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Anno V n° 4  Settembre 2013


Il caso Gela: Industrializzazione senza sviluppo
                                                    
 di Salvatore Costantino
 

ECONOMIA SICILIANA
Il petrolchimico di Gela come simbolo di uno sviluppo distorto, dello sguardo corto di gruppi monopolistici pubblici e privati e di classi dirigenti che non hanno saputo e voluto legare il Mezzogiorno alla qualità dello sviluppo dell’intero paese. Industrializzazione senza sviluppo. Gela: una storia meridionale, il libro di Eyvind Hytten e di Marco Marchioni apparso nel 1970, non è stato utilizzato al fine di un’inversione di tendenza, come sostenevano i due autori, nelle politiche per l’industrializzazione, per il Mezzogiorno, per un tipo di sviluppo in grado di avvicinare crescita economica e benessere. E’ ancora possibile, tuttavia, sperare nella formazione di classi dirigenti con lo sguardo meno corto. A queste ultime Industrializzazione senza sviluppo avrà ancora molto da dire.

1. Industrializzazione senza sviluppo e disastri ecologici
Ritornare sulle politiche dei poli di sviluppo1 nel Mezzogiorno che continuano a produrre effetti negativi sulla società e sull’ambiente, non vuol dire in alcun modo riproporre un mero scavo archeologico su un periodo storico che accese grandi speranze, seguite purtroppo rapidamente, da brucianti delusioni non avendo dato risposte adeguate alle due fondamentali “questioni” (già ben individuate da Franchetti e Sonnino), che, dall’indomani dell’unità d’Italia, hanno condizionato e continuano a condizionare profondamente la società italiana: la questione meridionale e la questione mafiosa.
In verità, riflettere sulla genesi del fallimento delle politiche dei poli e, in particolare del caso gelese, sui pochi risultati acquisiti, sugli effetti perversi che continua ad avere sul permanere e approfondirsi della questione meridionale e della questione mafiosa, può contribuire a gettare nuova luce sugli errori del passato e sulla qualità dello sviluppo necessario e sostenibile non solo per il Mezzogiorno, ma per l’intero paese.
Ritornare sulla genesi, pur nella dimensione apparentemente micro, del caso gelese, non è puro esercizio storiografico, in quanto come si vedrà, coinvolge, in ogni suo aspetto, gli aspetti strutturali macro riguardanti la sfera nazionale e, per molti versi, quella globale.
Dal punto di vista sociologico e di analisi delle politiche pubbliche, proprio in questa direzione vanno le recenti considerazioni di John H Goldthorpe quando si propone di spiegare i macro fenomeni attraverso l’analisi empirica dei micro processi “generativi” che possono “portare alla luce configurazioni inedite e non intuitive dei fenomeni sociali, all’insegna della massima «nuovi strumenti di osservazione producono nuova conoscenza”2. Ciò vale anche al fine di dare nuovo impulso alla ricerca sociologica, in particolare nell’analisi delle politiche pubbliche e del futuro del capitalismo3, in quanto si vengono a costituire “ottimi ambienti per il controllo empirico delle teorie”. In particolare per dare una risposta in termini interdisciplinari ai problemi che riguardano la migliore conoscenza dei problemi dello sviluppo e della sua qualità inserendo l’ambito locale in
quello nazionale e globale. Ciò è tanto più necessario e urgente quanto più le analisi più recenti tracciano un profilo non nitido del Mezzogiorno e, pur rilevando una situazione variegata (non priva di processi innovativi), segnalano vistosi processi di regressione che rendono la ricerca e lo stesso discorso politico più difficile e l’oggetto d’analisi più opaco.

2. Il petrolchimico di Gela: conseguenze di uno sviluppo industriale mancato
Mentre restava dolorosamente aperta la ferità dei casi Thyssen, Eternit, e Ilva, ad approfondirla ha contribuito, ancora una volta, l’esplosione di un caso Gela. Il nuovo “incidente” è avvenuto il 4 giugno scorso in uno dei più grossi impianti industriali di Sicilia, il petrolchimico di Gela. Il disastro ecologico minaccia ancora la condizione del territorio, del mare e delle coste. Con la fuoriuscita di almeno una tonnellata di greggio si conferma la tragica realtà di “quelle zone che da decenni fanno già i conti con le mefitiche esalazioni dell’aria e con le infiltrazioni nelle falde acquifere e nei terreni ritenuti causa dell’aumento esponenziale di gravi patologie”4. Siamo in presenza di impianti altamente inquinanti, ormai obsoleti, mai bonificati, pur essendo state le opere di bonifica finanziate con 40 milioni di euro serviti solo a mantenere strutture inutili. A proposito dell’Ilva di Taranto, Adriano Sofri ha parlato di “Odissea”. Nel caso di Gela bisognerà parlare di tragedia considerando l’allargarsi della portata del disastro ambientale. Secondo Legambiente sono
40 milioni le tonnellate di petrolio da raffinare che arrivano in Sicilia annualmente. Inoltre va tenuto conto dei rischi derivanti dalle trivellazioni delle piattaforme in mare per la ricerca di idrocarburi che coinvolgono ben 12 punti nel canale di Sicilia. Bisognerà ancora aggiungere, per avere una più esatta cognizione del disastro, le centrali termoelettriche alimentate con combustibili ad alto rischio.
La situazione, stando a recentissimi rilevazioni tra la popolazione gelese, tende ancora a peggiorare. L’aria è divenuta irrespirabile. Le emissioni gassose e marine dello stabilimento, protrattesi e divenute sempre più pericolose nel tempo. Nel territorio gelese si sono diffuse particolari tipi di malformazioni come per esempio le ipospadie, e particolari neoplasie. L’azione dei numerosi comitati ambientalisti e dell`Organizzazione Mondiale della Sanità ha potuto accertare la gravità dell’azione ambientale. La magistratura è intervenuta con condanne e l’imposizione di limiti alle attività industriali. La situazione diventa, di giorno in giorno, sempre più tragica, respingendo cinicamente nella più vacua astrazione, nella più vuota retorica ogni discettazione sulla responsabilità sociale delle imprese. Sempre più cariche d’angoscia e di paura si fanno le denunce dei gelesi per l’aumento crescente di bambini nati con gravissime malformazioni. Da un’indagine, svolta nel 2002, risulta che in un solo anno sono nati nel comune di Gela 512 bambini affetti da gravi malformazioni. Dai primi risultati acquisiti all’ARPA, l’Agenzia Regionale Protezione Ambiente, è stato possibile verificare che la presenza di veleni nell’aria è superiore a quella consentita dalle leggi nazionali e anche la falda acquifera sottostante risulta fortemente inquinata.
A Gela – (afferma un’indagine de L’Espresso che fa riferimento ad uno studio ancora inedito dell'Osservatorio epidemiologico della Regione Sicilia intitolato Stato di salute della popolazione residente nel sito di interesse nazionale per le bonifiche di Gela) - morte e malattia risparmiano poche, fortunate famiglie. Non si salva nessuno: operai, impiegati, avvocati, casalinghe o professionisti, le malattie sono democratiche e se ne fregano delle classi sociali. L'inquinamento diffuso sembra ormai un dato acquisito, così come le sue conseguenze sulla salute della popolazione. L'area della città, insieme a Niscemi e Butera (108 mila abitanti) è uno dei siti d'interesse nazionale ad alto rischio. La devastazione di acque, terra e aria è stata causata secondo esperti e ambientalisti dal polo industriale che come si legge in un report dell'Istituto superiore di sanità pubblicato nel 2009, "ha comportato nel corso degli anni una progressiva contaminazione di diverse matrici ambientali, nelle quali sono stati rilevati livelli estremamente elevati di inquinanti chimici con caratteristiche di tossicità, persistenza e bioaccumulo". Traducendo, l'Eni ha sparpagliato i veleni in lungo e largo per decenni. Anche i dati epidemiologici "hanno evidenziato" ragiona l'Iss "la presenza di patologie in eccesso rispetto alle aree limitrofe e alla regione." Eppure il nesso causa-effetto tra inquinamento industriale e malattie non è stato ancora provato, né in sede scientifica né in quella giudiziaria: le norme e le leggi italiane sono spesso inefficaci, così l'Eni finora se l'è cavata alla grande. Presto, però, la musica potrebbe cambiare. Se a Taranto nel mirino della procura è finita l'Ilva e i Riva di Milano, anche nella punta orientale dell'isola di Leonardo Sciascia ("Il petrolio? Mi creda, se lo succhiano, se lo succhiano. È così che finisce col petrolio: una canna lunga da Gela a Milano, e se lo succhiano", scriveva lo scrittore in un racconto del 1966) i magistrati sembrano aver messo il turbo. In pochi mesi i pm guidati da Lucia Lotti hanno aperto varie inchieste, e oggi sono 14 i processi istruiti per reati gravissimi, da quelli ambientali all'omicidio colposo. Sotto accusa sono finiti dirigenti ed ex quadri di aziende dell'Eni, il colosso statale che controlla il petrolchimico nato per volontà di Enrico Mattei nel 1965. Qualcuno in città spera che nei confronti dello stabilimento siano prese misure draconiane, che i pm facciano un salto di qualità sequestrando la raffineria, come avvenuto per il siderurgico pugliese. Da un punto di vista economico, sarebbe uno choc: nella sola raffineria – una delle più grandi e strategiche d'Europa – lavorano circa 1100 persone, altre 500 nell'indotto, ma a questi vanno aggiunti altre migliaia di operai delle ditte esterne. Non solo. A Gela vengono lavorati ogni anno circa 5 milioni di tonnellate di greggio pesante e semilavorati proveniente dai pozzi di Gela, Ragusa, Egitto, Libia e Iran, che in Sicilia viene trasformato in benzina, cherosene, gasolio, gas e gpl. Un blocco della produzione rischierebbe di mettere in ginocchio l'azienda amministrata da Paolo Scaroni, mentre alle ripercussioni sociali si sommerebbero quelle finanziare a Piazza Affari 5.
L’assessore ragionale all’economia Luca Bianchi, studioso della Svimez, preferisce non
commentare nel dettaglio questi dati ancora non pubblici. Tuttavia non può fare a meno di
dichiarare: “Ma di certo la situazione ambientale è pesante. Come a Taranto, anche a Gela servono investimenti importanti per attenuare l’inquinamento. Oggi per motivi di congiuntura la raffineria sta producendo di meno, ma non basta. Bisogna fare di più”6. Secondo un’analisi costi-benefici pubblicata dalla rivista internazionale Environmental Health nel 2011, a Gela “i costi della bonifica ammonterebbero a circa 6,6 miliardi di euro”.
Di fronte all’aggravarsi della situazione, giustamente è stato chiesto al presidente della Regione Crocetta di farsi rendere conto per “omissioni e ritardi” che si accumulano sistematicamente da decenni elevando progressivamente la mappa e la gravità del rischio e dell’insicurezza. Basteranno le solite promesse? O, invece, non è necessaria una svolta radicale non solo a Gela e nel Mezzogiorno, ma nelle politiche industriali e di sviluppo che riguardano l’intero paese?7
Questa fase di stallo non sarà mai concretamente avviata a superamento se non si comprenderà che la questione meridionale, come si è già accennato, è parte integrante della questione italiana e che riguarda il tipo di sviluppo della società italiana e la qualità stessa della sua democrazia8.
