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SUD 1860, SINTESI DI UN ANNO INFAUSTO
CIÒ CHE LA STORIOGRAFIA UFFICIALE NON HA RACCONTATO
(DI ANGELO RUSSO)

 


 

 

 

Al di là degli stereotipi e delle suggestioni trasmessici dalla storiografia ufficiale, i tragici eventi del 1860 segnarono per il Sud, e per la Sicilia in particolare, l’inizio di un subdolo assoggettamento coloniale al Piemonte e, in genere al Nord Italia, che prosegue tutt’ora.

Col pretesto dell’unificazione dell’Italia, il Piemonte si arrogò allora il diritto di conquistare il Sud con un’atroce guerra mai dichiarata.

Per giustificare l’invasione inventò tutta una serie di menzogne, che tutt’ora
leggiamo nei libri ufficiali di storia, che ledono la dignità di una Terra e di un Popolo che furono faro di civiltà e cultura nel Mediterraneo. In assenza di una riparatrice revisione storica ufficiale, colpevolmente mai attuata, è bene far conoscere su questi eventi la verità che emerge dagli studi di giornalisti e storici basati sulla documentazione dell’epoca rinvenuta negli archivi storici.
Tutto era cominciato col famoso sbarco dei Mille a Marsala nel 1860.
Una così esigua e disomogenea armata di volontari, seppure guidati dal mitico avventuriero francese (come lui stesso si definirà in fin di vita in una lettera al Goldoni) Giuseppe Garibaldi, è chiaro che nessuna prospettiva di successo avrebbe potuto avere contro il Regno delle Due Sicilie
che disponeva della terza flotta bellica più potente del mondo di allora e di un regolare esercito di oltre 100mila uomini ben equipaggiati ed addestrati, di cui circa 25mila di stanza in Sicilia.
D'altronde, altre simili avventure, benché tentate da più esigue forze ad opera dei fratelli Bandiera e di Carlo Pisacane, avevano avuto nel 1844 e nel 1857 in Sila ed a Sapri un epilogo catastrofico.

Lo stesso Garibaldi era ben consapevole di tutto questo ed esitò più volte prima di avventurarsi nell'impresa.

Ma la posta in gioco era il completamento del progetto unitario d'Italia per la cui
realizzazione, dopo l’avvenuta annessione degli Stati continentali, restavano da acquisire solo gli Stati pontifici, il Regno delle Due Sicilie e Venezia. Di questi, lo Stato più ambito era certamente il Regno delle Due Sicilie. Questo, nell’Italia smembrata dell’epoca preunitaria, era uno Stato libero, sovrano e ben strutturato. Era certamente il più esteso territorialmente ed il più popoloso d’Italia contando nel 1860 poco più di un terzo di tutta la popolazione della Penisola, e competeva per dignità, cultura, ricchezza, industrie e commercio con le maggiori potenze internazionali costituite allora da Inghilterra, Francia, Austria, Russia e dalla emergente Prussia, fra le quali si poneva ai primi posti (alcuni storici lo ponevano al terzo posto) come paese industrializzato con primarie industrie in tutti i settori e specialmente in quelli metalmeccanico, siderurgico, tessile, cantieristico, estrattivo, conciario, del corallo, dei vetri e delle porcellane.

Le miniere di zolfo siciliane – il petrolio di allora – erano ritenute le più importanti del mondo e arrivarono a coprire il 90% della produzione mondiale.

Nel 1861 lo stabilimento tessile di Sarno risultò essere il più grande d'Italia
nella produzione del lino.

La cartiera di Fibreno era la più grande d'Italia con 500 operai ed una delle più note d'Europa. Il cantiere navale di Castellammare di Stabia, con 1.800 operai, era il primo d’Italia per grandezza e costituiva l’eccellenza mondiale per la fabbricazione di navi da guerra.

Il complesso siderurgico di Mongiana, in Calabria, era il primo produttore in Italia di materia prima e semilavorati per l’industria metalmeccanica.
Nel Sud esistevano circa 100 industrie metalmeccaniche di cui 15 avevano più di 100 addetti e 6 più di 500, a Pietrarsa, in Campania, era attiva la più grande industria metalmeccanica d’Italia,
all’avanguardia europea nelle costruzioni ferroviarie, estesa su una superficie di 34mila metri quadri, l’unica in grado di costruire motrici navali, e dove il 19 giugno 1836 fu finita di costruire la prima locomotiva italiana.

Essa contava 1050 operai contro i 480 dell’altra grande industria
metalmeccanica italiana l’Ansaldo di Genova.
Riferisce Riccardo Scarpa nel suo libro “Nordici e Sudici”, Diana edizioni, che al primo censimento fatto dal Regno d’Italia all’indomani dell’unificazione, si registrò che nell’ex territorio borbonico il numero complessivo di occupati dell’industria era pari a un milione e 189mila, mentre sommando gli operai di Lombardia, Piemonte e Liguria, non si arrivava che a 810mila.
Oltre alla terza flotta bellica più potente d’Europa il Sud possedeva una poderosa flotta mercantile che deteneva i 4/5 del naviglio italiano ed era la quarta d’Europa, ne facevano parte più di 9800 bastimenti per oltre 250mila tonnellate. Nel 1818 fu varato il primo mezzo navale a vapore al mondo capace di navigare in mare.

