apparato di comando? 

ore 16 circa: Badoglio reputa pericoloso un viaggio in aereo e opta per l’utilizzo delle due corvette “Baionetta” e “Chimera”, messe a disposizione dalla Regia Marina ad Ortona; sopraggiungono frattanto, alcune vetture stracariche di “pezzi grossi” fuggiti da Roma;

ore 23 circa: la corvetta “Baionetta” salpa alla volta di Brindisi. Il Re si adatta alle scomodità e al rischio del viaggio su quella piccola e insicura imbarcazione in funzione del fatto che vuole raggiungere al più presto “un lembo di territorio italiano in cui non ci siano ne tedeschi ne Alleati”.

Badoglio invece, come per sua natura eccessivamente timoroso, tenta di convincere il Monarca per recarsi in Sicilia (o addirittura in Tunisia) per porsi sotto la tutela degli Alleati. Afferma, senza alcun ritegno : -“..quì è in gioco la pelle di tutti” !

10 SETTEMBRE

ore 14,30: la corvetta “Baionetta” attracca al molo della Capitaneria di Porto di Brindisi. Il Re e Badoglio vengono ricevuti dall’Ammiraglio Rubartelli che, prontamente, li ospita nella palazzina del Comando Marina.

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CONCLUSIONE

L’impatto della “resa senza condizioni”, pur se camuffata da “armistizio”, fu tremendo e s'abbatté come un colpo di maglio sulla già provata Nazione italiana. Le conseguenze furono oltremodo gravi e assunsero proporzioni inimmaginabili che, vale la pena ribadire, furono di gran lunga peggiori, disastrose e sciagurate di quelle causate dalla pesante disfatta di “Caporetto” del 24 ottobre 1917. 

L’insicurezza, l’attendismo, l’incapacità di assumere adeguati comportamenti di fermezza e di chiarezza, portarono Badoglio a fare poco e nulla per scrollarsi di dosso almeno quelle responsabilità non a lui direttamente imputabili che, viceversa, erano da attribuire allo sprezzante e cinico atteggiamento degli Alleati, particolarmente del loro comandante militare, Eisenhower, ubbidiente e interessato portavoce di Roosevelt e Churchill. 

Nel convulso quadro delle tristissime giornate che vanno dal 25 luglio all’8 settembre 1943, concludendo, la colpevolezza del Governo Badoglio raggiunse lo zenit nel momento in cui non fu capace di gestire la situazione venutasi a creare con il “golpe” del 25 luglio. Evitando di mandare allo sbaraglio le FF.AA (particolarmente la quasi intatta FLOTTA D'ALTO MARE che in gran parte poltriva a La Spezia, Taranto e Trieste) predisponendo, quando ancora era possibile farlo, efficaci e idonei piani operativi in funzione dell’ormai imminente sganciamento dai Tedeschi. 

Circa un milione di uomini in armi (nei Balcani, in Grecia, nelle Isole del Dodecanneso, in Francia e in Corsica, in Sardegna e nel Nord Italia) furono abbandonati al loro destino, privi di direttive e, in molti casi, all’oscuro di ciò che stava per accadere. Nel corso delle affrettate trattative, portate avanti nelle sedi meno idonee e condotte da un militare non all’altezza del compito, non si tenne conto per nulla, ne da parte italiana ne da parte degli Alleati, del fatto che si stava per porre in gioco la vita di centinaia di migliaia di militari e di civili. 

Da parte italiana, oltretutto, non si seppe valutare neppure l’importanza dell’apporto militare offerto dagli americani per impedire che la Capitale cadesse in mano tedesca. All’uopo, erano stati inviati segretamente a Roma due loro alti ufficiali. L’offerta venne rifiutata, come più avanti evidenziato, per la codardia e la chiara incapacità di Badoglio e dei suoi Generali. 