Di questo modo di intendere lo sviluppo del Mezzogiorno e paese c’è una grande consapevolezza già in un testo importante del 1970 di sorprendente attualità, dal quale hanno origine le osservazioni che precedono e che seguiranno.
Che lo si voglia o no, il Mezzogiorno, con la sua miseria e le sue prospettive, le sue contraddizioni e contrasti, continuerà ad essere il banco di prova per tutto ciò che si fa e si cercherà di fare per creare una società più giusta e civile per tutti gli italiani.
Anche sul faticoso cammino del progresso economico e sociale, teso a trasformare la società tradizionale ed essenzialmente rurale in una moderna dinamica e fondata su una economia più diversificata e propulsiva, quello che viene fatto e non fatto nel Mezzogiorno, condizionerà per vie dirette ed indirette la validità dell’intero sviluppo nazionale.
E non è un paradosso affermare che la stessa arretratezza del Mezzogiorno rispetto al resto del paese lo fa diventare oggi, una punta avanzata di tutta la tematica dello sviluppo; i suoi maggiori bisogni e la conseguente reattività agli effetti sia benefici che nocivi delle trasformazioni, ci permettono di misurare e prevedere quali siano i risultati, le prospettive ed i rischi di un processo di trasformazione che investe la società italiana. Se quindi vogliamo che il progresso economico e sociale, promosso e sollecitato dalle istituzioni
pubbliche e della collettività, diventi qualcosa di più che la semplice accelerazione di vari processi e avvenimenti già in corso per conto proprio, è sempre al Mezzogiorno che bisogna guardare. Se cioè si vuole che lo sviluppo della società sia l’espressione di una determinata politica.
È sempre difficile fare un discorso basato sul concetto della “volontà collettiva” di una determinata società, e pressoché impossibile quando si tratta di una società ancora così lacerata e divisa nelle sue idee e aspirazioni qual è quella italiana. Su due punti, però, è forse possibile fissare dei parametri generalmente riconosciuti come guide valide per lo sforzo di trasformare in meglio la società. L’uno riguarda, appunto, l’esigenza che le forze preposte allo scopo abbiano un ruolo propulsivo e non solo di affrancamento a determinati processi autonomi al di fuori del loro controllo: non vi è accordo di fondo su quale politica di sviluppo bisogna seguire, ma almeno sul fatto che una politica ci deve essere; che la società attraverso le sue istituzioni dev’essere la protagonista e non solo l’oggetto delle trasformazioni in corso. In secondo luogo, potrebbe dirsi generalmente accettata l’idea che, in un modo o nell’altro queste trasformazioni debbano risultare non solo un aumento globale delle risorse, delle opportunità, in breve della somma dei valori materiali e spirituali di cui la società dispone, ma anche in una loro diversa distribuzione all’interno della società stessa, in modo da assicurare relativamente di più a chi attualmente ha di meno; cioè che lo sviluppo deve avere una finalità non soltanto quantitativa ma anche qualitativa, in termini di maggiore giustizia sociale9.

3. Una Sicilia “senza”
Il brano citato fa parte dell’introduzione (Industria, sviluppo e Mezzogiorno) a Industrializzazione senza sviluppo. Gela: una storia meridionale. Il volume pubblicato da Franco Angeli nel 1970, cioè
nel bel mezzo dello svolgimento della vicenda del petrolchimico gelese, sviluppa un’analisi critica, rigorosamente scientifica, ricca di indicazioni per il futuro e di spessore progettuale. Il titolo inaugura la lunga serie delle “incompletezze”, delle “mancanze”, dei “senza”, dei fallimenti, dei molti, inevitabili complementi di privazione attribuiti ora all’intero paese, ora al Mezzogiorno, ora alla Sicilia. Del 1980 è il noto libro di Alberto Arbasino, Un paese senza; del 1992, Sviluppo senza autonomia di Carlo Trigilia; dello stesso anno Mezzogiorno senza meridionalismo di Giuseppe Giarrizzo. Lo scopo dichiarato e perseguito sistematicamente di Industrializzazione senza sviluppo è quello di “misurare e prevedere quali siano i risultati, le prospettive ed i rischi di un processo di trasformazione che investe tanto le aree sottosviluppate quanto quelle opulente, la società italiana
nel suo complesso10. Un obiettivo squisitamente scientifico, dunque. Non si parla soltanto di Gela, ma la storia del paese mediterraneo è inserita nel quadro, molto più ampio, che riguarda il processo di sviluppo (e della sua qualità) dell’intera società italiana, i risultati raggiunti, le sue contraddizioni, le correzioni possibili. Autori del volume sono Eyvind Hytten, docente all’Università di Stoccolma, che fino al 1964 dirige il Centro Studi e iniziative per la piena occupazione presieduto da Danilo Dolci e Marco Marchioni, studioso dei problemi dello sviluppo e collaboratore del Centro Studi di Dolci. Gli autori hanno il merito di esibire concretamente i dati di un processo di sviluppo distorto, per diversi aspetti violento, nei confronti della natura e della società. L’analisi critica dei due studiosi non si ferma solo al livello dell’individuazione degli effetti perversi, nella misura in cui sa individuare i punti che avrebbero potuto trasformare l’industrializzazione senza, in industrializzazione con, cioè non scorporata dal sociale e integrata nel territorio.
Come è stato fatto osservare11 la cittadina affacciata sul Mediterraneo è diventata simbolo di una vicenda storica molto più ampia: Al suo interno confluiscono modalità di relazione e potere che comprendono caratteri generali e a loro modo universali, connessi in sostanza alla relazione tra grande capitale e territori periferici. Parlare di Gela significa infatti discutere della relazione tra centro e periferia, degli esiti dell’industrializzazione diretta centralmente, del sottosviluppo (o dell’“industrializzazione senza sviluppo”), delle relazioni “coloniali” (un’espressione forte, a mio avviso decisamente calzante, ma riproposta frequentemente dagli attori sociali), del ricatto occupazionale, dell’incertezza, del rischio
sanitario e della resistenza che essa genera in ristretti gruppi, della passività delle masse e dell’illegalità come risorsa …Il capitale, ovvero la relazione tra investimenti tecnologici e forza lavoro impiegata, costituisce probabilmente la variabile indipendente e centrale dell’analisi; quella da cui derivano effetti materiali (inquinamento, inclusione ed estromissione ciclica della forza lavoro, creazione di indotto, malattie ambientali, ecc. e “percezioni” (rischio, pericolosità degli impianti, innocuità delle emissioni, ricchezza, miseria12. Hytten e Marchioni sostengono che non si è verificato alcuno sviluppo economico-sociale di rilievo nel “polo” di Gela nonostante il massiccio intervento dello Stato: “Ci vuole più che l’industria per industrializzare”, affermano.
Il libro mostra, con dovizia di approfondimenti e ricchezza di indicazioni positive di grandissima attualità, le ragioni del fallimento dell’industrializzazione e del mancato sviluppo integrato nel territorio. Ma di quale sviluppo parlano i due autori all’inizio degli anni settanta? Lo sviluppo basato sulla sola logica del profitto, affermano, sul concentramento del potere e delle opportunità e sull’emarginazione della collettività, non solo è destinato al fallimento, ma ad aggravare i problemi delle aree a sviluppo ritardato. Di più: il connubio tra tecnicismo e dirigismo capitalista e “atteggiamenti borbonici”, impastato con visioni miracolistiche del progresso, aveva gravemente ipotecato altre, più sostenibili e credibili, ipotesi di sviluppo:
Lo sviluppo basato sull’accumulazione – scrivono Hytten e Marchioni - anziché sulla distribuzione dei beni, sul concentramento del potere e delle opportunità, sull’ulteriore emarginazione della collettività anziché sulla maggiore partecipazione di questa alla vita pubblica, è un pericolo che investe tanto la società opulenta quanto le comunità in via di trasformazione. A Gela abbiamo potuto vedere una delle manifestazioni più crude di questo pericolo e allo steso tempo l’unica soluzione possibile che quella di saper coinvolgere tutti nei processi che determinano il loro futuro13. I due autori citano una frase efficace di un ricercatore empirico, A. Mountjoy - autore di
Industrialization and Underdeveloped Countries,: “ci vuole più che l’industria per industrializzare”14.
Non basta la presenza né di una né di molte industrie perché il sistema economico e sociale di una società finora statica faccia il”salto” alla civiltà industriale in tutti i suoi significati; tale civiltà consiste in molto di più di un determinato modo di produzione e consumo. La seconda fase del ragionamento, invece, tende a porre in dubbio se l’industrializzazione in questo senso, anche se fosse possibile e prevedibile nel caso esaminato, corrisponderebbe a ciò che si può intendere per “sviluppo”; se l’eventuale futuro accostamento dell’economia e della vita sociale del Meridione ai “modelli del settentrione industrializzato, sia necessariamente l’unico parametro valutativo per una
politica di sviluppo del Sud15.
È inevitabile, oggi, pur con l’occhio puntato sul futuro, sui processi in atto, interrogarsi su quanto avrebbe potuto influire sulle strategie di sviluppo la valorizzazione delle importanti indicazioni, basate sulla rilevazione empirica, dei contenuti di Industrializzazione senza sviluppo che restò, invece, ignorato. Eppure già nella prefazione il messaggio di Hytten e Marchioni era molto chiaro: Non pensiamo…che quello di Gela sia un caso tanto “specifico”, né che il problema dell’intero Mezzogiorno possa essere affrontato come uno a se stante; ci pare invece che i tanti aspetti dello sviluppo incontrati in diversi posti del Meridione siano delle manifestazioni di una patologia sociale che investe l’intera società, anche nelle sue zone e settori più evoluti materialmente16.
Si trattava di un messaggio che avrebbe potuto mettere in moto una progettualità programmata che avrebbe potuto coinvolgere i rappresentanti del capitalismo italiano, dei grandi complessi pubblici e privati, le forze politiche, sindacali, sociali, le classi dirigenti.
E’ una storia che ormai si trascina tragicamente da più di un sessantennio riducendo il nostro paese alla sferzante, fortunata espressione di Arbasino.
Nel suo Mezzogiorno senza meridionalismo, Giuseppe Giarrizzo scrive che gli anni cinquanta e sessanta sono stati i soli in cui “il meridionalismo”abbia fatto la sua prova di governo”17. Tuttavia il giudizio su questo periodo, aggiunge Giarrizzo, resta controverso. Il Mezzogiorno in quegli anni indubbiamente cresce, muta profondamente, “cancellando antichi squilibri e stabilendone di nuovi. Ma. Si chiede Giarrizzo, si trattò di crescita con o senza sviluppo? Già la disputa – scrive Giarrizzo – pone in evidenza due punti: a) il Mezzogiorno è negli anni 1950-70 profondamente cambiato; b) il cambiamento (o sviluppo?), anche quando è avvenuto per effetto di misure o di interventi “meridionalisti”, non è avvenuto secondo gli esiti programmati o gli esiti desiderati. La controversia, che dura tuttora tra politici e tra intellettuali, ha oscurato natura e portata di quel cambiamento; e ha prodotto la conseguenza di “sprechi”, dovuti troppo spesso alla rincorsa delle emergenze, quando sarebbe stato più efficace un intervento in tempi reali e riferito al
Mezzogiorno che è, piuttosto che al Mezzogiorno quale avrebbe dovuto essere18.