La prima nave italiana ad arrivare a New York fu nel 1854 la meridionale “Sicilia”.
L’agricoltura era la prima fonte di esportazione con l’olio di oliva in testa, seguita dalla produzione tessile di cotone, lana e seta.
Il commercio era florido e prometteva ulteriore incremento data la posizione strategica della Sicilia nel Mediterraneo posta sulla rotta per il canale di Suez che da lì a poco (1859-1869) sarebbe stato aperto.
Lo Stato borbonico era notevolmente ricco ed emetteva solo monete in oro e argento le quali avevano un valore reale pari a se stesse in quanto la quantità d’oro o d’argento in esse contenute avevano pressoché valore uguale a quello nominale. Anche nel commercio gli scambi avvenivano con simili monete che, quindi, erano in circolazione in notevole quantità (Nicola Zitara calcola in cinquecento milioni di pezzi le monete d’oro e d’argento circolanti nel Regno borbonico).
Il Regno delle Due Sicilie era, dunque, uno Stato ricco, dall’economia solidissima, con molti primati (vedi elenco in calce) e tesori, ed era all'avanguardia nei più svariati settori. Era ritenuto, insomma, uno dei più floridi, progrediti, ricchi, colti (la reggia di Caserta era la più ambita dopo quella di Versailles) e forti d’Europa, nonché proteso verso lusinghiere prospettive di ulteriore crescita economica.
Si comprende, quindi, come nelle mire espansionistiche del regno sabaudo, il Piemonte, che per le ingenti spese sostenute per la politica bellicosa ed espansionistica del Cavour (che aveva fatto tre guerre in dieci anni) emetteva moneta di carta non convertibile in oro ed era sull’orlo della bancarotta per l’enorme debito pubblico contratto, ritenesse preminente mettere le mani sul Regno delle Due Sicilie le cui ricchezze e potenzialità avrebbero potuto evitare il suo tracollo finanziario.
Basti pensare, come riferisce il quotidiano “Il sole 24 ore” dell’11 gennaio 2015, che il Banco delle Due Sicilie custodiva riserve auree per un miliardo e 200 milioni di lire contro i 20 milioni del Regno Sabaudo (queste valutazioni variano da testo a testo in base alla valuta della lire dell’epoca di riferimento).

L’occupazione, però, doveva apparire come una spontanea annessione del Regno
delle Due Sicilie al Piemonte per evitare, nonostante la neutralità di Napoli, l’innescarsi di eventuali interventi militari esterni conseguenti all’intricato sistema di alleanze allora esistente che avrebbe potuto compromettere il fragile equilibrio geopolitico dell’Europa.
A questo programma lavorava da tempo il primo ministro piemontese Camillo Benso Conte di Cavour tentando di ottenere con la diplomazia e la corruzione la “spontanea” annessione al Piemonte del Regno delle Due Sicilie.

Per raggiungere tale scopo aveva ottenuto il benestare degli inglesi che tanti interessi vantavano nel Mediterraneo e in Sicilia, che erano delusi del re borbonico restio a ripristinare una linea politica più liberale dopo i moti siciliani del 1848, e che erano pesantemente esposti con le banche piemontesi per cui erano interessati a che il Piemonte si accaparrasse le ricchezze del regno borbonico. Inoltre il Cavour aveva inviato nel Regno delle Due Sicilie i propri sicari per il sostegno dei movimenti liberisti, la destabilizzazione politica e la corruzione di funzionari, dignitari, ufficiali e generali borbonici. Ma le spinte liberiste per un intervento militare divennero incontenibili e Giuseppe Garibaldi divenne il punto di riferimento e ne fu coinvolto.

Crispi e Bixio prepararono la spedizione, la Società Nazionale mise a disposizione
mille fucili, il colonnello Colt mandò dall’America cento delle sue famose pistole, gli arsenali Ansaldo misero a disposizione le loro munizioni e la società Rubattino noleggiò le due navi Piemonte e Lombardo (che, guarda caso, se beneficiario fu indicato nel contratto Giuseppe Garibaldi, garanti del debito furono però il re sabaudo e il suo primo ministro Cavour) che avrebbero trasportato i volontari ormai ammassati a Genova e smaniosi d’imbarcarsi. Non c’era più spazio per le manovre diplomatiche del Cavour e l’intrepido Garibaldi, rassicurato da lui da
garanzie di segreto supporto logistico, economico e militare e dalla notizia fasulla del successo della insurrezione divampata in Sicilia in attesa del suo arrivo, il 6 maggio 1860 salpò per la Sicilia con i suoi 1089 volontari che l’11 maggio sbarcarono nel porto di Marsala.
La spedizione fu concepita e divulgata come se fosse l’iniziativa autonoma di Garibaldi di cui il Piemonte fosse all’oscuro. Ma ciò contrasta con la frenetica attività del Piemonte a sostegno dei “Mille”.

