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Messina 12.08.2010


La madre di tutte le battaglie: “Cambiare la legge elettorale”
di Enzo Palumbo

(pubblicato sul sito del PLI www.partitoliberale.it e sul blog di Rivoluzione Italiana www.paologuzzanti.it) 

Nella vicenda politica italiana che si va sviluppando in questi giorni attraverso il duello all’ultimo sangue tra Berlusconi e Fini, c'è un convitato di pietra che è la legge elettorale, quella attuale (il “porcellum”), della quale ogni persona di buon senso dovrebbe volersi liberare, e quella futuribile, su cui non si intravede ancora il necessario consenso.

Parto da una constatazione che a me sembra ovvia ma che fatica ad affermarsi: se non si cambia la legge elettorale, sarà molto difficile cambiare i comportamenti politici di elettori e di eletti, perché nella testa degli elettori vincerà sempre l'opzione del voto “contro” e/o del voto“utile”, e nella testa degli eletti vincerà sempre l'opzione della fedeltà al capopartito che li ha fatti eleggere.

Per eliminare il “porcellum”, il Partito Liberale promuoverà in autunno una iniziativa referendaria che, in mancanza di meglio, mira alla reviviscenza del “mattarellum”, che non è il massimo per garantire un sufficiente pluralismo politico, ma che è comunque assai meglio dell’indecente sistema attuale, che costringe ad essere “bipolarista” anche chi non ne avrebbe nessuna voglia, non sentendosi rappresentato da nessuno degli schieramenti in campo.
Siamo ben consapevoli che quello referendario è un percorso ad ostacoli, disseminato di varie insidie, giuridiche e pratiche, e tuttavia contiamo di superarle, come io stesso ho tentato di dimostrare in un apposito studio che, senza alcuna pretesa di esaustività, è a disposizione di chi sia disponibile ad approfondire la questione ed a contribuire all’iniziativa.
Tuttavia, l’opzione referendaria, costretta com’è nella necessitata prospettiva della reviviscenza del “mattarellum”, a sua volta non privo di difetti, potrebbe non bastare, se non sarà accompagnata da un forte consenso politico tra le forze politiche e nel Paese.
E se questo consenso ci fosse, allora la cosa migliore sarebbe quella di sostituire il “porcellum” per la via legislativa ordinaria, potendo così fare di più e meglio rispetto al risultato della mera reviviscenza del “mattarellum”.

E’ noto che l’attuale governo, ormai di “minoranza parlamentare”, non ha alcuna intenzione di cambiare l’attuale sistema elettorale, ma soltanto, al limite, di peggiorarlo, come già si sente dire a proposito del premio di maggioranza per il Senato, che da regionale qualcuno vorrebbe trasformare in nazionale, in palese violazione dell’art. 57, 1° comma, Cost., che testualmente recita “Il Senato della Repubblica è eletto a base regionale”.
Berlusconi non ha alcun interesse a cambiare questo sistema, perché è quello che gli consente di vincere a mani basse giocando sulle divisioni altrui e sul suo asse preferenziale con la Lega, basato sullo scambio indecente tra la protezione assicurata dalla Lega per le varie vicende giudiziarie di Berlusconi e della sua cricca, ed il via libera di Berlusconi alla Lega per dividere formalmente l'Italia più di quanto essa già non lo sia in via di fatto.
Ed allora, sarà proprio la questione della legge elettorale la cartina di tornasole per capire verso dove il Paese verrà indirizzato da chi può e deve farlo, ed è proprio per questo che occorre dare vita prima possibile ad una nuova maggioranza parlamentare e ad un nuovo governo, con chiunque condivida questo fondamentale obiettivo.
Chi, anche tra gli oppositori di Berlusconi, insistesse per affrontare le elezioni con l’attuale legge elettorale, nella miserabile speranza di lucrare qualche punto percentuale e qualche deputato in più, otterrebbe solo il risultato di fare rivincere l'accoppiata Berlusconi-Bossi, attribuendo a quest’ultimo una “golden share” ancora più determinante di quella attualmente posseduta, in cambio della definitiva impunità assicurata a Berlusconi ed a taluni suoi cortigiani.
E quindi, quella di una legge elettorale diversa dall’attuale è la”madre di tutte le battaglie” per chi vuole realmente difendere in Italia l’unità del Paese, l’eguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla legge, il pluralismo politico e, in definitiva, i principi basilari di una buona democrazia occidentale.