Giarrizzo non cita il libro di Hytten e Marchioni, ma sembra concordare con le loro analisi e
conclusioni. Crescita, cambiamento, dunque, senza sviluppo. La preposizione privativa “senza”, ritorna in Culture and Political economy in Western Sicily degli antropologi Jane e Peter Schneider, questa volta riferita al “processo di modernizzazione in assenza di un reale sviluppo”, con una precisazione di ordine socio-antropologica: La distinzione è importante; mentre la modernizzazione e lo sviluppo implicano dei cambiamenti, lo sviluppo muta anche i rapporti di una società rispetto ai sistemi sociali di cui fa parte e di conseguenza aumenta la sua capacità di tenere testa al sistema. Invece la modernizzazione mantiene un rapporto di ineguaglianza e di sfruttamento tra un’area dipendente e un centro metropolitano. In questo senso ogni cambiamento è frutto non di un ordine di priorità auto avviantesi, ma di una diffusione dal centro. Ma anche così, il processo di modernizzazione può portare sostanziali aumenti delle possibilità di occupazione e miglioramenti nel livello di vita standard – spesso più velocemente e drammaticamente di quanto possa fare un processo di sviluppo. In mancanza di un significativo sviluppo regionale, non c’è niente che possa impedire una rapida degradazione delle risorse a causa della frammentazione19.

4. Al di là del “fondamentalismo semplicistico di mercato”, ridefinire lo sviluppo per
riavvicinare crescita economica e benessere
L’esempio di Gela è particolarmente significativo oggi, nel cuore di una gravissima crisi
economico-finaziaria, di una crisi del capitalismo che richiede una ridefinizione del concetto stesso di sviluppo, che non può più dipendere da quello che Adair Turner definisce “fondamentalismo semplicistico di mercato”20. Si tratta di quel capitalismo che “è stato salvato dai suoi stessi eccessi grazie al contropotere del Welfare State e dello Stato regolatore»21, e che oggi rende necessario e improrogabile rimettere in discussione i rapporti tra diritto, economia e finanza, valorizzando un aspetto fondamentale della società postmoderna nella quale «il ruolo dei governi e delle scelte politiche è vitale»22.
Ma a rendere ancora più profonda la divaricazione tra crescita economica e benessere è quella forma dominante di capitale che Giacomo Becattini definisce “ruggente, e Bennett Harrison “impatient capital”23. Si tratta di quel capitale che risulta da un esasperato orientamento a breve termine dei profitti. Diversi elementi di queste economie cosiddette “informali” sono varianti del “capitale impaziente” e operano nelle condizioni nelle quali violenza e coercizione diventano le condizioni e le risorse primarie per accumulare capitali e anche per legalizzarli attraverso il riciclaggio del denaro sporco. Tutto ciò ha profondamente e negativamente agito sui processi di sviluppo. Effetti negativi si verificano non solo nelle aree in via di sviluppo o a sviluppo ritardato, ma anche in quelle sviluppate. E’ significativo da questo punto di vista che Il Rapporto Svimez 2012 sull'economia del Mezzogiorno si spinga fino a rilevare il progressivo dilagare, non solo al Sud ma anzi soprattutto al Nord, di “forme di capitalismo politico criminale”, che si sviluppano anche in relazione al fatto che i confini tra legale e illegale appaiono sempre più sfumati, “anche grazie all’appoggio di un’ampia schiera di professionisti e amministratori pubblici e privati collusi”. Le mafie, oltre ad accumulare immensi patrimoni nelle tradizionali forme parassitarie (in prevalenza estorsioni e usura, servizi di protezione) attraverso il traffico d’armi, di droghe e il contrabbando, stanno allargando la sfera dei propri interessi anche ad altri ambiti, quali il turismo, le energie alternative, lo smaltimento dei rifiuti, fino alle catene della grande distribuzione organizzata. La diffusione e l’affinamento degli strumenti finanziari consente inoltre agli investitori di mettere in crisi il management e di acquistare progressivamente il potere di stabilire il destino delle aziende. In questo modo al vertice della catena di comando non si trovano più i dirigenti d’impresa, ma nuovi gruppi di potere anche stranieri, comunque estranei alla storia e alla cultura delle aziende24.
Quale sviluppo, credibile, sostenibile, integrato nel territorio e nella società è possibile perseguire in queste condizioni? Com’è possibile riavvicinare la crescita economica e il benessere?
Fino a quando si potrà schivare la cruda realtà di un mondo scosso alle fondamenta? È possibile non rendersi conto del fatto che, pur tra molte contraddizioni, si sta delineando lo spazio esperenziale di una civilizzazione globale caratterizzata da eventi globali quotidiani25? Riuscirà il capitalismo a superare su scala nazionale e internazionale le crisi strutturali che sempre più lo attraversano?
La risposta a questi interrogativi non può certamente essere ottimistica a giudicare dai processi che si stanno verificando e approfondendo dal 2008. Questo periodo è caratterizzato da una profonda precarietà economica-finanziaria che apre concretamente la prospettiva di un tracollo del capitalismo sul piano globale della portata della Grande Depressione degli anni Trenta che da’ ragione alle acute considerazioni sul capitalismo dell’autore della Great Transformation per le quali l’idea di un mercato autoregolato si è dimostrata un’utopia non solo sul piano nazionale ma anche sui mercati globali e che a lungo andare questa istituzione avrebbe finito con l’“annullare la sostanza umana e naturale della società”, col disorganizzare la vita industriale e col “far crollare
l’organizzazione sociale” sulla quale si regge26. A proposito di questi “crolli” si potrebbe dire: fabula de te narratur, con esplicito riferimento a vicende recenti e meno recenti dei complessi industriali italiani. Oggi le critiche alla società capitalistica, a questo tipo di sviluppo e di capitalismo, sono diventate sempre radicali sino a mettere in crisi l’idea stessa di crescita, di sviluppo. Si diffonde sempre di più su scala planetaria la coscienza di quanti mettono in dubbio che la “crescita economica” sia ancora la soluzione dei gravissimi problemi del pianeta. Non sarà certamente la crescita a garantire un futuro di prosperità e benessere ad una popolazione planetaria che sta per raggiungere i nove miliardi di esseri umani. Nessuno nega che lo sviluppo, ma anche qui deve trattarsi di un nuovo tipo di sviluppo non fondato sugli spiriti animali del capitalismo dominante, sia essenziale per le nazioni più povere. Ma è necessario interrogarsi sulla qualità dei processi economici. Ormai è scientificamente dimostrato che nei paesi sviluppati la crescita a ogni costo porta a una maggiore infelicità e a livelli pericolosi di disuguaglianza, al collasso degli ecosistemi schiacciati da economie fondate sull’“iper consumismo”.
Ma intanto si continua ad evitare strategie alternative possibili preferendo “camminare a testa bassa sotto il cielo plumbeo dell’economicismo”27. L’idea di sviluppo stessa diventa il nemico principale:
Il più potente produttore di ricchezza, il modo di produzione più rivoluzionario della storia umana, dopo tante incarnazioni, oggi mostra il suo volto finale: è diventato la macchina di distruzione più potente che sia mai apparsa sulla terra.
Le ricchezze accumulate dalle società industriali dovrebbero consentire di vivere più
serenamente a un maggior numero di persone e di popoli. E occorrerebbe che i paesi a basso reddito fossero lasciati liberi e aiutati a cercare il proprio benessere materiale secondo i propri mezzi, risorse, culture. E invece lo sviluppo ci trascina in un agone forsennato come se fossimo d’improvviso precipitati in povertà. Noi crediamo che l’economia dello sviluppo sia diventata un’economia della miseria, costretta a generare miseria, reale e artificiale, per sopravvivere. E noi ambiremmo concorrere invece ad una durevole ed equa prosperità, che non è più possibile senza un nuovo patto con la natura, senza mutare il nostro rapporto con le risorse e con tutti i nostri simili, senza cambiare mezzi e fini del produrre e del consumare28.
Il concetto di sviluppo, nato per tentare di ridurre gli enormi squilibri nella distribuzione della ricchezza e logoratosi progressivamente in vistosi fallimenti e inefficacie interpretative, pare che non sia, oggi più che mai, in grado di farci comprendere il mondo in cui viviamo. Una categoria ormai da disapprendere in quanto “strumento politico di gestione delle diseguaglianze e di stabilizzazione del sistema nel suo insieme”:
Negli ultimi decenni, la consapevolezza della sua irrealizzabilità ha aperto spazi per la
sperimentazione dei valori culturali e ha spinto, “dall’alto”, a una limitazione del suo potenziale egualitario e al ricorso a nuovi e più efficaci strumenti di contenimento delle tensioni derivanti dalle persistenti e molteplici diseguaglianze, in primo luogo attraverso la retorica della globalizzazione Da qui l’esigenza di un suo disapprendimento attivo e della ricerca, o meglio della riconsiderazione, di più valide alternative concettuali29.
Si tratta, dunque, di disapprendere, di liberarsi dal tipo di sviluppo, allo stesso modo in cui per costruire nuovo capitale sociale positivo è necessario cercare di liberarsi contemporaneamente di quello negativo. Crediamo che questi più diffusi rilievi critici siano rivolti anche verso le retoriche e le intransigenze, come direbbe, le rigide separatezze disciplinari, verso le astrattezze matematizzanti e la dimensione caotica che caratterizza, spesso, la trattazione dei problemi dello sviluppo, dello stato attuale e del futuro della società capitalista. Dalle più recenti indagini empiriche sono stati messi in evidenza i limiti “delle diverse teorie della crescita quando esse pretendano di essere uniche e abbiano un approccio alla realtà di tipo deterministico”30. Per superare questa fase di stallo è necessario tornare a riflettere, in modo il più possibile pluridisciplinare, (diciamo così, per non indulgere ad una certa astratta retorica dell’interdisciplinarità)I, sulle condizioni di sviluppo delle società complesse e su come affrontare i problemi delle aree cosiddette sottosviluppate, a sviluppo ritardato o distorto, ecc.

5. Industrializzazione: da speranza a incubo.
Col varo di una vera e propria politica di industrializzazione (incentrata sui cosiddetti “poli di sviluppo”) del Mezzogiorno, l’intervento statale, nel 1957 con la legge 634 (che prorogava la Cassa per il Mezzogiorno) prevedeva: 1) agevolazioni fiscali e finanziarie; 2) contributi a fondo perduto del 20% per piccole e medie industrie; 3) la costituzione di consorzi per attrezzare e gestire aree industriali; 4) vincolava le aziende a partecipazione statale a localizzare nel Mezzogiorno il 60% degli impianti industriali e il 40% degli investimenti complessivi. Nel quinquennio 1959-1963 si insediano al Sud grandi complessi pubblici e privati che operavano nella siderurgia, nella chimica e nella petrolchimica. La scoperta del cosiddetto “oro nero” (bisogna dire di pessima qualità! Si è parlato del “peggiore greggio del mondo”)31, alimentò, speranze, volontà di riscatto, industrializzazione, sviluppo in un contesto come quello gelese in cui erano rimaste deluse le aspettative del mondo contadino, notevoli erano i processi migratori, forte il potere della grande proprietà terriera e della mafia.