Nell'ombra organizzò un corpo di spedizione costituito da mercenari di varie nazioni nonché da soldati e carabinieri piemontesi. Per le relative spese e per la massiccia campagna di  corruzione di funzionari, dignitari e militari borbonici, “convertiti” alla causa unitaria sia prima sia durante la spedizione, il Piemonte raccolse ben cinque milioni di franchi oro (oggi circa 25-30 milioni di Euro), di cui tre provenienti dalle logge massoniche (di cui faceva parte il Garibaldi) inglesi, americane e canadesi. Consapevolmente o no la strada per un intervento militare era stata già spianata dal Piemonte e ciò consentì a Garibaldi, seppure in modo fortunoso, avventuroso e non pianificato, con la complicità di navi e notabili inglesi, appoggiato da baroni latifondisti e dai loro picciotti nonché da volontari arrivati da ogni dove e da una legione ungherese formata con decreto del 16 luglio 1860, agevolato da defezioni e tradimenti programmati di generali e flotta borbonici, di conquistare la Sicilia e l’intero Regno delle Due Sicilie con una guerra lampo.
Perché di guerra si trattò, di una guerra di conquista mai dichiarata, subdola e cruenta che con tutte le sue atrocità e conseguenze sconvolse le genti e la storia del Sud e rappresentò forse la pagina più buia dell’intero Risorgimento di cui la storiografia ufficiale non parla.

Questo è l’aspetto tragico di quel periodo che si intende evidenziare perché condizionò la vita, l’attività e l’economia del popolo del Sud, e della Sicilia in particolare, con effetti che si sono protratti fino ad oggi.
L’attacco piemontese, benché già trapelato nella diplomazia napoletana, colse di sorpresa il ventitreenne inesperto e timido Francesco II, da poco succeduto al padre Ferdinando II.
Quest’ultimo, essendosi sentito sicuro nel suo regno difeso per tre lati dal mare e dalla sua portentosa flotta bellica e da nord dai buoni rapporti con lo Stato Vaticano, aveva ultimamente praticato una politica isolazionistica.

Cosicché il figlio Francesco II, pur diplomaticamente isolato, continuò a sentirsi sicuro nei confini del suo regno e, poiché era imparentato con l’imperatore austriaco per via della moglie Maria Sofia sorella dell’imperatrice Sissi, rifiutò un’alleanza con il Piemonte offertagli dal diplomatico Ruggero Gabaleone, conte di Salmour, inviatogli dal Cavour per convincerlo ad entrare in Guerra contro l’Austria. Questa offerta del Piemonte fu, forse, l’ultima occasione per la dinastia borbonica di salvare se stessa e soprattutto il popolo meridionale da un’annessione forzata al Piemonte.

Infatti il conte di Salmour così scrisse al suo primo ministro
Cavour: “Almeno per il momento l’alleanza con Napoli è impossibile, poiché, vista la situazione
esterna e lo stato dei partiti all’interno, il Re e il governo si sentono perfettamente rassicurati.

Il solo e unico modo di arrivare al nostro scopo è di agire qui come nelle altre parti d’Italia, ossia di provocare la caduta della dinastia e l’acclamazione di Vittorio Emanuele”.

Cavour dirà: “… Quello che noi vogliamo e che faremo è impadronirci dei suoi Stati”. E così fece approfittando della debolezza e dell’isolamento del nuovo re borbonico nonché della complicità e copertura
dell’Inghilterra insoddisfatta della linea totalitaria assunta dal Regno delle Due Sicilie dopo i moti siciliani del 1848, risentita per la concessione negata delle ricche miniere di zolfo della Sicilia in favore della Francia e interessata alla caduta del regno borbonico che costituiva il maggiore concorrente commerciale nel mar Mediterraneo dove essa avrebbe potuto maggiormente dominare
nella favorevole prospettiva dell’imminente apertura del canale di Suez e contrastare l’invadenza francese.
Nel marzo di quell’anno 1860, purtroppo, al dimissionario settantacinquenne presidente del Consiglio e ministro della Guerra duosiciliano Carlo Filangieri, militare e politico di primissimo livello, gli erano succeduti l’ottantenne siciliano Antonio Statella, principe di Cassaro, e l’ottantaduenne nuovo ministro della Guerra generale Francesco Antonio Winspeare, mentre agli Esteri andò Luigi Carafa, incapace di qualsiasi iniziativa.

Questo nuovo entourage non fu in grado di fronteggiare l’incursione piemontese, di contrastare la corruzione di generali, ammiragli e funzionari già venduti al nemico, né di arginare l’appoggio all’invasore da parte dell’aristocrazia siciliana.

Per quest’ultima si trattava della resa dei conti nei confronti dei Borbone per l’ingiustizia subita l'8 dicembre 1816 a seguito della drastica liquidazione del Parlamento siciliano, della sospensione della Costituzione dopo i moti siciliani del 1848 e, più ancora, della politica antifeudale avviata dallo Stato napoletano che, alla fine degli anni trenta, fece persino balenare l’eventualità di una temuta riforma agraria.
Per quanto riguarda i vertici militari borbonici allettati da promesse finanziarie e di rango da parte degli emissari piemontesi e dello stesso Garibaldi, un esempio di defezione è evidenziato dallo
storico Giacinto De Sivo il quale riferisce della morte per colpo apoplettico del generale Francesco Landi per essersi accorto al Banco di Napoli, nel marzo del 1861, che Garibaldi gli aveva dato una fede di credito contraffatta che anziché del valore promesso di quattordicimila ducati ne valeva solo quattordici. Per tale compenso il generale, fra l’altro, nonostante il dissenso e la protesta dei soldati,
non aveva inviato rinforzi e, anzi, aveva fatto suonare la ritirata alle sue truppe mentre stavano per sconfiggere i garibaldini a Calatafimi, regalando così una vittoria determinante a Garibaldi.