Le menzogne di Badoglio & c.
Un emblematico episodio del clima di incapacità che in quei giorni caratterizzava l’apparato governativo e militare badogliano è senz’altro quello che vide protagonista il Gen.le Giacomo Carboni, ex Capo del S.I.M, in quel momento comandante del “Corpo d’Armata Corazzato” dislocato attorno a Roma. Dopo un lungo colloquio avuto con Badoglio s'assunse, con incoscienza e disinvoltura, il compito di incontrare il Brigadiere Generale Taylor - vice comandante della 82a divisione aviotrasportata statunitense - e il Col. Gardner della USAF. Giunti in incognito nella Capitale, tra il 6 e 7 settembre, dopo un avventuroso viaggio  dall’isola di Ponza (ove erano stati condotti da un sommergibile) e Gaeta , avevano l’incarico di concordare i piani per un eventuale intervento americano a fianco delle truppe italiane che avevano il compito di difendere la Capitale dai Tedeschi. Ciò per facilitare il previsto sbarco anfibio delle forze alleate nel Lazio. Il Gen.le Carboni asserì, presumibilmente su indicazione dello stesso Badoglio, che le Unità Italiane di cui aveva il comando “non erano pronte al combattimento e mancavano di carburante e munizioni”. Mentiva spudoratamente. Tale infondata asserzione, venne personalmente confermata, poco dopo, dallo stesso Badoglio che mirava ad ottenere un rinvio dell’annuncio della resa.  Il Gen.le Taylor, molto contrariato,  espresse al Col. Gardner il suo malumore pronunciando una lapidaria frase: - “it’s an awful jam ( tradotta in  italiano significa, testualmente,: …è un maledetto casino)”.


Si racconta che Badoglio ricevette gli emissari di Eisenhower nella sua villa di Via Bruxelles, dopo il colloquio preliminare da essi avuto a palazzo Caprara, nella sede dello Stato Maggiore. Si dice che non si fece scrupolo di farsi trovare in vestaglia da notte e confermò quanto già asserito dal Gen.le Carboni. Dal colloquio scaturirono le sue intenzioni che, come già detto, erano quelle di convincere gli Alleati ad accordare una proroga per l’annuncio ufficiale del cosiddetto “armistizio corto”, peraltro già firmato dal suo plenipotenziario Gen.le Castellano. L'insicura visione del quadro complessivo della situazione, portava Badoglio a escogitare ogni appiglio, anche asserendo il falso, per prendere tempo. Pur riconoscendo che tale scopo poteva essere ammissibile - magari per cercare di rimediare, almeno in parte, alle manchevolezze emerse e al tempo perduto, il metodo adottato era senz’altro puerile e insensato. Il risultato, totalmente difforme dagli scopi per i quali i due americani erano venuti a Roma, non fece che innescare, com’è noto, pesanti ripercussioni.  Prima fra tutte la drastica conferma della data dell’8 settembre, testardamente voluta e imposta da Eisenhower più per motivi propagandistici e politici che per necessità strategiche. Poi la grave decisione di annullare l’aviosbarco alleato (operazione “GIANT 2” che avrebbe dovuto essere condotta dalla 82° divisione paracadutisti del citato Gen.le Taylor) sugli aeroporti attorno a Roma (Furbara, Guidonia e Centocelle) e, infine, il reale pericolo di una eventuale ripetizione del bombardamento della Capitale. 

E’ opportuno aggiungere che l’infelice conclusione della vicenda armistiziale fece emergere il disinteresse per la sorte dell’incolpevole popolazione civile, sia da parte dei vertici istituzionali italiani che da parte dei futuri “cobelligeranti”.  Era più che pensabile, infatti, che, senza un pronto e adeguato intervento alleato, essa sarebbe andata incontro alle pesanti conseguenze dell’occupazione tedesca e alle eventuali indiscriminate rappresaglie !

Succube della riemergente “paura morale e fisica” e viepiù allarmato per avere avuto notizia che i Tedeschi volevano “tagliargli la gola”, Badoglio ripeté il copione di Caporetto. Nella foga di porre in salvo se stesso, non prese in considerazione la necessità d'impartire opportune direttive per tentare la doverosa quanto dignitosa difesa della Capitale. Come oggi è dimostrato dall’ampia documentazione emersa, era possibile attuarla ove fosse esistita una compagine militare e politica responsabile, coraggiosa e determinata. 