Scriveva Vittorio Nisticò in un editoriale de L’Ora del 26 marzo 1960, a pochi mesi dai moti
palermitani del luglio ‘60:
Confessiamo che l’annuncio ufficiale, dato da Mattei, dell’imminente inizio dei lavori per la
costruzione del complesso di Gela – uno dei più grandi complessi industriali d’Europa – ci ha dato un senso di genuina emozione.
Dove stagna da tempo una depressione secolare stanno per aprirsi grandiose prospettive di lavoro e di attività moderna; dove di antica grandezza non restano che ricordi muti e ruderi sta per nascere una città nuova, una vera e propria capitale del petrolio, la cui presenza modificherà molte cose. Ci vuole infatti poco per prevedere che Gela, se da una parte potrà contribuire, come ci auguriamo, a fare della Sicilia il secondo “triangolo industriale” d’Italia, darà dall’altra parte l’occasione al nostro paese di avere in una Sicilia avviata all’industrializzazione un centro propulsore in pieno Mediterraneo, ossia in un crocevia che con la ripresa del mondo asiatico e il moto di indipendenza degli africani sta già ridiventando uno dei passaggi obbligati dei rapporti mondiali della civiltà umana. 32
Emanuele Macaluso faceva osservare che con le lezioni dl 1953 il blocco di centrodestra ricevette un forte colpo d’arresto anche in relazione alla spaccatura che vi provocò la “legge truffa”: La sconfitta elettorale e politica del 1953 suggerì alla DC un “rinnovamento” politico e organizzativo di cui si fece portatore Fanfani con l’intento di riaggregare un blocco di potere su basi più “moderne”. In tutto il Mezzogiorno e in Sicilia si apriva una nuova fase economica. L’economia granaria era in crisi e si iniziava il grande flusso migratorio mentre entravano in funzione i nuovi strumenti della politica riformista: la Cassa per il mezzogiorno e gli enti di riforma agraria. Si cominciò allora a parlare anche di una espansione capitalistica verso il sud e si creò l’illusione che l’arrivo dei grandi
gruppi monopolistici pubblici e privati avrebbe liquidato l’arretratezza meridionale.
In Sicilia per di piú l’odore del petrolio attirava l’interesse tanto degli americani che dell’ENI: grandi speranze,grandi inganni e grosse delusioni si profilavano all’orizzonte dell’isola. E’ il tempo in cui Palermo e le altre città s’ingrossano per l’afflusso di burocrati e poveri cristi dai paesi dell’interno che si spopolano. La mafia sistema i suoi uomini nella burocrazia regionale e negli enti pubblici regionali. Si cominciano a dare i primi colpi di piccone che abbattono le villette di via Libertà e si dà l’avvio a uno sviluppo edilizio pilotato da gruppi di speculatori che “intuiscono” e impongono la direzione di espansione della città. Da allora in poi i nuovi quartieri e le “varianti” al piano regolatore portano i nomi della vecchia e nuova mafia in un intreccio di interessi e di delitti che trova nel municipio di Palermo un punto di propulsione e di raccordo.
All’interno della DC palermitana le acque sono agitate. Il vecchio blocco di potere, fondato su notabili cattolici e sul ceto di professionisti governativi per vocazione e interesse, garanti di “buona amministrazione” tolleranti e comprensivi per il “ruolo d’ordine” che esercita la mafia contro le teste calde della delinquenza e le impazienze dei comunisti, è in crisi33. Nelle “Note cronologiche” di Accadeva in Sicilia di Nisticò dà notizia di un importante convegno del Cepes (Comitato europeo per il progresso economico e sociale), tenuto a Palermo e organizzato dalla Sicindustria, l’organizzazione degli industriali siciliani presieduta dall’ing. Domenico La Cavera:
Vi partecipano i massimi esponenti del capitalismo italiano: il prof. Valletta (Fiat) che tiene la relazione introduttiva, Giorgio Valerio (Edison), Farina (Montecatini), De Micheli (presidente della Confindustria) insieme agli stati maggiori di Confagricoltura,e Confcommercio. Richiamati dalla scoperta del petrolio e dalle prospettive di sviluppo industriale, oltre che dalle generose risorse finanziarie della Regione, mettono a punto le condizioni per la loro “calata” nell’isola. In sostanza chiedono l’assoluto controllo da parte dell’iniziativa privata e disco rosso per quella pubblica, in primo luogo l’ENI, niente programmazione34.
Ma quanto a programmazione e progettualità, il convegno ebbe ben pochi risultati.
Che quel decennio sia stato vitale e dinamico lo testimonia Paolo Sylos Labini, che insegna in Sicilia negli ultimi anni ’50, e in quegli anni conduce una importante ricerca sull’economia siciliana, pubblicata nel 1966 da Feltrinelli in un volume da 1500 pagine. Tornando a riflettere sulla questione (Sylos Labini 1980) identifica nella fine degli anni ‘50’ il blocco della crescita del manifatturiero, fissando il punto di svolta nel 1958:
Durante il periodo che va dal 1951 al 1958, i fenomeni più notevoli sono costituiti dall’esodo agrario (che poi si accelera), da un certo sviluppo dell’occupazione dell’industria, dei servizi e della pubblica amministrazione. Dopo il 1958 l’occupazione industriale tende a ristagnare; fino al 1958 cresce, come risultato di una somma algebrica, data dal calo dell’occupazione delle unità artigianali premoderne e dallo sviluppo di unità artigianali e industriali di tipo moderno e dalla creazione di grandi stabilimenti […]. Si tratta di uno sviluppo industriale particolare, simile a quello che si osserva in altre regioni meridionali: compaiono alcune grandi unità provenienti da fuori, ma sorgono anche, localmente, numerose piccole unità35.
E Sylos Labini testimonia anche il ruolo di La Cavera e delle “spinte sociali” che Sicindustria rappresentava: In quel periodo noi assistiamo a spinte sociali ed a strategie politiche molteplici e contraddittorie, provenienti dagli stessi gruppi sociali. Interessante è l’episodio dell’industriale La Cavera […] che si era fatto fama di “enfant-terrible” della Confindustria, perché era entrato in conflitto con De Biase, un personaggio potente in quell’organizzazione. La Cavera cercava di far valere le esigenze dell’industrializzazione dell’isola, sia attraverso una politica d’incentivazione, sia attraverso iniziative industriali di tipo regionale”36.
Oltre al petrolio in Sicilia si trovavano zolfo, salgemma e sali potassici che nel dopoguerra avevano trovato un ampio mercato soprattutto nel campo dei fertilizzanti agricoli. Nel 1963 il Parlamento regionale siciliano crea l’EMS, l’Ente minerario siciliano col progetto ambizioso di unificare le miniere di zolfo, di riorganizzarle e ammodernarle e alla creazione di un polo per la produzione di fertilizzanti. L’EMS avrebbe dovuto essere l’organismo propulsore di una politica energetica dell’isola, in realtà era uno dei pilastri sui quali poggiava “la malsana idea della Regione imprenditrice”37 e che sarà al centro di tanti scandali e di inauditi sperperi delle risorse pubbliche. “L’Eni in “formato siciliano” - hanno documentato Enrico del Mercato ed Emanuele Lauria -è stato “uno dei più grossi carrozzoni comparsi nel pur ricco territorio dell’apparato parastatale” che ha accumulato debiti per 120.000.000.000 di lire, costi per personale e funzionamento pari a 25.000.000 di lire e che è costato invece 1.500.000.000.00038.
Ma tutto ciò ha solamente fatto balenare il miraggio del decollo industriale della Sicilia, dello sviluppo. Ben presto, Gela è costretta a fare amaramente i conti con una pratica di sviluppo distorto calato“dall’alto”, non integrato nel territorio, con un processo di industrializzazione distante dalla società reale, dalla cultura, dalla politica, dalle istituzioni.
Il 17 giugno 1960 viene posata la prima pietra del nuovo stabilimento petrolchimico dell’Eni a Gela. Un evento epocale per i suoi abitanti, che sognano facili ricchezze e l’abbandono delle incertezze e delle fatiche dell’agricoltura. Non immaginano ancora che la grande industria che si sta insediando nel loro territorio avrebbe causato gravi squilibri ambientali, e sollevato gravi problemi per la salute dei suoi cittadini. Da allora si è sviluppato uno stretto rapporto tra il Polo petrolchimico e Gela. Da un lato l’azienda offre posti di lavoro di fondamentale importanza in una Città che non è stata capace di sviluppare un settore industriale parallelo o ingrandire il terziario. Di contro però rappresenta anche il “nemico” che inquina il mare e avvelena i cittadini. L’area di Gela è stata dichiarata ad alto rischio
di crisi ambientale già dal 1990 dallo Stato italiano. Una complessa situazione nella quale gli abitanti si trovano costretti a preferire l’essere ammalati piuttosto che l’esser disoccupati.

6. “Risorse nascoste”, spreco e sviluppo”dal basso”
Renée Rochefort, una giovane studiosa di geografia sociale francese, venuta in Sicilia tra il 1954 e il 1959, autrice di Le travail en Sicile, una importante ricerca sulla Sicilia degli anni cinquanta la cui traduzione italiana è apparsa nel 200539, aveva messo in guardia contro pericolosi processi unidimensionali di sviluppo e calati unicamente dall’alto, al fine di dare sistematicità alle strategie e alle politiche di sviluppo.
Il lavoro da sviluppare era di ben altro respiro utilizzando una prospettiva di sviluppo dal basso non sganciata dall’integrazione sociale. In primo piano Danilo Dolci metteva la conoscenza del territorio e l’interazione sociale: Dovevamo interpretare i racconti e i documenti alla luce delle conoscenze acquisite, dovevamo comparare le testimonianze viventi con le condizioni riservate altrove al lavoro e ai lavoratori.
Abbiamo voluto rischiare, e tentare una sorta di lettura globale della realtà umana del lavoro, nella sua pluri-dimensionalità; una specie di lettura globale applicata40.
Si può dire che il metodo della Rochefort, tipicamente dolciano41, anticipa la riflessione più attenta sui nodi del sottosviluppo e sulle vie dello sviluppo possibile cercando di individuare quei “blocchi concettuali, tra loro fortemente interdipendenti”, di cui parla Albert O. Hirschman per spiegarsi la “combinazione” di fattori di sviluppo di un sistema economico, e gli eventuali “blocchi”che ritardano, occultano o impediscono il raggiungimento di determinati obiettivi42.