Sullo Stretto di Messina la flotta borbonica lasciò deliberatamente libero un corridoio per permettere ai garibaldini di attraversarlo alla spicciolata senza essere intercettati.

In Calabria, poi, non si combatté neppure perché il generale Fileno Briganti non affrontò i garibaldini ritirandosi; ma nei pressi di Mileto (Catanzaro) egli fu intercettato dai suoi soldati che, per l’evidente tradimento, lo fucilarono.
Il tramite di queste operazioni di corruzione fu il contrammiraglio sardo Carlo Pellicon che, come riferisce Roberto Martucci nel suo libro “L’invenzione dell’Italia unita” edito da Sansoni, “…disponeva di un fondo spese ammontante all’enorme somma di un milione di ducati (circa 16 milioni di €) destinati alla corruzione degli ufficiali borbonici”. Dirà Paolo Mieli, in “La Stampa” di domenica 9 luglio 2000, pag.19: “... a Francesco II non mancavano argomenti per sostenere che
il nemico Garibaldi non era arrivato a Napoli con mezzi leali, spada contro spada, petto contro petto, bensì soltanto grazie ad un’incredibile serie di voltafaccia, di cambiamenti di campo, di vigliacche fughe dei capi militari, di vendita delle proprie navi da parte di comandanti della marina, e ancora di abbandoni dei soldati al loro destino e di inconcepibili dimostrazioni di incompetenza” .
Fu così che Garibaldi poté dilagare con le sue truppe per tutto il regno e, dopo appena 119 giorni dallo sbarco a Marsala, giungere a Napoli il 7 settembre 1860, mentre il re borbonico già dal giorno 5 si era rifugiato a Gaeta.

Il Regno delle Due Sicilie era già stato conquistato, salvo le roccaforti di Gaeta che capitolerà il 13 febbraio 1861, di Messina e Civitella del Tronto che si arrenderanno rispettivamente il 13 ed il 20 marzo 1861.
Con il decreto del 15 ottobre Garibaldi dichiarava che “Le Due Sicilie fanno parte integrante dell’Italia, una e indivisibile, con il suo re costituzionale Vittorio Emanuele e i suoi discendenti”.
L’8 ottobre il governo piemontese emise un decreto che indiceva per il giorno 21 ottobre 1860, a Napoli e in tutto il Sud continentale, un plebiscito a suffragio universale maschile per ratificare l’annessione al Piemonte del Regno delle Due Sicilie già precedentemente decretata dal parlamento sabaudo e dal senato rispettivamente l’11 ed il 16 ottobre di quell’anno.
La consultazione, tenuta in forma palese ed in un clima intimidatorio e privo di garanzie, ebbe scarsissima affluenza e un successo prossimo al 100% (in Sicilia i voti validi furono 432.720 col 99,85% di SI e 0,15% di NO mentre in tutto il Regno delle Due Sicilie i voti validi furono 1.312.376 con il 99,22% di SI e lo 0,78% di NO, ma in alcuni seggi si ebbe fino al 120% di SI segno inequivocabile di brogli).
Nel clima in cui furono svolte le votazioni un plauso va certamente ai temerari che votarono NO.
Il plebiscito fu ritenuto necessario dal governo piemontese non certo per un atto di democrazia nei confronti del popolo duosiciliano ma per giustificare all’esterno, nei confronti degli altri Stati europei, il suo intervento militare facendolo apparire non come illecita azione espansionistica del suo regno ma come appoggio all’anelito di libertà di un intero popolo confermato dall’esito plebiscitario.