Su questo banco di prova, Fini giocherà la sua partita fondamentale, forse con qualche sacrificio personale, dovendo necessariamente modificare l’opzione maggioritaria e bipolarista, che, se ha a suo tempo contribuito ad inserirlo nel gioco politico, è ora diventata una vera e propria camicia di forza che ne ostacola ogni autonoma iniziativa.
In fondo, si tratterebbe di nient’altro che di tornare alla sua antica preferenza per un sistema pluralista e sostanzialmente proporzionale, che lo aveva visto, almeno sino all’aprile del 1993, deciso oppositore dell’iniziativa referendaria di Segni per l’introduzione del sistema maggioritario.
Su questa trincea si misurerà d’ora in avanti la sua volontà di preservare le caratteristiche fondamentali della democrazia liberale, e c’è da sperare che, dopo le tante e positive revisioni critiche sul passato, non si farà mancare anche questa.

A chi chiede se Fini sia sincero nel dire ciò che da qualche tempo va dicendo, osservo che non mi interessa tanto verificare se Fini, nel suo intimo, pensi effettivamente tutto ciò che ora dice, quanto piuttosto se le affermazioni di principio trovino riscontro nei comportamenti concreti.
E constato che, sino ad ora, è possibile individuarvi un'apprezzabile ed evolutiva linea di crescente coerenza, che si accompagna naturalmente alla prudenza suggerita dalla necessità di aggregare consenso (parlamentare ed elettorale) piuttosto che di suscitare dissenso, in particolare nella sua tradizionale area di riferimento, che non è quella della sinistra parlamentare e politica, ma quella dell’area centrale dell’elettorato italiano.
Ed il tratto unificante della sua linea, sin qui perseguita con comportamenti, l’uno con l’altro coerenti, è la conclamata intenzione di fermare la deriva plebiscitaria del Paese.
Se così è, non dovrebbe essere impossibile convergere con altre forze politiche su alcuni punti essenziali:
a) l’esclusione dell’attuale assurdo premio di maggioranza (come si fa a governare una società complessa come la nostra con un solo voto in più?);
b) il ripristino della possibilità di scelta dei candidati da parte dell'elettorato (come si può consentire ai capipartito di nominare i parlamentari, addirittura anche a risultato acquisito?);
c) e, non ultima, l’eliminazione dell’indicazione sulla scheda elettorale del nome del candidato alla Presidenza del Consiglio (com’è stato possibile espropriare surrettiziamente il Presidente della Repubblica di quella che è la sua principale prerogativa, in chiara violazione dell’art. 92 Cost.?).
Si chiuderà così la pagina ingloriosa di questo forzoso bipolarismo, che ha costretto gli elettori a scegliere il "meno peggio" oppure a rifugiarsi nell'astensione, come ormai vanno facendo in termini sempre crescenti.