Che una studiosa francese fosse venuta fin qui per studiare il lavoro in Sicilia sembrava una cosa “aberrante, offensiva”. Ma il tentativo di superare questa diffidenza andava fatto comunque se poteva servire a scoprire le diverse “sfaccettature della realtà”. E così spiega le grandi difficoltà incontrate: Cominciammo a comprendere che in Sicilia, più che altrove, senza dubbio, la verità dipende da quanto se ne può ricavare. Gli intervistati non riferivano spesso che ciò che ritenevano utile che a nostra volta dicessimo. È come vedremo, la lezione di un popolo schernito, portato per difendersi a modellare i fatti sui suoi desideri o i suoi rimpianti, o le sue passioni. Noi, che avevamo immaginato il problema siciliano intellettualmente più accessibile che non quello, per dire, dell’insondabile India, ci ritrovavamo continuamente davanti ad enigmi, misteri, conversazioni incomplete, quando non finivamo con lo sbattere contro quel muro di silenzio e di segreto eretto davanti a coloro che vengono da fuori, da Roma o da Milano, da Parigi o da Chicago. Ci capitava di cozzare pure contro una sorta di mentalità pirandelliana, a uso esterno e interno al tempo stesso: la gente si muoveva in un mondo in cui una qualità è allo stesso tempo il suo contrario. Contraddizioni del genere emergevano in particolare, beninteso, intorno a una questione tanto controversa di solito qual è il lavoro; tesi e antitesi si contrapponevano con il massimo di scarto, che si trattasse dell’informazione o della sua interpretazione43.
In un’ampia ricerca sull’economia siciliana di ben 1.484 pagine, apparsa nel 1966, finanziata e pubblicata da Feltrinelli, Sylos Labini evidenziava il “delicato stadio di transizione” nel quale si trovava la Sicilia, “uno stadio intermedio fra la completa arretratezza e un processo di sviluppo capace di sostenersi da sé”44.
Nell’aprile del 1960 si tiene nella profonda Sicilia, a Palma Montechiaro, una delle iniziative più rilevanti che approfondivano l’analisi sulle condizioni socio-economiche dell’isola e sulle condizioni di uno sviluppo reale dal basso. Ci riferiamo al Convegno sulle condizioni di vita e di salute in zone arretrate della Sicilia occidentale tenutosi il 27, 28, 29 aprile 196045 al quale parteciparono scrittori, politici, economisti, e sociologi di livello nazionale e internazionale e che rimane comunque un punto di riferimento importante per comprendere gli approcci ai problemi del sottosviluppo nell’immediato dopoguerra in Sicilia46. In questo convegno Danilo Dolci spiegava i contenuti fondamentali della sua iniziativa in Sicilia che saranno definiti in Spreco47 consistenti in estrema sintesi:
1. nella critica della politica meridionalistica dello Stato italiano “paternalistica” e mai
indirizzata ad aiutare effettivamente la crescita economica, sociale e culturale puntando sullo sviluppo delle “risorse potenziali”;
2. nella possibilità di iniziare uno sviluppo “dal basso” fondato sulla piena utilizzazione
delle risorse locali, mal utilizzate per ignoranza e per disorganizzazione;
3. nell’attuare questo progetto attraverso l’unione degli interessati nell’ambito locale
(comuni), i quali prendano collettivamente coscienza dei problemi e assieme elaborino delle soluzioni utilizzando anche le competenze degli esperti e dei tecnici;
4. nell’attuare forme di pressione e di azione non violenta che potessero stimolare la
partecipazione, la formazione dell’opinione pubblica, la mobilitazione collettiva per
condizionare “dal basso” le politiche e l’attività legislativa dello Stato . Nella sua relazione
al convegno Dolci metteva l’accento sullo “spreco”, sull’immane spreco di risorse umane
innanzitutto e quindi sulla mafia e sulla violenza. Allora spreco di cose che non vengono valorizzate, qualcosa che va direttamente sciupato è spreco perché si spende soldi in cose che si potrebbe avere gratuitamente, ecc. Anche in questo campo potremmo fare centinaia e centinaia di esempi. Ma tutto questo significa anche, tradotto in altre parole, basso livello tecnico-culturale. Siamo di fronte ad una popolazione intelligente, ad una
popolazione di buona volontà, è chiarissimo (in tutti questi anni io non ho quasi trovato delle persone, non ho - posso dire - mai trovato delle persone che non lavoravano avendo lavoro, avendo la possibilità di lavorare): ma difficoltà a capire quali, effettivamente, in modo preciso, sono i problemi e come si potrebbero risolvere.
Tra tutte queste forme diverse, queste categorie diverse di sprechi, il più grande degli sprechi diventa quello dell'uomo, di questo uomo intelligente e di buona volontà che viene a ridursi a lavorare, tanto sia piccolo proprietario che bracciante, bracciante edile o bracciante agricolo, circa 100-110-120 giorni all'anno, rimanendo non valorizzato per circa almeno 200 giorni 1'anno: e questo è il più grande degli sprechi, perché il lavoro non è soltanto una forma per produrre, una forma di produzione e di arricchimento, ma - voi sapete - è un mezzo fondamentale per la formazione della personalità degli uomini. Gli uomini difficilmente, senza il lavoro, senza i soldi e senza il lavoro in se, possono realizzarsi proprio come uomini; e questo è lo spreco maggiore, lo spreco degli uomini, lo spreco delle donne che rimangono chiuse nelle loro case, lo spreco dei bambini, non soltanto: dei bambini che muoiono (ieri s'è detto delle cifre:muoiono fino al 10, al 10,9% com'è capitato sei mesi anche qua, se non sbaglio) ma spreco di questi bambini che non
riescono a realizzarsi persone, valorizzando al massimo tutta la loro personalità, tutto quello che c'è di potenziale, di possibile dentro di loro: questo veramente è il più grande e il più - ieri diceva Silvio - il più criminale degli sprechi.
Cosa significa questo basso livello tecnico-culturale rispetto al piano politico di struttura? Significa che molta gente, essendo impossibilitata a vedere un vasto orizzonte e a vedere più a fondo, più analiticamente, molta gente non sa effettivamente quali sono i propri interessi e, per esempio, sul piano politico vota, credendo di far bene, contro i propri interessi, e questo è il fenomeno di un terzo quasi, certamente di un quarto, della popolazione48.
L’iniziativa di Dolci e del gruppo di ricerca pluridisciplinare che collaborava col Centro Studi, partiva proprio dall’individuazione e valorizzazione dei fermenti culturali e politici nella comunità partinicese, per costruire un progetto di programmazione dal basso, di partecipazione e di intervento. Ciò, in una società caratterizzata dal peso della guerra fredda, dal dominio delle ideologie, dalle prassi burocratizzate dei partiti, aveva contribuito ad accendere i riflettori, nella Sicilia del dopoguerra, su un nuovo modo di intendere la politica, la partecipazione, la democrazia, la formazione e l’attuazione delle politiche pubbliche, sulla scorta del coinvolgimento di studiosi di livello nazionale ed internazionale e di esponenti della comunità locale si realizzavano inedite esperienze di partecipazione e di programmazione dal basso che si confermano a tutt’oggi questioni centrali per una nuova concezione dei processi di sviluppo e della democrazia. L’esperienza dolciana non è tutta riconducibile a schemi lineari, essa non è priva infatti di difficoltà – e a volte persino di rotture traumatiche o di frizioni – relative ai moduli organizzativi, ai contenuti e alla lettura dei processi socio-economici e ai nodi del sottosviluppo. Ciò soprattutto alla svolta degli anni ’60 che poneva agli scienziati sociali e alla politica la necessità di una rifondazione delle categorie tradizionali di intendere lo sviluppo, la politica, la partecipazione e la costruzione della democrazia. Costruire società civile, opinione e volontà collettiva significava costruire processi innovativi fondati sulla relazione comunicativa, e sulla reciprocità, sull’organizzazione e autoorganizzazione delle comunità. L’esperienza dolciana e delle comunità della Sicilia Occidentale, si collegano, in questo modo, con tanta parte della riflessione contemporanea. Il metodo dolciano, assai lontano inoltre – bisogna ammettere – da una certa rappresentazione apologetica che ne viene fornita e tanto in voga oggigiorno (che pacifica, per l’appunto, sostenitori e detrattori di Dolci), proprio nelle sperimentazioni a Partinico ha mostrato come una sua declinazione conflittuale, intesa come generazione di “tensioni” e di “rotture”, non fosse altro che l’unica strada alternativa percorribile per riuscire ad “immaginare” una Sicilia svincolata dallo stereotipo dell’arretratezza, del sottosviluppo, della miseria, una Sicilia liberata da immagini sclerotizzanti di terra rassegnata alla paralisi, immune alla modernità e al cambiamento49. Hytten e Marchioni precisavano, dal canto loro, che prendendo le mosse dal caso Gela avevano voluto fare un discorso valido per l’intero Mezzogiorno, un’analisi critica delle politiche meridionalistiche e di mettere in evidenza i risultati di un’esperienza di industrializzazione che sarebbe stata destinata, senza le tempestive e opportune inversioni di tendenza, ad un fallimento tanto più grave quanto più aveva assunto il volto becero di una capitale pubblico e privato di tipo predatorio, incurante della società, delle tradizioni, delle vocazioni territoriali, dell’ambiente. I ciclici disastri ecologici continuano a tutt’oggi a richiamarci impietosamente questa triste realtà.
Questo modello di industrializzazione non piaceva neppure a Domenico La Cavera che, con la sua Sicindustria, era uno dei massimi sostenitori dello sviluppo industriale della Sicilia. In merito La Cavera ebbe a precisare che al fine di una seria prospettiva di industrializzazione della Sicilia non bastava né l’agricoltura né il solo turismo “anche se – diceva – il turismo è una delle cose da affrontare con serietà, perché veramente può essere una forma di sviluppo”. Occorreva ben altro: “ci voleva l’industria manifatturiera nelle cattedrali nel deserto, “non tutte quelle porcherie che hanno fatto a Siracusa e a Ragusa che hanno fatto diventare la Sicilia una pattumiera”. La responsabilità di questo scempio era, per La Cavera, di forze interne alla Sicilia e di colonizzatori esterni: La Sicilia è diventata la pattumiera del Mezzogiorno per colpa degli ascari, di coloro che per essere ben visti dalle potenze del nord, hanno aperto le nostre porte a questi qua che hanno solo approfittato e hanno tentato di colonizzare la nostra terra. Perché non è vero che hanno utilizzato al meglio le nostre produzioni: loro ci hanno abbandonato50.
Quel tipo di sviluppo calato dall’alto nuoceva anche al settore primario. Per quanto riguarda l’agricoltura51 bisognerà osservare che il progresso “lento e faticoso”52 del settore primario nella piana di Gela si era verificato sulla base di fattori del tutto estranei al processo di industrializzazione. Tuttavia le speranze che l’industria di Stato, di fronte al “prevedibile distacco tra l’agricoltura locale e gli altri settori produttivi, avrebbe trovato dei mezzi di compenso ai fini di uno sviluppo più equilibrato, finora non sono state appagate”53.
Era del tutto evidente quali sarebbero state le conseguenze dell’amara vicenda
dell’industrializzazione di Gela: Nel caso specifico, le cose non potevano andare diversamente da come sono andate; che questo determinato intervento industriale in questa realtà socio-culturale non avrebbe mai di per sé potuto scatenare un processo di sviluppo; che non si tratta,quindi, di ricercare le singole responsabilità o deficienze né di indicare soluzioni riparatorie, ma di prendere lo spunto da questo caso per rivedere
radicalmente le premesse, gli strumenti e le finalità dell’intera politica nel Mezzogiorno, sia essa fondata sull’industrializzazione concentrata che su altri tipi di intervento54.