Ma anche nei confronti dello Stato occupato e degli altri Stati italiani, il plebiscito è stato ritenuto necessario per ottenere una legittimazione popolare alla sovranità piemontese sui terreni occupati ed a tutti gli atti conseguenti come la repressione degli insorti, la tassazione per gli oneri di guerra e l’imposizione del sistema piemontese.
“La consultazione popolare si svolse nella più completa assenza di segretezza, il voto, infatti, era pubblico e si svolgeva nelle piazze, negli edifici pubblici, nelle chiese: tre urne erano in bell’evidenza, due erano aperte e contrassegnate con le scritte “Sì” e “NO” a caratteri cubitali e contenevano le schede prestampate, un'altra era chiusa con la feritoia al centro; il votante doveva per prima cosa consegnare il certificato elettorale al presidente del seggio, ritirare la scheda estraendola dall'urna del " Sì " o da quella del "NO" e deporla nell'urna centrale dipinta col tricolore; le schede prestampate, chiamate ufficialmente “bullettini”, erano di colore diverso: bianco per i “NO” e rosa per i “SÌ” …..… Il 27 ottobre, l’onnipotente Inghilterra, per mano del suo ministro degli esteri Russel, dà l’imprimatur all’invasione piemontese tramite un dispaccio indirizzato ufficialmente a sir James Hudson, ambasciatore inglese a Torino, uno dei pochi rimasti nella capitale sabauda dopo che quasi tutti i rappresentanti diplomatici europei si erano ritirati per protesta contro l’illegale invasione militare. In realtà esso era diretto alle altre potenze europee e, avvallando l’azione piemontese, le diffidava indirettamente dall’intervenire perché “il governo di Sua Maestà non vede motivi sufficienti per partecipare alla severa censura che l’Austria, la Francia, la Prussia e la Russia hanno inflitto all’operato del re di Sardegna … piuttosto preferisce volgere lo sguardo alla lusinghiera prospettiva di un popolo che costruisce l’edificio della sua indipendenza“. (Dal libro “Il Sud e l’Unità d’Italia” di Giuseppe Ressa liberamente scaricabile dal sito Internet “Brigantino-il Portale del Sud”).
Ottenuto con facilità il suo scopo, Garibaldi tradì le promesse fatte per ottenere il consenso popolare, ed il malcontento dilagò ovunque sfociando in tumulti che furono violentemente repressi
con raccapriccianti eccidi.
La rivolta di Bronte, conseguente alla mancata distribuzione delle terre demaniali che Garibaldi aveva promesso col suo decreto del 2 giugno 1860, fu quella più eclatante perché sedata in modo esemplare con processi sommari e conseguenti eccidi da un battaglione di garibaldini agli ordini del genovese Nino Bixio. Ma la rivolta, con relativa cruenta repressione, infiammò anche Francavilla, Castiglione, Linguaglossa, Randazzo, Maletto, Cesarò, Centorbi e Regalbuto, come testimonia il proclama del 9 agosto di Nino Bixio. Ed ancora Trecastagni, Linguaglossa e Pedara, per restare nei dintorni del territorio etneo.
In seguito, passato il testimone dall’esercito garibaldino all’esercito regolare piemontese che trattò il Sud come bottino di guerra, anche tante altre cittadine e borgate siciliane furono teatro di massacri ed esecuzioni sommarie, fra cui quelli agli ordini del generale Enrico Cialdini. A Castellammare del Golfo, insieme ad altre persone, il 3 gennaio 1862, vennero fucilati anche un sacerdote, tale Benedetto Randisi, e persino una bambina di soli 9 anni di nome Angela Romano.
Scrisse Giacinto De Sivo nel 1868: “I piemontesi incendiarono non una, non cento case, ma interi paesi, lasciando migliaia di famiglie nell'orrore e nella desolazione; fucilarono impunemente chiunque venne nelle loro mani, non risparmiando vecchi e fanciulli”.
Il malumore della maggior parte della popolazione si trasformò presto in odio dopo l’introduzione della nuova leva militare obbligatoria, di cui la Sicilia era prima esentata, ed il conseguente massacro dei renitenti - spesso inconsapevoli – ad opera del Generale Govone in esecuzione della legge Pica.
La cosiddetta “campagna di liberazione del Sud” nel segno dell’Unità d’Italia si rivelò una vera devastazione della Sicilia e del Meridione con 37 paesi rasi al suolo, 15.665 persone fucilate, 20.000 morti in combattimento, circa 40.000 persone rimaste senza tetto; 47.700 giovani militari che rifiutarono di indossare la divisa del nuovo Stato furono incarcerati per motivi politici e deportati alla spicciolata o in massa nelle carceri della fortezza di Fenestrelle e di San Maurizio Canavese in Piemonte.