                                    Mancata difesa di ROMA

Nell’ “hinterland” romano, ai primi di settembre 1943, si trovano schierate - a parte il già menzionato “Gruppo Corazzato” (divisioni “Ariete”, “Piave” e Centauro”) - la Divisione “Granatieri di Sardegna”, le due “Costiere” di Anzio e Fiumicino, la “Piacenza” dislocata a Velletri. Erano anche operativi alcuni reparti delle Divisioni “Lupi di Toscana” e “Re”, da alcune settimane giunti da Tarvisio. Quell'ingente forza (circa 60/mila uomini) disponeva di buoni mezzi corazzati, di reparti motorizzati e di un buon numero di artiglierie semoventi e anticarro. Ove essa fosse stata tempestivamente e razionalmente impiegata, magari a fianco della 82° divisione aviotrasportata statunitense del Gen.le Taylor e di concerto con l’apparato militare Alleato (specie per la copertura aerea), quasi certamente sarebbe stata in grado non solo di proteggere la Capitale (sino al successivo massiccio intervento dei “liberatori”) ma anche di bloccare le vie di comunicazione, e quindi la logistica, fra lo schieramento tedesco del sud Italia e quello ancora in fase di organizzazione del Nord. A riprova di ciò sia l’“Oberkommand” (Comando Supremo tedesco) che il Feldmaresciallo Kesserling (Comandante del Gruppo “Forze Tedesche Centro Italia”, con sede a Frascati), pur se intenzionati a procedere all’arresto “per tradimento” del Re e di Badoglio, rimasero per parecchi giorni nella convinzione che non fosse cosa facile occupare militarmente Roma. 

I fatti hanno dimostrato, come già accennato, che non fu solo Badoglio a sbagliare (lui, essenzialmente, lo fece a fronte della congeniale citata “paura morale e fisica” ) ma, viepiù, sbagliò il Comando Alleato. Oltretutto, in quel momento, i Tedeschi erano ancora disorientati, sia perché ignari del caos, della confusione e del disfattismo che s'erano impadroniti dei centri di potere istituzionali oltre che dei Comandi militari Italiani e sia perché ritenevano troppo arduo, in un primo momento, un attacco militare frontale verso Roma. 

Tutto, invece, andò a rotoli per i motivi prima rassegnati e dai più alti gradi al semplice piantone  furono presi dalla frenesia di “squagliarsela al più presto”. La sopraggiunta notizia della codarda fuga del Monarca e del Capo del Governo, ovviamente, non fece che accrescere lo sbandamento.

La numerosa schiera dei “capoccia”,  dopo l’avventuroso viaggio lungo la “Tiburtina” e lungo le coste dell’Adriatico, era giunta, frattanto, a Brindisi. La pavida congrega badogliana, si diede subito da fare per mettere in piedi un surrogato di Capitale per il disastrato “Regno del Sud” (allora composto solo dalle Province di Lecce, Brindisi, Bari, Taranto e Foggia) e un “centro operativo” (la Caserma dei Sommergibilisti, nel porto di Brindisi) per il raffazzonato Governo-disertore, in gran parte costituito dagli stessi ambigui personaggi affiorati dal caos del 25 luglio 1943.

Nel rifugio di Brindisi, Badoglio, “intellettualmente spento”, ostenta la velleità di ricoprire la veste di unico "rappresentante legale" dell'ex Stato italiano ridotto al lumicino e si arrabatta, seppure con evidente difficoltà - anche in relazione all’insicurezza che deriva dall’inevitabile sottomissione alla "Commissione di Controllo" istituita dagli Alleati - per ripristinare una qual certa parvenza di Amministrazione statale.  Si dedica all’ordinaria amministrazione ma, data la circostanza della quasi assoluta mancanza di prestigio istituzionale e nazionale, riesce a fare ben poco e male nell'esercitare qualsivoglia resistenza nei confronti degli alleati e, pertanto, deve sottostare a compiti poco gradevoli. Deve, ad esempio, accettare e formalizzare il cosiddetto “armistizio lungo”, contenente talune clausole vessatorie a sua insaputa aggiunte, “con sotterfugio”, al testo del già drastico documento di Cassibile. Chi è causa dei suoi mali pianga se stesso e, pur avendo motivo di lamentarsi nei confronti degli Alleati, si dovette recare a Malta, il 29 settembre, a bordo dell’incrociatore “Scipione l’Africano” per sottoscrivere il testo del protocollo che sanciva la "resa senza condizioni" dell'Italia e il draconiano "Diktat" ad essa connesso. Fu sì accolto con cordialità, ma le buone maniere derivavano, più che altro, dalla sua constatata supina accondiscendenza alla impositiva linea di condotta adottata dagli Alleati verso la dimezzata e svalutata Italia monarchica da lui rappresentata. 