E sarà anche possibile uscire dal clima avvelenato nel quale si svolge attualmente la lotta politica, con fazioni schierate pregiudizialmente da una parte o dall’altra, ciascuna pronta a minimizzare qualsiasi nefandezza commessa dalla propria parte, e ad enfatizzare anche la più piccola delle leggerezze commesse dalla parte avversa.
In un sistema incentrato sullo scontro tra persone (piuttosto che tra partiti), nel quale chi vince per un voto vince tutto, è inevitabile che l’antico spirito italico di fazione trovi il suo naturale brodo di cultura nel quale sviluppare il virus della complicità verso i propri sodali e quello della demonizzazione verso gli avversari.
Al legittimo confronto tra alleati ed avversari, tuttavia accomunati da un “idem sentire” sulle regole fondamentali della vita politica, si è negli ultimi quindici anni sostituito lo spettacolo indecoroso di una mera lotta per il potere, in uno scontro tra amici da una parte e nemici dall’altra, gli uni e gli altri rispettivamente legati da un vincolo fatto di fedeltà verso il capo e di complicità verso i propri sodali, che è poi lo spettacolo che oggi emerge dalla semplice lettura dei giornali militanti.
Le ultime vicende monegasche, con la forsennata campagna di stampa contro Fini (che almeno alle domande ha provato a rispondere, mentre sono rimaste senza alcun esito tutte le domande poste a Berlusconi, le dieci di Repubblica sul caso Noemi, come le sette di Critica Liberale sull’origine delle sue fortune economiche) stanno lì a dimostrare che il bue di turno non prova alcuna vergogna a dare del cornuto a chiunque gli capiti a tiro!

Uscire da questo bipolarismo personalizzato è ormai un’esigenza politica, civile ed etica, e per chi vuole intendere questa necessità, i sistemi elettorali già sperimentati in Europa sono tanti, ed a portata di mano: c'è quello francese, col doppio turno di collegio (che è un sistema maggioritario), c'è quello tedesco (che è un sistema proporzionale con soglia di accesso e con la metà dei deputati eletti in collegi uninominali a turno unico), e c'è il mattarellum italiano (che, per il 75% dei seggi era un sistema maggioritario in collegi uninominali a turno unico, simile a quello inglese).
Al limite, se si vuole essere onesti con noi stessi e con la nostra storia, ci sarebbe anche il sistema proporzionale della c.d. prima Repubblica che – pur tanto vituperato, e fatta la tara per gli scandali che ne hanno accompagnato l‘ingloriosa fine – ha garantito, in sostanziale continuità politica sia pure nel rapido mutare dei governi, la rinascita del Paese dalle rovine della guerra e la sua governabilità per quasi cinquanta anni.
Laddove il sistema maggioritario, nelle sue varie versioni, non ha garantito un bel nulla negli ultimi sedici anni, con ogni governo impegnato a disfare ciò che aveva fatto il governo precedente, e con tutti i governi variamente impegnati a disfare l’unità del Paese, mentre le ruberie che abbiamo dovuto registrare non sembrano inferiori a quelle della fine della prima Repubblica.

Mantenendo invece questo sistema elettorale, l'Italia diventerà presto un paese di stampo vagamente sudamericano, e subirà una deriva plebiscitaria che diverrà via via inarrestabile, nella quale si perderà ogni idea di separazione e di reciproco controllo tra i poteri dello Stato, introducendo un rapporto vizioso tra il leader di turno ed il c.d. popolo, evocato ad ogni pié sospinto per giustificare i discutibili comportamenti personali ed istituzionali del capo e della sua corte, trasformando ogni scadenza elettorale in una sorta di ordalia medievale destinata a giustificare ogni nefandezza del vincitore, passata e futura.
In tale sciagurata ipotesi, il nostro finirà per non essere più un paese di democrazia liberale, ma piuttosto un regime populista, in cui una persona (attorniato da osannanti yes men, beneficati e beneficandi) deciderà per tutti e sarà in grado di pilotare la volontà popolare attraverso la propaganda subliminale dei mass media, tutti ovviamente (chi più, chi meno) al servizio del potente di turno, e magari con qualche sacca di resistenza confinata in una sorta di riserva indiana, tanto per salvare la faccia.
Se Orwell avesse scritto oggi il suo libro più famoso, piuttosto che all’URSS di allora avrebbe probabilmente pensato all’Italia di Berlusconi ed alla Russia di Putin (non per nulla tanto amici) per collocarvi idealmente l’Oceania di 1984, il magapaese governato dal Grande Fratello, che, non per nulla, è da qualche tempo il programma “cult” della televisione italiana.

 

 

 

 

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