Più che carceri questi furono veri e propri lager, campi di concentramento ubicati in alta montagna ove moltissimi prigionieri furono fatti morire di freddo, di fame e di stenti ed i cadaveri disciolti, “per motivi igienici", in una grande vasca di calce viva senza essere nemmeno registrati da nessuna parte, come riferiscono in molti ed in modo assai documentato Fulvio Izzo in “I lager dei Savoia” e Lorenzo Del Boca in “Maledetti Savoia”. Fu un vero e proprio vergognoso sterminio su cui è stato imposto il silenzio e il divieto di fare giustizia!
Vennero espoliate le casse delle banche e dello Stato duosiciliano, acquisite al patrimonio piemontese le imponenti flotte bellica e commerciale borboniche, e confiscati i beni ecclesiali.
Coloro che non si adeguarono al nuovo regime vennero ritenuti ribelli ed assimilati ai banditi e come tali trattati e perseguiti.
Lo stesso Garibaldi, che era un massone conclamato presso la società segreta “Libero Muratore”
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(scomunicata più e più volte dalla Chiesa Cattolica), il quale già nelle sue “Memorie” diceva di
agire con mezzi poco ortodossi pur di vincere (la sua massima era “l'unico bravo generale è colui
che vince”), resosi conto solo a posteriori dei danni arrecati al Sud, così scriveva nel 1868 in una
lettera privata ad Adelaide Bono Cairoli: “Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono
incommensurabili. Ho la coscienza di non aver fatto del male, nonostante ciò non rifarei la via
dell’Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore
e suscitato solo odio”.
E, poco prima di morire, il 31 maggio 1882, in un barlume di coscienza Garibaldi, spogliandosi
della veste d’eroe, confessò in una lunga lettera allo scrittore Carlo Lorenzini, noto come Carlo
Goldoni, il suo rimorso verso tutte le ingiustizie che vennero perpetrate nel nome di un’Italia “…
che non fu mai e mai sarà la mia patria … che mai amai come avrei potuto” scrisse, precisando che
“… Mi chiamo Joseph Marie Garibaldì e, contrariamente, a quanto pensano molti, sono e mi sento
francese…“. Così proseguendo “… Se vi aspettavate un patriota, troverete un avventuriero …. Se vi
aspettavate un probo, troverete un dissoluto…. La spedizione dei mille fu realmente la più vile
porcata che il suolo della penisola possa aver mai vissuto e, a questo punto, spero che mai sia
costretta a rivedere… La mia vita era rivolta alla ricerca di fama e ricchezza: mi venne in mente di
unificare l’Italia in quanto sarei potuto diventare potente e ricco…. Cercai appoggi, soldi e falsi
ideali su cui far leva e trovai qualcuno che, dopo avermi usato, mi mise da parte…. Mi ricordano
tutti come il patriota Giuseppe Garibaldi, ma queste sono voci, magari leggende, ma certamente
menzogne…. l’Italia del Nord depredò l’Italia del Sud con atti di ferocia tale che mai potrà essere
cancellata ed ancora accade mentre sto scrivendo…» (dal libro . “ LE CONFESSIONI DI JOSEPH
MARIE GARIBALDI' ” di Francesco Luca Borghesi, edizione Minamon).
Questi riconoscimenti postumi di Garibaldi certo non lo riabilitano agli occhi di noi meridionali,
confermano solo l'efferatezza delle sue azioni e delle sue milizie offuscando l’immagine mitica che
di lui i vincitori piemontesi e lo Stato italiano hanno rappresentato nei libri di storia scolastici.
Lo stesso Vittorio Emanuele II, dopo essersene servito per i suoi scopi, abbandonò Garibaldi di cui
non aveva alcuna stima, come si evince dalla lettera che inviò al Cavour in quella occasione: “Come
avrete visto, ho liquidato rapidamente la sgradevolissima faccenda Garibaldi, sebbene, siatene
certo, questo personaggio non è affatto docile, né così onesto come si dipinge e come voi stesso
ritenete. Il suo talento militare è molto modesto, come prova l’affare di Capua, e il male immenso
che è stato commesso qui, ad esempio l’infame furto di tutto il danaro dell’erario, è da attribuirsi
interamente a lui che s’è circondato di canaglie, ne ha eseguito i cattivi consigli e ha piombato
questo infelice paese in una situazione spaventosa“ (Riportata nel libro “Il Sud e l’Unità d’Italia” di
Giuseppe Ressa).
All’invasione seguirono l'imposizione di nuove monete, di nuove misure, di nuovi pesi, di nuove
tasse, di nuove leggi, di nuovi funzionari, di nuovo linguaggio, di diversa cultura, ecc. imponendo al
popolo del Sud un cambiamento radicale svuotandolo della sua identità, dei suoi valori, della sua
cultura e dei suoi beni, in sintesi privandolo della sua memoria. E' stata, cioè, attuata quella strategia
che Milan Kundera più tardi, per altri eventi, così descrisse: “Per liquidare un popolo si comincia
con il privarli della memoria. Si distruggono i loro libri, la loro cultura, la loro storia. E qualcun
altro scrive loro altri libri, li fornisce di un'altra cultura, inventa per loro un'altra storia”.
I forti dazi doganali imposti al Sud a favore delle neo industrie del Nord foraggiate con le ricchezze
sottratte al Meridione, determinarono il progressivo fallimento delle industrie del Sud che, come ho
riferito, erano fra le più importanti e fiorenti d'Europa. Stessa fine fecero i maggiori opifici. Venne
deliberatamente smantellato l'apparato industriale del Meridione e soffocata la borghesia
imprenditoriale del Sud. “I meridionali non dovranno mai essere più in grado di intraprendere”
decretò Carlo Bombrini, Governatore della Banca Nazionale del Regno d'Italia dal 1861 al 1882. Il