Aveva accettato, quasi con inconsapevolezza, di apporre la propria firma sul citato “diktat” reso maggiormente "duro" per espresso volere dell’Inghilterra di Churchill che, disinvoltamente, si permetteva di ripetere ad ogni piè sospinto l'invettiva di “deleta Italia”. Il grassone col sigaro in bocca seguitava a confondere, da spaccone, l’incoerente astio personale e politico verso la pseudo dittatura fascista con una inammissibile forma di avversione verso il popolo italiano, nella sua interezza. In base a tale arrogante mentalità, tipica del personaggio e della colonialista Nazione inglese (mentalità che ben poco gli è servita da scrupolo morale nell’accettare l’alleanza con il sanguinario Stalin) sosteneva che l’Italia dovesse rinunciare, per il presente e per il futuro, all’aspirazione di svolgere ruoli di primo piano nell’area del Mediterraneo, ritenuto, alquanto abusivamente, un privilegiato “feudo” inglese. 
In funzione di questa albionesca convinzione, Churchill si oppose acché le navi della ex flotta italiana, proditoriamente sottratte alla sovranità italiana e assegnate alla Russia sovietica, navigassero in Mediterraneo con equipaggi russi e issando bandiere con falce e martello. 

                                                            °°°°°°°°°°°°°°°°°°

Per concludere e per meglio giudicare l’ “improntitudine” del personaggio Badoglio, appare utile dare una scorsa ad un importante documento, pur se non pertinente con l'argomento trattato e pur se riferito ad un ben altro capitolo della sua lunga controversa carriera di presunto "condottiero". 

Il fatto risale al 18 novembre 1935 quando, a seguito dello sgambetto da lui furbescamente portato a compimento nei confronti dell'incolpevole e bonaccione De Bono, s'imbarcò a Napoli per avviarsi ad assumere, alle sue stesse dipendenze, essendo già - per sacra investitura - Capo di Stato Maggiore Generale di tutte  FF.AA. italiane, il Comando territoriale delle forze italiane in Africa Orientale, inviò il seguente telegramma a Mussolini:

- “Duce, nel lasciare l’Italia per raggiungere l’Eritrea, desidero esprimere a V.E. i sentimenti della mia profonda gratitudine per avermi dato modo di servire ancora una volta, agli ordini della Eccellenza Vostra, la causa dell’Italia Fascista nelle terre d’oltremare. 

L’opera felicemente iniziata sarà portata a compimento secondo la volontà Vostra e nello sforzo che unisce in un sol blocco di fede e di passione popolo, soldati e Camicie Nere” . 

In quell'occasione, la sfacciataggine dell’illustre Maresciallo,  ebbe a superare ogni limite di decenza. Ma l’episodio citato non induce solo all’ilarità. Porta ad esprimere un senso di commiserazione, di disistima, di repulsione verso il personaggio che per oltre un lustro influì su molti tragici e talvolta oscuri momenti della storia italiana!


Viagrande, settembre 2009

Augusto Lucchese

Testo tratto dalla monografia "Personaggi controversi della 2° Guerra Mondiale - Pietro BADOGLIO - Maresciallo d'Italia", dello stesso autore.

Ass. Socio-Cult. «ETHOS - VIAGRANDE»
Presidente Augusto Lucchese
e-mail: augustolucchese@virgilio.it