L’ambiguità del ruolo dell’industria petrolchimica emergeva anche nella mancanza di
incentivazione allo sviluppo di nuove iniziative industriali locali o di sostegno a quelle modeste esistenti. Come testimonia un caso citato nelle pagine conclusive di Industrializzazione senza sviluppo risalente al primo periodo dell’insediamento dell’industria petrolchimica: Un giovane imprenditore locale – raro esempio di quella classe imprenditoriale sul quale vengono riversate tante speranze, e che pertanto diventa anche il capro espiatorio di tutti gli insuccessi che si producono – ebbe la brillante idea di mettere su un piccolo impianto per la produzione di fusti di latta di cui, ovviamente, un grande stabilimento petrolchimico avrebbe avuto continuo bisogno. Il calcolo era obiettivamente ineccepibile: una fabbrica moderna, capace di assicurare il rifornimento di fusti di qualità con il risparmio delle spese di trasporto, avrebbe avuto il mercato assicurato dalla sola azienda di Stato. Ciò venne anche confermato, in termini generici, dall’allora direzione dell’Anic, e l’imprenditore commise lo sbaglio di fidarsene e di contrarre ingenti debiti per la costruzione della propria azienda. All’inizio della fase produttiva, invece, si rivelò che l’Ente di Stato aveva già da tempo concordato il rifornimento di fusti da una grande
impresa nel napoletano, ciò che mandò l’imprenditore locale sulla strada della bancarotta55.
La stessa progettualità di Enrico Mattei basata sulla “pubblica utilità” dell’iniziativa industriale non veniva interpretata in ambito locale secondo l’impostazione originaria:
L’utilità pubblica, sociale del progetto era principalmente un argomento a favore dei privilegi particolari richiesti dall’industria di Stato per agevolare un’iniziativa economicamente dubbiosa di cui la validità obiettiva si riferiva, semmai, a criteri di utilità economica e di prestigio a livello nazionale, mentre ben poco lascia credere che le esigenze di sviluppo locale fossero tra le motivazioni che spinsero l’ente ad insistere sull’impianto a Gela. La constatazione che l’impianto industriale non comportava automaticamente il rovesciamento della situazione socio-economica e che l’industria rappresentava una realtà sempre più avulsa dai principali problemi locali, ha perciò motivato una tendenza a vedere il suo assenteismo come un tradimento dei propositi originali, specie dopo la scomparsa di Mattei che sembrava il garante paternalistico degli intenti sociali di cui l’impianto petrolchimico sarebbe stato soltanto la prima realizzazione56.

7. Industrializzazione senza sviluppo, un classico che ha ancora molto da dire
Il libro di Hytten e Marchioni in pochissimo tempo sparì dalle librerie come ha spiegato Sergio Nigrelli su la Repubblica: Il tempo è galantuomo. Ne sa qualcosa Marco Marchioni, un sociologo romano che alla fine degli anni Sessanta venne a Gela assieme ad un collega svedese, Evydin Hytten, per approntare uno studio per conto dell'Eni che affrontasse le problematiche legate allo sviluppo industriale ed al territorio. Doveva essere, in buona sostanza, uno studio per fare sapere ovunque che l'azienda di Stato lavorava in perfetta sintonia con la gente e con l'ambiente. A certificare tutto dovevano essere proprio i due sociologi. Ma le cose non andarono così. I due professionisti lavorarono a Gela per due anni. Considerata la lunghezza dell'incarico portarono con loro le famiglie. Fu un lavoro paziente e difficile alla fine del quale i professionisti si trovarono dinanzi ad un bivio: le loro conclusioni erano del tutto opposte rispetto al lavoro che gli era stato commissionato. Il quadro che si erano trovati di fronte era quello di una «industrializzazione senza sviluppo». Da qui il titolo di un libro pubblicato da Angeli in aperta polemica con l'Eni e con la sua collegata Anic. Lo studio fu pubblicato in 2000 copie ma nessuna di queste raggiunse i lettori, perché l'Eni le acquistò tutte in blocco. Lo ha raccontato uno degli autori in questi giorni a Gela per ritirare un premio. «A Gela il libro non si trovava - racconta Mario Marchioni - e andai a Palermo alla libreria Flaccovio per ritirare qualche copia per gli amici. Lì mi dissero che erano finite tutte. Un signore era passato a ritirarle in blocco». Marchioni e la vedova di Hytten sono tornati nei giorni scorsi a Gela non solo per ritirare un premio patrocinato dall'amministrazione comunale ma anche perché la giunta presieduta dal sindaco Franco Gallo ha deciso di ristampare a proprie spese quello studio che allora venne censurato silenziosamente. Una sorta di risarcimento tardivo che fa il paio con il fatto che l'amministrazione comunale proprio l'altro ieri si è costituita parte civile in un processo contro l'Eni per inquinamento ambientale57.
A distanza di quarantatré anni, è certo che il messaggio di Industrializzazione senza sviluppo non è stato utilizzato al fine di una inversione di tendenza, come sostenevano i due autori, nelle politiche per l’industrializzazione, per il Mezzogiorno, per un tipo di sviluppo in grado di avvicinare crescita economica e benessere. L’assenza di un rigorosoprogetto di sviluppo industriale e la tragedia dei casi Thyssen, Eternit, Ilva ne sono la dolorosa testimonianza.. Il libro di Hytten e Marchioni non ha certamente pesato sulla memoria storica. Giustamente Leonardo Sciascia considerava al condizionale il futuro della memoria. Ma ci sono molte buone ragioni per ritenerlo un classico. Con la precisazione che intendiamo la classicità nel senso in cui la pensava Italo Calvino il quale si poneva una domanda precisa: come nascono i classici?
Si tratta di quei testi – rispondeva – “che quanto più si crede di conoscerli per sentito dire, tanto più quando si leggono davvero si trovano nuovi, inaspettati, inediti”. Insomma, per Calvino “Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire”58.
E’ ancora possibile, tuttavia, sperare nella formazione di classi dirigenti con lo sguardo meno corto. A queste ultime Industrializzazione senza sviluppo avrà ancora molto da dire.
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N O T E:
1 “Il termine “polo di sviluppo”, quello di “sviluppo sbilanciato”, e quello a entrambi legato di “politica dei poli di
sviluppo” non sono privi di consistenti ambiguità, spaziali, cronologiche, relative all’unità definibile come polo, ai rapporti tra poli e teorie della localizzazione, ai tipi di relazioni tra polo ed altre entità produttive. Qui si farà riferimento all’accezione che il termine finì per assumere nel dibattito italiano, vale a dire una politica volta all’insediamento in aree meridionali di grandi industrie esterne, prevalentemente, ma non esclusivamente, di base, al fine di promuovere la soluzione del problema del minore sviluppo meridionale. Sarà bene ricordare che la politica dei poli si inseriva in una più ampia politica di industrializzazione per il Mezzogiorno; questa da un lato portava prevalentemente all’insediamento di tali impianti in aree che avessero già mostrato primi fenomeni di agglomerazione, dall’altro non si esaurì nello sforzo per la costruzione di grandi imprese: varie forme di incentivazione alla polarizzazione furono rivolte ad imprese piccole e medie all’interno delle aree e dei nuclei di sviluppo industriale” (Elio Cerrito, La politica dei poli di sviluppo nel Mezzogiorno. Elementi per una prospettiva storica, in Banca d’Italia, “Quaderni di storia economica, n.3, giugno 2010).
2 J.H. Goldthorpe, (2000), Sulla sociologia, il Mulino, Bologna 2006: 57.
3 Sulla crisi e sul futuro del capitalismo è necessario valorizzare e sviluppare lo spirito critico, centrato sulla riforma e non sull’abolizione del capitalismo. Si tratta di quello spirito critico sul capitalismo contemporaneo che caratterizza le più recenti riflessioni dello studioso italiano Giacomo Becattini su quel “capitalismo ruggente” che macroscopicamente esibisce un contrasto profondo «fra la crescita generale di potenzialità di miglioramento umano e la loro realizzazione, sempre monca e distorta» (G.Becattini, Per un capitalismo dal volto umano. Critica dell’economia politica, Bollati Boringhieri, Torino: 23) Becattini ritiene disumani alcuni degli aspetti del capitalismo contemporaneo: “Tali mi appaiono non solo le miserrime condizioni di vita di gran parte del pianeta a fronte di larghe zone di scandalosamente esibita opulenza, ma anche l’imbarbarimento generale dei costumi che a me pare si leghi al trionfo del principio che c’è un prezzo per tutto. In fondo a questa strada non ci sono il libero mercato e la democrazia, come si vorrebbe far credere, ma, io penso, il ferino bellum omnium contra omnes. Per non parlare della poderosa spinta al deterioramento dell’ambiente naturale di un’industrializzazione sfrenata, che eccede di molto la controspinta alla sua conservazione (G. Becattini, Per un capitalismo dal volto umano: 23]. Guido Rossi, sviluppa la sua critica al capitalismo contemporaneo dal versante della perversa,
costante erosione delle norme: “La continua erosione delle regole non si limita a far apparire accettabili comportamenti individuali o collettivi, che fino a poco tempo fa sarebbero stati aspramente (e giuridicamente) sanzionati, ma tocca i valori su cui si reggono le società in cui viviamo, a cominciare dal modello che, in forme neppure tanto diverse, le ispira tutte: il capitalismo avanzato” (G. Rossi, Il gioco delle regole, Adelphi, Milano, 2006: 11-12). Il paradosso del sistema capitalistico diventa così “quello di un’economia soffocata da un numero pressoché immaginario di norme legislative, ma in realtà governata da regole che i principali attori del sistema di volta in volta scelgono, a seconda delle proprie convenienze, nascondendosi dietro lo slogan della libertà contrattuale”(G. Rossi, Il gioco delle regole: 28). “La prima vittima di questo paradosso è il cuore del sistema:
cioè il mercato … La pratica negoziale, sorretta dalla legge, potrebbe trasformarsi in uno strumento attivo dello sviluppo democratico che coinvolge gli stakeholders in maniera ufficiale e permette di pervenire a soluzioni e decisioni ragionate, basate su una nuova forma di legittima quello di un’economia soffocata da un numero pressoché immaginario di norme legislative, ma in realtà governata da regole che i principali attori del sistema di volta in volta scelgono, a seconda delle proprie convenienze, nascondendosi dietro lo slogan della libertà contrattuale” (G. Rossi, Il gioco delle regole:
5 Cfr. E dopo Taranto Gela. Nell'area del petrolchimico allarme malattie e tumori. Ecco in esclusiva i dati del disastro. Nel mirino dei magistrati, L’Espresso, 7giugno 2013. L’articolo di approfondimento interno, La strage degli innocenti, ha il seguente sottotitolo: Analisi della mortalità (anni 2004-2011) e della mortalità (ricoveri ospedalieri per gli anni 2007 – 2011 nell’area di Gela. Differenza percentuale rispetto ai comuni limitrofi. “Comune, Regione e ministero dell'ambiente – scrive L’Espresso - sembrano voler puntare – per ridurre i danni all'ambiente e alla salute – sugli investimenti di recente "imposti" all'Eni. Lo scorso gennaio la raffineria ha finalmente ottenuto l'autorizzazione di impatto ambientale che prevede il rispetto di 200 adempimenti, "In ambito emissivo" spiegano dalla Raffineria "sono stati prescritti limiti particolarmente restrittivi, il 50 per cento in meno rispetto alle precedenti autorizzazioni". L'Eni puntualizza che nell'ultimo decennio sono stati comunque effettuati "una serie d'interventi migliorativi in campo ambientale, con un investimento che si aggira sui 300 milioni: abbiamo realizzato un impianto di trattamento dei fumi della centrale con la migliore tecnologia esistente, i doppi fondi sui serbatoi di stoccaggio, la copertura del parco coke. Sarà. Ma i nuovi dati epidemiologici che "l'Espresso" ha consultato in esclusiva fotografano una situazione ancora drammatica: “… Secondo gli studiosi il rischio degli uomini di Gela di morire rispetto a coloro che vivono nei Comuni vicini è più alto del 6,8 per cento, mentre per le donne l'eccesso è statisticamente significativo sia sul confronto locale (più 12,3 per cento) sia rispetto ai dati regionali (più 8,2 per cento). L'analisi delle tabelle sulla "mortalità" in alcuni casi sono persino peggiori rispetto a quelle di Taranto. Rispetto alle città più vicine, a Gela i maschi muoiono di più per tutti i tipi di tumore (più 18,3 per cento), per il cancro infantile (più 159,2 per cento), per il tumore allo stomaco (più 47,5 per cento), alla pleura (più 67,3 per cento) alla vescica (più 9,6 per cento), per non parlare dell'incidenza del morbo di Hodgkin (più 72,4 per cento), del mieloma multiplo (più 31,8 per cento) e delle malattie del sistema circolatorio (più 14,2 per cento). Alto lo "spread" anche nei confronti delle statistiche regionali: a Gela l'incidenza dei tumori degli under 14 è maggiore del 68,1 per cento, più decessi anche per i tumori al fegato (più 20,9 per cento), alle ossa (32,8 per cento), al testicolo (più 209,4 per cento) e per le malattie cerebrovascolari (più 36,6 per cento). Sono centinaia gli operai che hanno lavorato al petrolchimico ad esser finiti dentro i nosocomi sparsi nella provincia di Caltanissetta. Molti di loro hanno lavorato all'ex impianto Clorosoda, chiuso a metà degli anni '90. Un reparto foderato d'amianto con 52 celle piene zeppe di mercurio, usato per produrre soda caustica e idrogeno: secondo le testimonianze delle tute blu, il metallo veniva raccolto con secchi e mestoli. Il genetista Bianca, perito di parte della procura gelese che ha aperto un'inchiesta su 13 decessi sospetti indagando 17 dirigenti ed ex dirigenti delle società dell'Eni che hanno gestito negli anni il Clorosoda (le accuse vanno dall'omicidio colposo alle lesioni personali gravi), ha certificato le presenze di tumori ai polmoni, all'esofago e alla tiroide, senza parlare delle malattie cardiovascolari e all'apparato respiratorio. Gli operai sopravvissuti oggi perdono unghie e capelli, ad alcuni si sono sbriciolati i denti, probabilmente a causa dell'esposizione prolungata al mercurio. I padri di famiglia impiegati al petrolchimico, però, non sonno le uniche (e per ora presunte) vittime del "Mostro". Centinaia di figli maschi dei gelesi sono infatti nati malformati, colpiti in particolare dall'ipospadia, che secondo Bianchi a Gela "risulta tra le più alte mai viste al mondo". Ma anche le donne che non hanno mai messo piede all'Eni hanno probabilità record di ammalarsi. Secondo le tabelle dell'Osservatorio, oggi anziane, quarantenni e ragazze gelesi finiscono in ospedale per tumori allo stomaco (più 25,1 per cento rispetto a chi risiede nei comuni vicini), alle ossa (più 28 per cento), alla tiroide (più 30), al sistema nervoso centrale (più 100,6 per cento), all'utero (più 52,6 per cento) e via elencando.”
6 Citazione ripresa dal già citato articolo E dopo Taranto Gela, L’Espresso, 7 giugno
9 E.Hytten, M. Marchioni, Industrializzazione senza sviluppo. Gela: una storia meridionale, Franco Angeli, Milano,1970: 9-108
11 P. Saitta, Spazi e società a rischio ecologia, petrolio e mutamento a Gela, Think tank edizioni, Napoli, 2011
12 P.Saitta, Spazi e società a rischio ecologia, petrolio e mutamento a Gela: 32-33.
13 E.Hytten, M. Marchioni, Industrializzazione senza sviluppo. Gela: una storia meridionale,: 8.
14 A. Mountjoy, Industrialization and
Underdeveloped Countries, Aldine Pub. Co., 1967.
15 E.Hytten, M. Marchioni, Industrializzazione senza sviluppo:15.
16 E.Hytten, M. Marchioni, Industrializzazione senza sviluppo: 7-8.
19 J. Schneider, P.Schneider (1976), Culture and Political economy in Western Sicily, Academic Press. Inc. New York, trad. it. Classi sociali, economia e politica in Sicilia, Rubettino Editore, Soveria Mannelli (Cz), 1989: 269-270.
20 A.Turner, (2000), Just capital. Critica del capitalismo globale, Laterza, Roma- Bari 2002. Turner fa notare che «il capitalismo è stato salvato dai suoi stessi eccessi grazie al contropotere del Welfare State e dello Stato regolatore» (Turner, trad. it. 2002: 437) e che è necessario rimettere in discussione i rapporti tra diritto, economia e finanza, valorizzando un aspetto fondamentale della società postmoderna nella quale «il ruolo dei governi e delle scelte politiche è vitale» (Turner, trad. it. 2002: 435).
21 A.Turner, Just capital. Critica del capitalismo globale:437.
22 A.Turner, Just capital. Critica del capitalismo globale:435
23 Harrison, B. (1994), The Dark Side of Flexible Production, in: “Technology Review”, 97 (4), May/June.
24 Come spiega bene Richard Sennett: «Gli investitori ora di gran lunga più potenti, desideravano risultati a breve termine piuttosto che nel lungo periodo. Essi formavano il quadro di quello che Bennett Harrison chiama il “capitale impaziente”. Cosa importante, il criterio del successo non furono più i dividendi, ma il corso delle azioni. Con la compravendita delle azioni su un mercato aperto e fluido si ottennero guadagni più rapidi – e più cospicui – rispetto a quelli che si ottenevano conservando i propri titoli azionari. Per questo motivo i fondi-pensione americani nel 1965 conservavano azioni nel loro portafoglio mediamente per 46 mesi, nel 2000 questi investitori istituzionali trattenevano i titoli in media 3,8 mesi. Le plusvalenze sui titoli
realizzati presero sempre più il posto dei criteri di misura tradizionali, come il rapporto quotazione guadagno – un fenomeno che toccò il culmine con il boom tecnologico degli anni Novanta, quando alcune aziende videro una crescita rapidissima delle loro quotazioni pur non realizzando profitti […] Le imprese furono sottoposte a un’enorme pressione per sembrare belle a qualche voyeur di passaggio. E un’istituzione era considerata bella quando poteva dimostrare di essere internamente flessibile e capace di cambiare e si presentava come un’“impresa dinamica”, anche se l’impresa a suo tempo stabile aveva funzionato perfettamente. Aziende come Sunbeam ed Enron divennero disfunzionali o corrotte quando cercarono di attrarre l’attenzione di questa parata di investitori» (R.Sennet, (2006), trad. it. La cultura del nuovo
capitalismo, il Mulino, Bologna 2006: 33-34).
25 A guardare ben al di là di ogni romanticismo, i processi di globalizzazione incrementano sempre di più la complessità dei rapporti tra economia, politica e diritto fino al punto che Joseph Stiglitz non può fare a meno di constatare: 30 G. Moro, Lo sviluppo nascosto. Fattori sociali e valutazione delle politiche per il Meridione, Carocci, Roma, 2004: «Contemporaneamente – scrive Moro – si afferma l’esigenza di utilizzare apporti teorici e metodologici che aiutino a comprendere meglio i meccanismi sociali che hanno consentito il verificarsi di esperienze interessanti di crescita in certe realtà territoriali, mentendo tutte le previsioni “ortodosse” dei diversi approcci economici, o che hanno bloccato lo sviluppo in altre aree che, al contrario, sembrava possedessero le potenzialità necessarie. È innanzi tutto importante far riferimento a una concezione dello sviluppo che non sia solo di tipo economico, ma che riguardi gli esseri umani nella loro totalità, secondo la lezione di Amartya Sen» (G.Moro, , Lo sviluppo nascosto. 2004: 31].
26 K.Polanyi, (1944), La grande trasformazione, Einaudi, Torino 1974.
27 P.Bevilacqua, Miseria dello sviluppo, Laterza, Roma-Bari.,2008: 244
28 P.Bevilacqua, Miseria dello sviluppo: 103-104
29 M. Di Meglio, Disapprendere lo sviluppo. Diseguaglianze e scienze storico-sociali, in: Petrusewicz, M.-Schneider, J.-Schneider, P., I Sud. Conoscere, capire, cambiare, il Mulino, Bologna 2009 :36z1. cimento. E dalla sua volontà decisa e trascinante nacquero le nuove fortune di Gela”.
31 Nel discorso all’inaugurazione dello stabilimento dell’Anic-Gela nel 1965,il presidente dell’Eni, ing. Boldrini,
affermava: “Il minerale era di qualità così scarsa che di nessun altro tipo analogo era stata mai tentata l’utilizzazione industriale nel mondo. Ma il genio di Enrico Mattei – desto sempre su ardimentose prospettive – sentiva il fascino di un inedito.
32 V. Nisticò, La città nuova, L’Ora, 26 marzo 1960, ora in Vittorio Nisticò, Accadeva in Sicilia. Gli anni ruggenti dell’”Ora” di Palermo, Sellerio Palermo, 2001, II:153-154).
35 P. Sylos-Labini (a cura di), Problemi dell'economia siciliana, Feltrinelli, Milano,1966: 142-143 .
36 P. Sylos-Labini (a cura di), Problemi dell'economia siciliana: 146.
37 E. Del Mercato, E. Lauria, La zavorra. Sprechi e privilegi nello Stato libero di Sicilia, Laterza, Roma-Bari 2010:
38 E. Del Mercato, E. Lauria, La zavorra:127.
Scrivono Del Mercato e Lauria a proposito dell’Eni e dell’Ente minerario siciliano:
Ha messo nel suo carnet società che producevano bottiglie di vetro e gestivano e gestivano alberghi e, ancora oggi, aspetta di essere chiuso definitivamente. Ha incrociato anche, l’Ente minerario siciliano, la storia nera d’Italia. Quando il centrosinistra che governava a Palazzo dei Normanni decise di metterlo in piedi, infatti, la Democrazia cristiana aveva già trovato l’uomo adatto a guidarlo: si chiamava Graziano Verzotto, veniva dal Veneto, ma aveva già avuto modo di ambientarsi alla perfezione in Sicilia ….In Sicilia Graziano Verzotto rimase fino al marzo del 1975, quando fu costretto a scappare all’estero inseguito da un ordine di arresto: lo accusavano di aver depositato 10.000.000.000 di fondi neri (si trattava di fondi dell’EMS) nei forzieri della banca di Michele Sindona, altro siciliano che ha contribuito a scrivere pagine e pagine del romanzo oscuro della democrazia italiana” (Enrico del Mercato ed Emanuele Lauria, La zavorra:127-128.