Sud, infatti, doveva servire solo come colonia consumatrice dei beni che solo il Nord doveva
produrre. Il governo piemontese, infatti, adottò nei confronti dell’ex Regno delle Due Sicilie una
politica predatoria di mero sfruttamento di tipo “colonialista” tanto da fare esclamare al deputato
Francesco Noto nella seduta parlamentare del 20 novembre 1861: “Questa è invasione non unione,
non annessione! Questo è voler sfruttare la nostra terra come conquista. Il governo di Piemonte
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vuol trattare le province meridionali come il Cortez ed il Pizarro facevano nel Perù e nel Messico,
come gli inglesi nel regno del Bengala”. E Luigi Einaudi ammetterà: “Si è vero, noi settentrionali
abbiamo contribuito qualcosa di meno ed abbiamo profittato qualcosa di più delle spese fatte dallo
Stato italiano, peccammo di egoismo quando il settentrione riuscì a cingere di una forte barriera
doganale il territorio e ad assumere così alle proprie industrie il monopolio del mercato
meridionale”.
L'imposizione del decimo di guerra e di nuove tasse e balzelli impoverì tutte le famiglie e
l'introduzione della lunga leva obbligatoria, di cui la Sicilia era prima esentata, le privò, per la lunga
ferma (da 4 a 8 anni), delle braccia dei giovani per lavorare la terra o per condurre le aziende di
famiglia.
Tutte queste cose misero in ginocchio l'economia locale e determinarono una diffusissima
disoccupazione e la conseguente biblica emigrazione dal Sud prima inesistente.
La lunga leva obbligatoria determinò, inoltre, un altro esodo, ma verso la macchia. Molti furono,
infatti, i giovani renitenti chi per necessità, chi per convinzione, chi semplicemente per ignoranza,
che furono spinti a nascondersi nelle foreste dalla famigerata legge Pica che dava loro la caccia e
che, pare, abbia fatto circa 60.000 vittime. Tanti di questi giovani andarono ad infoltire i partigiani
della resistenza che i piemontesi bollarono col marchio di briganti.
La concomitanza di questi eventi spopolarono i nostri territori ed in particolare le campagne. E non
perché nelle campagne del sud la classe agricola stesse peggio di quella del nord, come ci è stato
fatto credere dalla storiografia ufficiale determinando una falsa opinione diffusa. Infatti, negli “Atti
della giunta per l'inchiesta agraria sulle condizioni della classe agricola”, con riferimento agli
agricoltori del sud, si legge: ”In generale le condizioni dei lavoratori della terra sono meno infelici
di quelle di alcune province del settentrione”.
E persino un ufficiale piemontese, il conte Alessandro Bianco di Saint-Joroz, capitano di Stato
Maggiore Generale, sempre con riferimento alla popolazione del Sud, scrisse nel 1864 che “Il 1860
trovò questo popolo del 1859, vestito, calzato, industre, con riserve economiche. Il contadino
possedeva una moneta e vendeva animali; corrispondeva esattamente gli affitti; con poco
alimentava la famiglia; tutti, in propria condizione, vivevano contenti del proprio stato materiale.
Adesso è l'opposto … “, come riporta Giuseppe Ressa nel suo libro “Il Sud e l'unità d'Italia”.
Stando a queste ed a tante altre testimonianze esaminate, risulta che le popolazioni del Sud,
anteriormente al 1860, non è vero che stessero peggio delle altre d'Italia, come invece hanno
propagandato e fatto credere i vincitori piemontesi per giustificare la loro invasione. I contadini del
Meridione erano ben radicati nel territorio dove “vivevano contenti del proprio stato materiale” e
non erano per nulla propensi all'emigrazione che, infatti, era del tutto inesistente.
Dopo il 1860 tutto cambiò, purtroppo, in peggio.
I Meridionali, per quanto soggiogati dai Borbone, dall'orgoglio di vivere in uno Stato fra i più
progrediti, intraprendenti, colti e ricchi d'Europa, sono passati alla mortificazione di essere
considerati dai nuovi colonizzatori piemontesi come persone incivili, emarginate, inette, rozze e di
essere generalizzati come meridionali briganti: così la storia ufficiale, quella scritta e tramandata dai
vincitori e dai giornalisti da loro prezzolati, li ha stigmatizzato.
Dirà Antonio Gramsci: “Lo stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco
l'Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che
scrittori salariati tentarono d'infamare col marchio di briganti”.
E Paolo Mieli sul quotidiano “La Stampa” del 19 maggio 2001: “La stagione risorgimentale e post-
risorgimentale è fatta di migliaia di morti, lotte, spari, massacri. Abbiamo vissuto una lunga guerra
civile, di reietti contro buoni. Il popolo, soprattutto dell'Italia meridionale, è stato all'opposizione;
… Il fenomeno ricordato nei nostri manuali come brigantaggio in realtà fu una guerra civile che
sconvolse l'intero Sud, gli sconfitti lasciarono le loro terre e alimentarono la gigantesca
emigrazione verso l'America … “
E briganti vennero considerati anche i nostri partigiani, tutti coloro che si ribellarono all'invasione, i
giovani morti per difendere la propria Patria, per onorare l’impegno di un giuramento di fedeltà al
proprio Stato o magari soltanto per difendere le proprie cose o per difendersi dai soprusi. Ma, è
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risaputo, fra i vinti non possono esserci eroi; ci hanno imposto di ritenere i nostri eroi tutti briganti e
come tali sono ormai riconosciuti; nemmeno la propria gente li ricorda più e li onora! Gli eroi che
dobbiamo onorare, ci hanno fatto credere, sono invece i vincitori, i nostri carnefici! E noi
dedichiamo loro strade, piazze e luoghi pubblici.
Alla luce di tante rivelazioni emerge, dunque, l’incontestabile ed incommensurabile disastro subito
dal Sud in quell’epoca, disastro le cui ripercussioni si avvertono tutt’ora. La nostra gente, semmai
avesse apprezzato l'avvenuta unità d'Italia sotto il regno sabaudo, di certo è rimasta sconvolta
dall'arbitrio e dalla crudeltà con cui essa fu realizzata nel Sud, dalla devastazione e dall’espoliazione
dei suoi valori e della sua identità, dall'asportazione di tutte le ricchezze e risorse del Meridione,
dall’abbandono di quest’ultimo e dalla sua denigrazione, dall’ostilità politica nei suoi confronti, da
tutto quello che fu fatto, insomma, per dirla con Pino Aprile, perché gli Italiani del Sud diventassero
“meridionali” (v. “Terroni” edizione Piemme) o con Tommaso Romano, per portare scientemente il
Sud ad un inesorabile declino (v. “Dal Regno delle Due Sicilie al declino del Sud” edizione Thule).
Tanto più che, di certo, gli ideali di unificazione della Nazione Italiana da parte di poche persone
elitarie non erano, in fondo, le aspirazioni della maggior parte della gente del Sud e della Sicilia in
particolare che vantava secoli di autonomia come Stato indipendente, faro di civiltà e cultura nel
Mediterraneo.
Angelo Russo
I primati del Regno delle Due Sicilie
I libri di scuola dicono che il Regno delle Due Sicilie era arretrato e povero. Ciò non risponde al vero. Ecco quali erano
i primati del Regno, tratti da “Le industrie del Regno di Napoli” di Gennaro De Crescenzo. Mancano qui le primarie
industrie di trasformazione dello zolfo estratto dalle ricchissime miniere della Sicilia.
1735. Prima Cattedra di Astronomia in Italia
1737. Costruzione S.Carlo di Napoli, il più antico teatro d’Opera al mondo ancora operante
1754. Prima Cattedra di Economia al mondo
1762. Accademia di Architettura, tra le prime in Europa
1763. Primo Cimitero Italiano per poveri (Cimitero delle 366 fosse)
1781. Primo Codice Marittimo del mondo
1782. Primo intervento in Italia di Profilassi Antitubercolare
1783. Primo Cimitero in Europa per tutte le classi sociali (Palermo)
1789. Prima assegnazione di “Case Popolari” in Italia (San Leucio a Caserta)
1789. Prima assistenza sanitaria gratuita (San Leucio)
1792. Primo Atlante Marittimo nel mondo (Atlante Due Sicilie)
1801. Primo Museo Mineralogico del mondo
1807. Primo Orto Botanico in Italia a Napoli
1812. Prima Scuola di Ballo in Italia, gestita dal San Carlo
1813. Primo Ospedale Psichiatrico in Italia (Real Morotrofio di Aversa)
1818. Prima nave a vapore nel mediterraneo “Ferdinando I”
1819. Primo Osservatorio Astronomico in Italia a Capodimonte
1832. Primo Ponte sospeso, in ferro, in Europa sul fiume Garigliano
1833. Prima Nave da crociera in Europa “Francesco I”
1835. Primo Istituto Italiano per sordomuti
1836. Prima Compagnia di Navigazione a vapore nel mediterraneo
1839. Prima Ferrovia Italiana, tratto Napoli-Portici
1839. Prima illuminazione a gas in una città città italiana, terza dopo Parigi e Londra
1840. Prima fabbrica metalmeccanica d’ Italia per numero di operai (Pietrarsa)
1841. Primo Centro Sismologico in Italia, sul Vesuvio
1841. Primo sistema a fari lenticolari a luce costante in Italia
1843. Prima Nave da guerra a vapore d’ Italia “Ercole”
1843. Primo Periodico Psichiatrico italiano, pubblicato al Reale Morotrofio di Aversa
1845. Primo Osservatorio meteorologico d’Italia
1845. Prima Locomotiva a vapore costruita in Italia a Pietrarsa
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1852. Primo Bacino di Carenaggio in muratura in Italia (Napoli)
1852. Primo Telegrafo Elettrico in Italia
1852. Primo esperimento di illuminazione elettrica in Italia, a Capodimonte
1853. Primo Piroscafo nel Mediterraneo per l’America (il “Sicilia”)
1853. Prima applicazione dei pricìpi della Scuola Positiva Penale per il recupero dei malviventi
1856. Expò di Parigi, terzo paese al mondo per sviluppo industriale
1856. Primo Premio Internazionale per la produzione di Pasta
1856. Primo Premio Internazionale per la lavorazione di coralli
1856. Primo sismografo elettrico al mondo, costruito da Luigi Palmieri
1860. Prima Flotta Mercantile e Militare d’Italia
1860. Prima Nave ad elica in Italia “Monarca”
1860. La più grande industria navale d’Italia per numero di operai (Castellammare di Stabia)
1860. Primo tra gli stati italiani per numero di orfanotrofi, ospizi, collegi, conservatori e strutture di assistenza e formazione
1860. La più bassa mortalità infantile d’Italia
1860. La più alta percetuale di medici per numero di abitanti in Italia
1860. Primo piano regolatore in Italia, per la città di Napoli
1860. Prima città d’Italia per numero di Teatri (Napoli)
1860. Prima città d’Italia per numero di Tipografie (Napoli)
1860. Prima città d’Italia per Pubblicazioni di Giornali e Riviste (Napoli)
1860. Primo Corpo dei Pompieri d’Italia
1860. Prima città d’Italia per numero di Conservatori Musicali (Napoli)
1860. Primo Stato Italiano per quantità di Lire-oro conservata nei banchi Nazionali (443 milioni, su un totale 668 milioni
messi insieme da tutti gli stati italiani, compreso il Regno delle Due Sicilie)
1860. La più alta quotazione di rendita dei Titoli di Stato
1860. Il minore carico Tributario Erariale in Europa
 


 

 

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