39 R.Rochefort, (1961), trad. it. Sicilia anni Cinquanta. Lavoro Cultura e Società, Sellerio Editore, Palermo
41- Le iniziative di Danilo Dolci hanno segnato una stagione significativa nella storia dello sviluppo della Sicilia occidentale attraverso l’elaborazione e la sperimentazione di inediti percorsi di coinvolgimento della società civile, di costruzione di capitale sociale positivo e di partecipazione attiva e consapevole alla vita democratica per mezzo, tra l’altro, di una comunicazione non appiattita sul mero scambio di informazioni, ma piuttosto orientata al valore dell’incontro e della narrazione e dell’impegno civile. Queste iniziative mettevano in discussione, già negli anni Cinquanta, modalità ideologiche di impegno sociale, di costruzione della società civile e di partecipazione. politica. L’iniziativa di Dolci parte dall’individuazione e valorizzazione dei fermenti culturali e politici nelle comunità di Partinico, Balestrate e di altri centri della Sicilia occidentale, per costruire un progetto di programmazione dal basso, di partecipazione e di intervento. Ciò, in una società caratterizzata dal peso della guerra fredda, dal dominio delle ideologie, dalle prassi burocratizzate dei partiti, aveva contribuito ad accendere i riflettori, nella Sicilia del dopoguerra, su un nuovo modo di intendere la politica, la partecipazione, la democrazia, la formazione e l’attuazione delle politiche pubbliche, sulla scorta del coinvolgimento di studiosi di livello nazionale ed internazionale e di esponenti della comunità locale si realizzavano inedite esperienze di partecipazione e di programmazione dal basso che si confermanonella realtà di oggi questioni centrali nello sviluppo della democrazia. L’esperienza dolciana non è tutta riconducibile a schemi lineari, essa non è priva infatti di difficoltà – e a volte persino di rotture traumatiche o di frizioni – relative ai moduli organizzativi, ai contenuti e alla lettura dei processi socio-economici e ai nodi del sottosviluppo. Ciò soprattutto alla svolta degli anni ’60 che poneva agli scienziati sociali e alla politica la necessità di una rifondazione delle categorie tradizionali di intendere lo sviluppo, la politica, la partecipazione e la costruzione della democrazia. Costruire società civile, opinione e volontà collettiva significava costruire processi innovativi fondati sulla relazione comunicativa, e sulla reciprocità, sull’organizzazione e auto-organizzazione delle comunità. L’esperienza dolciana e delle comunità della Sicilia Occidentale, si collegano, in questo modo, con tanta parte della riflessione contemporanea.
42 A. O. Hirschman (1958), trad.it. La strategia dello sviluppo economico, La Nuova Italia, Firenze, 1968.

43 R. Rocheford, Sicilia anni Cinquanta: 60.
44 P.Sylos Labini, Problemi dell’economia Siciliana, Feltrinelli, Milano,1966: V
45 Il convegno si svolse dal 27 al 29 aprile 1960 e gli atti, a cura di Pasqualino Marchese e Romano Trizzino del Centro Studi e Iniziative per la piena Occupazione di Partinico, furono pubblicati in un testo ciclostilato. Vi
parteciparono studiosi e personalità di livello nazionale e internazionale. Fra gli altri: Giorgio Napolitano, Carlo Levi, Leonardo Sciascia, P. Duynstee, Francesco Renda, Ideale Del Carpio, Ignazio Buttitta, Silvio Pampiglione. Del comitato d’onore del convegno facevano parte tra gli altri: Paul Baran, Lamberto Borghi, Johan Galtung, Julian Huxley, Carlo Levi, Pierre Martin, Silvio Milazzo, Ferruccio Parri, Paolo Sylos Labini, Elio Vittorini.
Sul Convegno di Palma scrive Francesco Renda: “Il convegno di Palma Montechiaro volle realizzare, a suo modo, quella “alleanza fra gli uomini di cultura e le classi popolari” con l’intento di “leggere” insieme – coloro che avevano studiato e coloro che avevano vissuto – Palma Montechiaro come era, La Sicilia come era. Ci riuscì solo in parte o non riuscì affatto, come si è visto, sul terreno politico. Ottenne, invece, un qualche risultato sul piano culturale. Almeno per quello, a tutto merito del volume Spreco di Danilo Dolci, da allora in poi, “la terra del Gattopardo” non fu più solo un punto nella carta geografica della Sicilia o solo una voce nel dizionario dei comuni; né fu più solo miseria antica e problema insoluto. L’inchiesta igienicosanitaria
di Silvio Pampiglione divenne uno dei documenti letterari più vibranti, pagina di scienza e di arte nello stesso
tempo”(F. Renda, Storia della Sicilia dal 1860 al 1970, III:493].
46 Cfr. Salvatore Costantino (a cura di), Raccontare Danilo Dolci. L’immaginazione sociologica, il sottosviluppo, la costruzione della società civile, Editori Riuniti, Roma, 2003.
47 D. Dolci, Spreco. Documenti e inchieste su alcuni aspetti dello spreco nella Sicilia occidentale, Einaudi,
Torino,1960.
48 D. Dolci, in Marchese, P., Trizzino, R.(a cura di) 1960, Convegno sulle condizioni di vita e di salute in zone arretrate della Sicilia occidentale. Palma di Montechiaro il 27, 28, 29 aprile 1960, ciclostilato. Dolci affronta poi i problemi del sottoproletariato, della violenza e della mafia:
“Considerando il fenomeno del sottoproletariato, per esempio, che vota per l'estrema destra, siamo di fronte a un caso molto grave, un caso che affrontato potrebbe produrre effetti profondi nella vita di queste zone e nella vita nazionale.
Dunque il primo aspetto fondamentale: una zona statica che non arriva che difficilmente, nei casi migliori, alla coscienza dei propri problemi, arriva attraverso alcune persone, tante volte sono sindacalisti, politici: questi che capiscono, che individuano i problemi, o, tante volte, non sono ascoltati o tante volte sono fatti fuori addirittura, sono ammazzati. Ed ecco un secondo aspetto, sostanziale, di questa zona: la violenza. Voi sapete che esistono al mondo dei paesi più poveri di Palma di Montechiaro e dei paesi della Sicilia occidentale, voi sapete che in India ci sono delle condizioni anche peggiori, ma è molto difficile trovare al mondo delle zone, dei paesi, dove ci sia altrettanta violenza, se noi non consideriamo i momenti di guerra, se noi guardiamo delle situazioni, diciamo normali: non è facile trovare una zona dove ci siano dei fenomeni, per esempio, come questi della mafia. Voi sapete le cifre, le conoscete: nel secondo dopoguerra, secondo delle cifre ufficiali, 520 assassinati fino al '59, più una trentina quest'anno, sono circa 550 persone assassinate dalla mafia. Voi sapete che 38 sindacalisti sono stati assassinati: sono cifre che sono stato spesso ripetute, non sono state confutate, che io sappia; e sapete poi che non soltanto c'era una ragione economica nell'assassinio di questi sindacalisti, ma c'era direi, una ragione più profonda: in una situazione, in una moralità in cui è virtù, è valore, che ciascuno faccia i "fatti propri", il sindacalista veniva considerato un "infame". Io ho cercato di capire cosa avevano per la testa molti avversari dei sindacalisti e mi sono accorto che questi avevano o fatto assassinare o assassinato dei sindacalisti appunto perché, oltre al fatto che rompevano loro le scatole sul piano economico, li consideravano degli "infami", in quanto si occupavano dei fatti degli altri; pensavano: e tu perché non ti fai i fatti tuoi? E allora, è valore é virtù che ciascuno faccia i fatti propri, è considerato fuori dalla moralità della zona chi si interessa degli altri: per cui l'assassinio diventa una ricostituzione, in un certo senso, di moralità. Non sto a dilungarmi su quest'argomento, ma certo è uno dei punti da prendere di petto. Problemi di mafia e problemi di prepotenza e di violenza sono veramente un cancro che andrebbe studiato: io mi auguro che al più presto l'Università di Palermo e anche altre, ma soprattutto questa di Palermo, abbia addirittura un reparto un istituto dedicato allo studio della mafia, perché sarebbe normale, in un paese civile, in un paese sano, studiare i propri mali: è molto triste, molto grave, che noi si pensi che quasi sia una spiritosaggine pensare sia possibile che dall'Università di Palermo si studi la mafia. Voi sapete quanto sarebbe importante tanto più che, parlando chiaro,è molto poco probabile che il parlamento nazionale faccia uno studio del genere, perché difficilmente la gente, la maggioranza, andrebbe a frugare nelle proprie magagne” (D. Dolci, in Marchese, P., Trizzino, R.(a cura di) 1960, Convegno sulle condizioni di vita e di salute in zone arretrate della Sicilia occidentale”.
49 Sul punto sia consentito rinviare a S. Costantino (a cura di), Raccontare Danilo Dolci. L’immaginazione sociologica, il sottosviluppo, la costruzione della società civile, Editori Riuniti, Roma, 2003.
50 Domenico La Cavera, intervento citato da Nino Amadore in L’eretico. Mimì La Cavera, un liberale contro la razza padrona, Rubettino, Soveria Mannelli, 2012: 75.
51 “L’avvio della “industrializzazione” – scrive Giarrizzo – che è dei tardi anni cinquanta, coincide con la
destrutturazione della campagna meridionale che procede con ritmo accelerato, e segna il rivolgimento più vistoso che il Mezzogiorno abbia vissuto: provvedimenti legislativi ed esodo rurale portano a mutamenti dell’assetto proprietario e dei rapporti di produzione: il capitale tradizionale lascia la terra,e si trasferisce nella città alimentando quel boom edilizio che negli anni sessanta e settanta travolge gli argini basi e fragili dell’antica legislazione urbanistica, crea a livello di potere locale coalizioni di interesse speculativo, e di conseguenza rallenta e poi blocca l’adeguamento della normativa (comprese le procedure per la redazione e l’approvazione dei piani regolatori). Le conseguenze nel medio periodo si riveleranno rovinose soprattutto per le città del Mezzogiorno, “gravate” dalla costosa e inefficiente eredità di centri storici di antico splendore e di recente degrado, o arredato da troppe città presepe aggrappate ad erte divenute franose ovvero pronte a scivolare più presso alle maglie della complicata rete viaria del Mezzogiorno” (G. Giarrizzo
Mezzogiorno senza meridionalismo: XXVI).
52 E.Hytten, M. Marchioni, Industrializzazione senza sviluppo:89.
53 E.Hytten, M. Marchioni, Industrializzazione senza sviluppo:ibid
54 E.Hytten, M. Marchioni, Industrializzazione senza sviluppo:16.
55 Industrializzazione senza sviluppo:91.
56 E.Hytten, M. Marchioni, Industrializzazione senza sviluppo:44.
57 S. Nigrelli, L'Eni lo tolse dagli scaffali. Il Comune lo ristampa, la Repubblica, 15 dicembre 2000.
58 Calvino, Perché leggere i classici, Mondadori, Milano 1991: 13.

 

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